Genere: Fantascienza, azione, commedia, horror.
1° libro della serie antologica SIGMA: Difesa Planetaria
Dai racconti pluripremiati Il Piano Astrale e Xenomelia nasce l'omonimo romanzo
«Facciamola pagare a quel bastardo».
«Che non veda la luce dell'alba».
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“La carne del moncherino iniziò a ribollire e una serie di lunghe propaggini che terminavano in aguzzi spuntoni ossei ne esplose in tutte le direzioni."
Daniel, uno psicoterapeuta, ha in cura un paziente che soffre di un raro disordine per cui non percepisce come parte del suo corpo la gamba sinistra ed esprime il desiderio di amputarla. Preoccupato che l’uomo possa fare qualcosa di avventato, Daniel contatta Alan, un amico d’infanzia che milita nei marines. Quello che scopriranno li catapulterà in una faccenda più grande di loro, tra una malattia misteriosa che non è ciò che sembra e una selva di organizzazioni segrete in perenne conflitto.
Trigger Warnings: violenza, linguaggio scurrile.
leggi i primi 3 capitoli
Prologo: il piano astrale
Cos’è la coscienza?
I filosofi greci la ricercavano nel sangue e nel respiro mentre oggi, grazie alle neuroscienze, abbiamo un’idea più precisa di dove potrebbe risiedere. Tuttavia, la questione è ancora molto dibattuta.
Mentre le recenti scoperte espandono i confini della conoscenza, nuove frontiere che fino a qualche decennio fa sembravano fantascienza divengono alla nostra portata. Oltre al tentativo di comprendere l’origine della coscienza bisogna chiedersi se essa sia qualcosa di fisico, individuabile, fisso all’interno del nostro corpo in determinati percorsi neurali, o se possa essere qualcosa di più volatile, capace di spostarsi nello spazio-tempo. Nel secondo caso, come definiremmo l’individuo? Esistiamo anche privi di corpo fisico, senza però conservarne memoria?
Sono sempre stato scettico riguardo argomenti quali “esperienze extracorporee” e “esperienze pre-morte”. Certo, riconoscevo che fossero reali per coloro che le vivevano, tuttavia, rifiutavo le connotazioni spirituali che venivano attribuite a tali fenomeni. Dopotutto, questi episodi avvenivano sempre in condizioni psichiche alterate e ritenevo non fossero altro che deliri di menti impazzite.
L’incidente, ovviamente, mi cambiò prospettiva.
Mentre guidavo per andare in laboratorio, come ogni mattina, sulla carreggiata opposta veniva un camion che trasportava tronchi d’albero. Ricordo poco di quanto accadde, solo qualche immagine confusa: i tronchi che precipitano in strada, l’impatto, la cintura di sicurezza che mi stringe in una morsa, la macchina che si ribalta.
Quando tornai cosciente mi trovavo in ospedale: ero finito sotto i ferri e ci ero rimasto per diverse ore. Tuttavia, ricordavo di aver assistito all’operazione come aleggiando sopra la testa del chirurgo. Osservando, in preda a uno strano senso d’intorpidimento, mentre questi estraeva le schegge di vetro e lamiera dal mio corpo.
Ricordo di aver percorso un tunnel buio, inseguendo una luce, ritrovandomi in un posto da sgranare gli occhi. Tutto era nitido e i colori avevano un’intensità mai vista prima, suoni cristallini danzavano nell’aria, la mia stessa forma era qualcosa di sorprendente: una riproduzione perfetta del mio corpo ma in qualche modo più sottile, meno densa, come composta da un qualche tipo di energia. Ricordo di essermi strofinato con le mani senza riuscire a venire a capo dello stato in cui mi trovavo e mentre cercavo di scendere a patti con la realtà, comparvero alcuni esseri ammantati di luce bianca che sembravano angeli. Mi sentii pervadere da un senso di pace, tanto intenso che lo percepisco anche ora, mentre scrivo, al solo riportarlo alla memoria. Mi calmai all’istante e, desideroso di instaurare un contatto, allungai una mano. In quel momento il mio corpo fisico mi richiamò a sé, prima che potessi anche solo sfiorare la creatura.
«Non ancora…», ricordo di aver implorato.
Ero stato dichiarato clinicamente morto per quasi tre minuti.
Da quel momento fui posseduto da un bisogno febbrile di ripetere l’esperienza e mi interessai allo studio della coscienza. Mi documentai sulle esperienze pre-morte e scoprii che ciò che avevo vissuto veniva descritto in maniera molto simile dalla maggior parte dei testimoni. Anche se l’interpretazione di ciò che avevano visto cambiava a seconda dall’ambiente culturale, l’incontro con qualche entità soprannaturale sembrava essere una costante, così come il senso di pace.
Spulciando la letteratura scientifica in merito all’argomento mi imbattei in alcuni studi pubblicati sulla prestigiosa rivista Science, i quali dimostravano quanto la prospettiva di visuale, in congiunzione con le correlate informazioni multisensoriali del corpo, fosse fondamentale affinché la coscienza venisse correttamente localizzata all’interno del corpo fisico.
È quindi possibile che durante le esperienze extracorporee la coscienza si separi dal corpo?
È possibile trascendere il mondo materiale?
Ogni giorno andavo in laboratorio e mi immergevo nella vasca di deprivazione sensoriale, ne richiudevo il coperchio galleggiando nella più completa oscurità, immerso in una soluzione salina che mi permetteva di rimanere sospeso senza sforzo: meno stimoli vengono offerti al corpo, più è semplice separarlo dalla coscienza. È necessario fare in modo che il corpo si addormenti, mantenendo vigile la mente. A un certo punto si possono sentire le estremità formicolare e si ha la sensazione di sollevarsi e abbandonare i confini del corpo, fluttuando un paio di metri sopra di esso. A quel punto è possibile slegare la coscienza in maniera definita e consapevole.
Mi allenai a lungo e, con il tempo, riuscii ad accedere ai piani energeticamente meno densi della materia, dove si credeva risiedessero gli spiriti e a muovermi come uno di essi attraverso lo spazio, oltrepassando aria e muri allo stesso modo.
I giorni si susseguivano uno dopo l’altro, entravo e uscivo dalla vasca di deprivazione sensoriale, ripercorrendo il processo di induzione di un’esperienza extracorporea come ormai ero abituato a fare. Passarono settimane, mesi, finché a un certo punto accadde: un lungo tunnel nero che conduceva verso una luce abbagliante si materializzò davanti ai miei occhi.
Lo percorsi.
Il luogo dove mi trovai era illuminato da una luce soffusa ma brillante al tempo stesso, i colori sembravano più vividi rispetto alla realtà a cui ero abituato e i suoni cristallini si propagavano come ovattati. Tutto sembrava così reale che rimasi sconcertato.
Il mondo sembrava corrispondere a una versione più eterea di quello reale ma non ne era una copia. Mediante un comando mentale spiccai il volo verso un albero e ne accarezzai il tronco. A differenza di quando sognavo, e mettendo alla prova le leggi della fisica, potevo diventare consapevole di star sognando, ora sapevo di non star sognando, eppure, le leggi della fisica non venivano rispettate.
Poi realizzai: le leggi venivano rispettate, semplicemente non erano le stesse!
Ero passato da un sistema governato dalla fisica classica a un sistema quantico, dove le leggi erano quelle della meccanica quantistica.
Allora mi tornarono alla mente le parole del fisico Roger Penrose, secondo cui la coscienza sarebbe originata da reazioni quantistiche che concorrono nella formazione delle onde cerebrali.
Si può davvero pensare a una coscienza quantistica? Una coscienza indipendente dal corpo fisico e in grado di sopravvivere alla sua morte per rimanere sotto varie forme nel multiverso?
Mentre riflettevo vidi avvicinarsi alcune creature di luce.
Non mi stupisco del fatto che la maggioranza delle culture preveda l’esistenza di esseri spirituali ammantati di luce che conferiscono un senso di pace, li avevo appena visti e subito mi sentii in armonia.
Uno di essi portò avanti la mano in un gesto armonico e alcuni granelli di terra si levarono dal suolo accorrendo e danzando attorno alle dita della creatura fino a dar vita a un fiore.
Che siano in grado manipolare la materia sottile di quel mondo a loro piacimento?
Allungai una mano, era da tanto tempo che desideravo instaurare un contatto. Quando fui talmente vicino da sfiorare la creatura, da essa scaturì una scarica elettrica talmente forte da emettere lo stesso crepitio di un fulmine e provocare il rombo di un tuono. Urlai e il dolore mi catapultò oltre il tunnel.
Mi svegliai, tremante nella vasca, e cercai di mettermi seduto, ma ero troppo debole. Riuscii a malapena a battere sulla parete. Quando i miei colleghi aprirono il coperchio e la luce del laboratorio mi investì, vidi che il braccio sinistro era ustionato.
Porto ancora oggi quelle cicatrici: la prova che è stato reale.
Lo sgomento per l’attacco lasciò presto spazio a una domanda che mi tormenta ancora oggi: se in quel momento ero composto di pura coscienza, come poteva il mio corpo aver subito il colpo?
Che possa essere un fenomeno legato all’entanglement quantistico? Due corpi strettamente interconnessi, in questo caso il mio corpo fisico e la mia coscienza, che, anche se separati nello spazio-tempo, subiscono entrambi gli effetti di ciò che accade all’altro, istantaneamente, forse connessi da un ponte di Einstein-Rosen, quello che viene comunemente chiamato wormhole, o attraverso una quinta dimensione?
Forse la mia mente sta correndo troppo.
Quello di cui sono certo è che ho scoperto un luogo nuovo, dove gli esseri umani possono accedere solo sotto forma di pura coscienza. Ho trovato il modo di trascendere questo mondo e muovermi su un piano di esistenza completamente diverso.
Il piano astrale.
I filosofi greci la ricercavano nel sangue e nel respiro mentre oggi, grazie alle neuroscienze, abbiamo un’idea più precisa di dove potrebbe risiedere. Tuttavia, la questione è ancora molto dibattuta.
Mentre le recenti scoperte espandono i confini della conoscenza, nuove frontiere che fino a qualche decennio fa sembravano fantascienza divengono alla nostra portata. Oltre al tentativo di comprendere l’origine della coscienza bisogna chiedersi se essa sia qualcosa di fisico, individuabile, fisso all’interno del nostro corpo in determinati percorsi neurali, o se possa essere qualcosa di più volatile, capace di spostarsi nello spazio-tempo. Nel secondo caso, come definiremmo l’individuo? Esistiamo anche privi di corpo fisico, senza però conservarne memoria?
Sono sempre stato scettico riguardo argomenti quali “esperienze extracorporee” e “esperienze pre-morte”. Certo, riconoscevo che fossero reali per coloro che le vivevano, tuttavia, rifiutavo le connotazioni spirituali che venivano attribuite a tali fenomeni. Dopotutto, questi episodi avvenivano sempre in condizioni psichiche alterate e ritenevo non fossero altro che deliri di menti impazzite.
L’incidente, ovviamente, mi cambiò prospettiva.
Mentre guidavo per andare in laboratorio, come ogni mattina, sulla carreggiata opposta veniva un camion che trasportava tronchi d’albero. Ricordo poco di quanto accadde, solo qualche immagine confusa: i tronchi che precipitano in strada, l’impatto, la cintura di sicurezza che mi stringe in una morsa, la macchina che si ribalta.
Quando tornai cosciente mi trovavo in ospedale: ero finito sotto i ferri e ci ero rimasto per diverse ore. Tuttavia, ricordavo di aver assistito all’operazione come aleggiando sopra la testa del chirurgo. Osservando, in preda a uno strano senso d’intorpidimento, mentre questi estraeva le schegge di vetro e lamiera dal mio corpo.
Ricordo di aver percorso un tunnel buio, inseguendo una luce, ritrovandomi in un posto da sgranare gli occhi. Tutto era nitido e i colori avevano un’intensità mai vista prima, suoni cristallini danzavano nell’aria, la mia stessa forma era qualcosa di sorprendente: una riproduzione perfetta del mio corpo ma in qualche modo più sottile, meno densa, come composta da un qualche tipo di energia. Ricordo di essermi strofinato con le mani senza riuscire a venire a capo dello stato in cui mi trovavo e mentre cercavo di scendere a patti con la realtà, comparvero alcuni esseri ammantati di luce bianca che sembravano angeli. Mi sentii pervadere da un senso di pace, tanto intenso che lo percepisco anche ora, mentre scrivo, al solo riportarlo alla memoria. Mi calmai all’istante e, desideroso di instaurare un contatto, allungai una mano. In quel momento il mio corpo fisico mi richiamò a sé, prima che potessi anche solo sfiorare la creatura.
«Non ancora…», ricordo di aver implorato.
Ero stato dichiarato clinicamente morto per quasi tre minuti.
Da quel momento fui posseduto da un bisogno febbrile di ripetere l’esperienza e mi interessai allo studio della coscienza. Mi documentai sulle esperienze pre-morte e scoprii che ciò che avevo vissuto veniva descritto in maniera molto simile dalla maggior parte dei testimoni. Anche se l’interpretazione di ciò che avevano visto cambiava a seconda dall’ambiente culturale, l’incontro con qualche entità soprannaturale sembrava essere una costante, così come il senso di pace.
Spulciando la letteratura scientifica in merito all’argomento mi imbattei in alcuni studi pubblicati sulla prestigiosa rivista Science, i quali dimostravano quanto la prospettiva di visuale, in congiunzione con le correlate informazioni multisensoriali del corpo, fosse fondamentale affinché la coscienza venisse correttamente localizzata all’interno del corpo fisico.
È quindi possibile che durante le esperienze extracorporee la coscienza si separi dal corpo?
È possibile trascendere il mondo materiale?
Ogni giorno andavo in laboratorio e mi immergevo nella vasca di deprivazione sensoriale, ne richiudevo il coperchio galleggiando nella più completa oscurità, immerso in una soluzione salina che mi permetteva di rimanere sospeso senza sforzo: meno stimoli vengono offerti al corpo, più è semplice separarlo dalla coscienza. È necessario fare in modo che il corpo si addormenti, mantenendo vigile la mente. A un certo punto si possono sentire le estremità formicolare e si ha la sensazione di sollevarsi e abbandonare i confini del corpo, fluttuando un paio di metri sopra di esso. A quel punto è possibile slegare la coscienza in maniera definita e consapevole.
Mi allenai a lungo e, con il tempo, riuscii ad accedere ai piani energeticamente meno densi della materia, dove si credeva risiedessero gli spiriti e a muovermi come uno di essi attraverso lo spazio, oltrepassando aria e muri allo stesso modo.
I giorni si susseguivano uno dopo l’altro, entravo e uscivo dalla vasca di deprivazione sensoriale, ripercorrendo il processo di induzione di un’esperienza extracorporea come ormai ero abituato a fare. Passarono settimane, mesi, finché a un certo punto accadde: un lungo tunnel nero che conduceva verso una luce abbagliante si materializzò davanti ai miei occhi.
Lo percorsi.
Il luogo dove mi trovai era illuminato da una luce soffusa ma brillante al tempo stesso, i colori sembravano più vividi rispetto alla realtà a cui ero abituato e i suoni cristallini si propagavano come ovattati. Tutto sembrava così reale che rimasi sconcertato.
Il mondo sembrava corrispondere a una versione più eterea di quello reale ma non ne era una copia. Mediante un comando mentale spiccai il volo verso un albero e ne accarezzai il tronco. A differenza di quando sognavo, e mettendo alla prova le leggi della fisica, potevo diventare consapevole di star sognando, ora sapevo di non star sognando, eppure, le leggi della fisica non venivano rispettate.
Poi realizzai: le leggi venivano rispettate, semplicemente non erano le stesse!
Ero passato da un sistema governato dalla fisica classica a un sistema quantico, dove le leggi erano quelle della meccanica quantistica.
Allora mi tornarono alla mente le parole del fisico Roger Penrose, secondo cui la coscienza sarebbe originata da reazioni quantistiche che concorrono nella formazione delle onde cerebrali.
Si può davvero pensare a una coscienza quantistica? Una coscienza indipendente dal corpo fisico e in grado di sopravvivere alla sua morte per rimanere sotto varie forme nel multiverso?
Mentre riflettevo vidi avvicinarsi alcune creature di luce.
Non mi stupisco del fatto che la maggioranza delle culture preveda l’esistenza di esseri spirituali ammantati di luce che conferiscono un senso di pace, li avevo appena visti e subito mi sentii in armonia.
Uno di essi portò avanti la mano in un gesto armonico e alcuni granelli di terra si levarono dal suolo accorrendo e danzando attorno alle dita della creatura fino a dar vita a un fiore.
Che siano in grado manipolare la materia sottile di quel mondo a loro piacimento?
Allungai una mano, era da tanto tempo che desideravo instaurare un contatto. Quando fui talmente vicino da sfiorare la creatura, da essa scaturì una scarica elettrica talmente forte da emettere lo stesso crepitio di un fulmine e provocare il rombo di un tuono. Urlai e il dolore mi catapultò oltre il tunnel.
Mi svegliai, tremante nella vasca, e cercai di mettermi seduto, ma ero troppo debole. Riuscii a malapena a battere sulla parete. Quando i miei colleghi aprirono il coperchio e la luce del laboratorio mi investì, vidi che il braccio sinistro era ustionato.
Porto ancora oggi quelle cicatrici: la prova che è stato reale.
Lo sgomento per l’attacco lasciò presto spazio a una domanda che mi tormenta ancora oggi: se in quel momento ero composto di pura coscienza, come poteva il mio corpo aver subito il colpo?
Che possa essere un fenomeno legato all’entanglement quantistico? Due corpi strettamente interconnessi, in questo caso il mio corpo fisico e la mia coscienza, che, anche se separati nello spazio-tempo, subiscono entrambi gli effetti di ciò che accade all’altro, istantaneamente, forse connessi da un ponte di Einstein-Rosen, quello che viene comunemente chiamato wormhole, o attraverso una quinta dimensione?
Forse la mia mente sta correndo troppo.
Quello di cui sono certo è che ho scoperto un luogo nuovo, dove gli esseri umani possono accedere solo sotto forma di pura coscienza. Ho trovato il modo di trascendere questo mondo e muovermi su un piano di esistenza completamente diverso.
Il piano astrale.
Xenomelia
«Posso praticamente disegnare una linea», disse l’uomo sollevando l’orlo sinistro dei pantaloni e tirando con foga quando rimasero bloccati appena sotto il ginocchio. Emise un brontolio rassegnandosi che non sarebbero saliti oltre e adottò l’approccio inverso portando le mani alla cintura. Si bloccò all’improvviso come realizzando solo in quel momento che si stava togliendo i pantaloni.
«Posso?», chiese con la cintura mezza slacciata.
Daniel aveva le sopracciglia inarcate. Non era consuetudine che i pazienti si spogliassero durante una seduta… ma d'altronde, il Signor Campbell non era un paziente comune, soffriva di una patologia estremamente rara e se questo era importante per lui…
«Prego», disse facendogli cenno di continuare.
Il Signor Campbell calò i pantaloni.
«Ha un pennarello?», chiese con la cintola alle caviglie.
Daniel scrutò la scrivania, individuò una penna e gliela porse rimanendo a guardarlo con la testa leggermente piegata di lato. Campbell si rimise a sedere e iniziò a disegnare con dovizia un cerchio nero attorno alla coscia. Quando ebbe finito alzò lo sguardo, soddisfatto di sé.
«Da qui in giù questa gamba non mi appartiene e la vorrei amputare!», il petto gli si alzava e abbassava e il respiro era pesante. «Sono stanco di aspettare!».
Daniel unì le mani e portò le dita alle labbra. La xenomelia era una patologia su cui la scienza non aveva ancora fatto luce ed esistevano solo congetture riguardo la sua origine. Nei soggetti malati esisteva una differenza tra il corpo fisico e la sua l’immagine mentale. Questo portava a una disforia dell’integrità corporea per cui i pazienti non riconoscevano come parte del proprio corpo uno o più arti. A quanto pareva, pensò Daniel osservando la gamba del Signor Campbell, questa percezione era talmente precisa da poter disegnare una linea di demarcazione.
«Se è il caso ci arriveremo, ma la prego di capire che è ancora presto per autorizzare l’operazione».
«Non lo è per me, Dottor Berg… ci convivo da quando ho memoria, non ne posso più…».
«Esistono altre patologie che possono produrre effetti simili ma transitori, devo essere certo della diagnosi prima di autorizzare un’amputazione di cui potrebbe pentirsi in futuro».
«Mi creda, non è transitoria affatto!».
«Comprendo che per lei sia un problema persistente, ma si è rivolto a me per cercare aiuto e la sua condizione è estremamente rara e poco documentata, sto procedendo a piccoli passi per essere sicuro di fare ciò che è meglio per lei…».
Il paziente non rispose e, dal momento che la seduta era terminata, Daniel riprese la parola.
«Facciamo così: nei prossimi giorni farò delle ricerche approfondite alla luce di ciò che mi ha rivelato oggi e la settimana prossima ne parleremo più in dettaglio».
Campbell annuì e si alzò, andò a prendere la giacca e l’appoggiò sull’avambraccio, rimanendo in silenzio.
«Vorrei solo che capisse che sto procedendo con i piedi di piombo per essere sicuro di non compiere errori, per il suo bene».
«Io la capisco, dottore, ma non intendo aspettare ancora…», disse lui spalancando la porta dello studio per poi richiuderla dietro di sé.
Daniel inspirò profondamente ed esalò piano, l’ultima frase gli aveva lasciato una punta d’ansia che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso. Era l’ultimo paziente della giornata quindi poteva finalmente concedersi un po’ di riposo. Si alzò e distese le braccia e il collo i quali scrocchiarono, lamentando la posizione statica che era costretto a mantenere per la maggior parte del tempo.
Fece un passo.
Un passo con una gamba che percepiva come sua.
Cercò per l’ennesima volta di immedesimarsi in Campbell: quanto doveva essere difficile vivere con un arto che non si avvertiva come proprio? Anzi, con un arto che si percepiva come una massa estranea attaccata al proprio corpo. Non c’era da stupirsi che i pazienti xenomelici desiderassero l’amputazione.
Andò alla cassettiera, prese un bicchiere e la bottiglia di rum che teneva nascosta nel primo scomparto. Campbell era un ex-alcolista e non voleva che vedesse liquori durante le sedute. Sarebbe stato sconveniente oltre che poco professionale, ma un drink a fine giornata era necessario. Versò due dita e inspirò il complesso bouquet del rum, con sentori di vaniglia e frutta secca.
Campbell era stato in terapia da lui per anni prima di rivelare il suo desiderio di amputazione. I pazienti xenomelici erano sempre molto restii a rivelare i loro desideri, si rendevano conto di quanto folle potesse suonare alle orecchie di chiunque altro. Le persone che ne soffrivano erano talmente poche, meno di una su centomila, che spulciando la letteratura scientifica aveva trovato solo undici articoli che ne parlavano, il più vasto dei quali contava quindici pazienti: un campione estremamente ridotto.
Bevve un sorso.
Dopo essersi informato a dovere aveva capito come mai il Signor Campbell avesse iniziato a bere in primo luogo: questa patologia si manifestava fin dall’infanzia. Passare decenni della propria vita con il desiderio segreto di amputarsi la gamba sinistra doveva essere stato logorante. Tuttavia, sintomi simili a quelli della xenomelia potevano essere dati transitoriamente da altre patologie, come la schizofrenia, quindi era necessario che la diagnosi fosse accurata prima di procedere legalmente all’amputazione. Dopotutto, si trattava di tagliar via un arto perfettamente sano, il che sollevava diversi problemi etici: trattare un paziente causandogli una disabilità fisica non era certo l’obiettivo finale della medicina. In ogni caso, finché non si fosse scoperto come intervenire sul cervello, non c’era altra soluzione possibile. Un’amputazione chirurgica in condizioni di sicurezza era comunque preferibile al lasciare che i pazienti si autodanneggiassero gli arti indesiderati, rischiando di perdere la vita.
Andò alla finestra, sorseggiando il rum, mentre guardava le nuvole tingersi di rosso ai caldi raggi del sole calante. Non poteva fare a meno di essere affascinato da quella misteriosa patologia. I pazienti che ne erano affetti erano talmente pochi che ogni singolo caso in più che veniva scoperto poteva fornire informazioni molto importanti.
Sperava solo di riuscire a chiudere l’iter legale del Signor Campbell prima che facesse qualcosa di stupido… era noto che a volte cercavano di amputarsi gli arti da soli o massacrarli a tal punto da rendere l’amputazione l’unica alternativa. Un paziente aveva finto un incidente in bicicletta nei pressi di un passaggio a livello per fare in modo che fosse il treno a compiere il lavoro sporco, mentre un altro aveva congelato la gamba con del ghiaccio secco e i medici non avevano potuto fare altro che amputarla.
A un tratto ebbe un flash, quella punta di ansia lasciata dalle ultime parole di Campbell si concretizzò in un’ipotesi fin troppo realistica: che avesse intenzione di procedere all’amputazione da solo?
Appoggiò il bicchiere sulla scrivania e prese il taccuino sfogliandone a ritroso le pagine, giunse agli appunti di una seduta datata due mesi prima, quando Campbell gli aveva parlato per la prima volta della sua effettiva condizione. Aveva detto di essere stato contattato da una onlus che si occupava di malattie rare che si era detta disposta ad aiutarlo, non aveva però specificato la natura dell’aiuto, sicuramente economico, ricordava di aver pensato, ma se invece si fossero proposti di operarlo illegalmente? No, non era possibile, stava correndo troppo con la mente, eppure…
«Stupido…», disse rivolto a sé stesso.
Campbell non ne aveva fatto più menzione e lui era troppo eccitato dall’avere per le mani un caso così raro e misterioso che aveva dimenticato quel dettaglio. Tamburellò coi polpastrelli sul legno, poi accarezzò la superfice liscia del bicchiere.
«Non saltare a conclusioni affrettate…», bevve un sorso.
Passò l’ora successiva a fare ricerche online su tutte le onlus che si occupavano di malattie gravi ma non ne trovò nessuna che operava nella zona e nemmeno che menzionasse xenomelici tra i pazienti che avevano aiutato.
La risolutezza che aveva sentito nelle ultime parole di Campbell gli echeggiava nella mente.
Che veramente potesse essere un’organizzazione che si era proposta di operarlo illegalmente? O che, ancora peggio, fosse collegata al commercio di organi al mercato nero? La sua mente correva come impazzita e anche se sapeva di star esagerando non riusciva a scrollarsi di dosso quella brutta sensazione che gli stringeva lo stomaco.
Controllò i dati personali di Campbell e risalì al suo indirizzo e numero telefonico. Non era un comportamento professionale ma sentiva di dover controllare, magari si stava facendo solo dei film mentali e avrebbe semplicemente incontrato altri potenziali pazienti ma…
Tracannò l’ultimo goccio di rum e rimise la bottiglia nel cassetto. Uscì dallo studio, prese l’ascensore per raggiungere la macchina. Si diresse a casa di Campbell.
Citofonò.
Nessuna risposta
Chiamò il numero di cellulare.
Nessuna risposta.
«Merda…», mormorò tra sé e sé, che fosse già andato chissà dove? «Stai diventando paranoico…».
Ma più cercava di convincersi più la brutta sensazione si radicava nella sua mente e sentiva il bisogno di rintracciare quello che era senza dubbio il paziente più interessante che gli era mai capitato nella sua breve carriera.
Era rimasta una sola opzione: rintracciare lo smartphone, e sapeva esattamente a chi avrebbe potuto chiedere.
«Posso?», chiese con la cintura mezza slacciata.
Daniel aveva le sopracciglia inarcate. Non era consuetudine che i pazienti si spogliassero durante una seduta… ma d'altronde, il Signor Campbell non era un paziente comune, soffriva di una patologia estremamente rara e se questo era importante per lui…
«Prego», disse facendogli cenno di continuare.
Il Signor Campbell calò i pantaloni.
«Ha un pennarello?», chiese con la cintola alle caviglie.
Daniel scrutò la scrivania, individuò una penna e gliela porse rimanendo a guardarlo con la testa leggermente piegata di lato. Campbell si rimise a sedere e iniziò a disegnare con dovizia un cerchio nero attorno alla coscia. Quando ebbe finito alzò lo sguardo, soddisfatto di sé.
«Da qui in giù questa gamba non mi appartiene e la vorrei amputare!», il petto gli si alzava e abbassava e il respiro era pesante. «Sono stanco di aspettare!».
Daniel unì le mani e portò le dita alle labbra. La xenomelia era una patologia su cui la scienza non aveva ancora fatto luce ed esistevano solo congetture riguardo la sua origine. Nei soggetti malati esisteva una differenza tra il corpo fisico e la sua l’immagine mentale. Questo portava a una disforia dell’integrità corporea per cui i pazienti non riconoscevano come parte del proprio corpo uno o più arti. A quanto pareva, pensò Daniel osservando la gamba del Signor Campbell, questa percezione era talmente precisa da poter disegnare una linea di demarcazione.
«Se è il caso ci arriveremo, ma la prego di capire che è ancora presto per autorizzare l’operazione».
«Non lo è per me, Dottor Berg… ci convivo da quando ho memoria, non ne posso più…».
«Esistono altre patologie che possono produrre effetti simili ma transitori, devo essere certo della diagnosi prima di autorizzare un’amputazione di cui potrebbe pentirsi in futuro».
«Mi creda, non è transitoria affatto!».
«Comprendo che per lei sia un problema persistente, ma si è rivolto a me per cercare aiuto e la sua condizione è estremamente rara e poco documentata, sto procedendo a piccoli passi per essere sicuro di fare ciò che è meglio per lei…».
Il paziente non rispose e, dal momento che la seduta era terminata, Daniel riprese la parola.
«Facciamo così: nei prossimi giorni farò delle ricerche approfondite alla luce di ciò che mi ha rivelato oggi e la settimana prossima ne parleremo più in dettaglio».
Campbell annuì e si alzò, andò a prendere la giacca e l’appoggiò sull’avambraccio, rimanendo in silenzio.
«Vorrei solo che capisse che sto procedendo con i piedi di piombo per essere sicuro di non compiere errori, per il suo bene».
«Io la capisco, dottore, ma non intendo aspettare ancora…», disse lui spalancando la porta dello studio per poi richiuderla dietro di sé.
Daniel inspirò profondamente ed esalò piano, l’ultima frase gli aveva lasciato una punta d’ansia che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso. Era l’ultimo paziente della giornata quindi poteva finalmente concedersi un po’ di riposo. Si alzò e distese le braccia e il collo i quali scrocchiarono, lamentando la posizione statica che era costretto a mantenere per la maggior parte del tempo.
Fece un passo.
Un passo con una gamba che percepiva come sua.
Cercò per l’ennesima volta di immedesimarsi in Campbell: quanto doveva essere difficile vivere con un arto che non si avvertiva come proprio? Anzi, con un arto che si percepiva come una massa estranea attaccata al proprio corpo. Non c’era da stupirsi che i pazienti xenomelici desiderassero l’amputazione.
Andò alla cassettiera, prese un bicchiere e la bottiglia di rum che teneva nascosta nel primo scomparto. Campbell era un ex-alcolista e non voleva che vedesse liquori durante le sedute. Sarebbe stato sconveniente oltre che poco professionale, ma un drink a fine giornata era necessario. Versò due dita e inspirò il complesso bouquet del rum, con sentori di vaniglia e frutta secca.
Campbell era stato in terapia da lui per anni prima di rivelare il suo desiderio di amputazione. I pazienti xenomelici erano sempre molto restii a rivelare i loro desideri, si rendevano conto di quanto folle potesse suonare alle orecchie di chiunque altro. Le persone che ne soffrivano erano talmente poche, meno di una su centomila, che spulciando la letteratura scientifica aveva trovato solo undici articoli che ne parlavano, il più vasto dei quali contava quindici pazienti: un campione estremamente ridotto.
Bevve un sorso.
Dopo essersi informato a dovere aveva capito come mai il Signor Campbell avesse iniziato a bere in primo luogo: questa patologia si manifestava fin dall’infanzia. Passare decenni della propria vita con il desiderio segreto di amputarsi la gamba sinistra doveva essere stato logorante. Tuttavia, sintomi simili a quelli della xenomelia potevano essere dati transitoriamente da altre patologie, come la schizofrenia, quindi era necessario che la diagnosi fosse accurata prima di procedere legalmente all’amputazione. Dopotutto, si trattava di tagliar via un arto perfettamente sano, il che sollevava diversi problemi etici: trattare un paziente causandogli una disabilità fisica non era certo l’obiettivo finale della medicina. In ogni caso, finché non si fosse scoperto come intervenire sul cervello, non c’era altra soluzione possibile. Un’amputazione chirurgica in condizioni di sicurezza era comunque preferibile al lasciare che i pazienti si autodanneggiassero gli arti indesiderati, rischiando di perdere la vita.
Andò alla finestra, sorseggiando il rum, mentre guardava le nuvole tingersi di rosso ai caldi raggi del sole calante. Non poteva fare a meno di essere affascinato da quella misteriosa patologia. I pazienti che ne erano affetti erano talmente pochi che ogni singolo caso in più che veniva scoperto poteva fornire informazioni molto importanti.
Sperava solo di riuscire a chiudere l’iter legale del Signor Campbell prima che facesse qualcosa di stupido… era noto che a volte cercavano di amputarsi gli arti da soli o massacrarli a tal punto da rendere l’amputazione l’unica alternativa. Un paziente aveva finto un incidente in bicicletta nei pressi di un passaggio a livello per fare in modo che fosse il treno a compiere il lavoro sporco, mentre un altro aveva congelato la gamba con del ghiaccio secco e i medici non avevano potuto fare altro che amputarla.
A un tratto ebbe un flash, quella punta di ansia lasciata dalle ultime parole di Campbell si concretizzò in un’ipotesi fin troppo realistica: che avesse intenzione di procedere all’amputazione da solo?
Appoggiò il bicchiere sulla scrivania e prese il taccuino sfogliandone a ritroso le pagine, giunse agli appunti di una seduta datata due mesi prima, quando Campbell gli aveva parlato per la prima volta della sua effettiva condizione. Aveva detto di essere stato contattato da una onlus che si occupava di malattie rare che si era detta disposta ad aiutarlo, non aveva però specificato la natura dell’aiuto, sicuramente economico, ricordava di aver pensato, ma se invece si fossero proposti di operarlo illegalmente? No, non era possibile, stava correndo troppo con la mente, eppure…
«Stupido…», disse rivolto a sé stesso.
Campbell non ne aveva fatto più menzione e lui era troppo eccitato dall’avere per le mani un caso così raro e misterioso che aveva dimenticato quel dettaglio. Tamburellò coi polpastrelli sul legno, poi accarezzò la superfice liscia del bicchiere.
«Non saltare a conclusioni affrettate…», bevve un sorso.
Passò l’ora successiva a fare ricerche online su tutte le onlus che si occupavano di malattie gravi ma non ne trovò nessuna che operava nella zona e nemmeno che menzionasse xenomelici tra i pazienti che avevano aiutato.
La risolutezza che aveva sentito nelle ultime parole di Campbell gli echeggiava nella mente.
Che veramente potesse essere un’organizzazione che si era proposta di operarlo illegalmente? O che, ancora peggio, fosse collegata al commercio di organi al mercato nero? La sua mente correva come impazzita e anche se sapeva di star esagerando non riusciva a scrollarsi di dosso quella brutta sensazione che gli stringeva lo stomaco.
Controllò i dati personali di Campbell e risalì al suo indirizzo e numero telefonico. Non era un comportamento professionale ma sentiva di dover controllare, magari si stava facendo solo dei film mentali e avrebbe semplicemente incontrato altri potenziali pazienti ma…
Tracannò l’ultimo goccio di rum e rimise la bottiglia nel cassetto. Uscì dallo studio, prese l’ascensore per raggiungere la macchina. Si diresse a casa di Campbell.
Citofonò.
Nessuna risposta
Chiamò il numero di cellulare.
Nessuna risposta.
«Merda…», mormorò tra sé e sé, che fosse già andato chissà dove? «Stai diventando paranoico…».
Ma più cercava di convincersi più la brutta sensazione si radicava nella sua mente e sentiva il bisogno di rintracciare quello che era senza dubbio il paziente più interessante che gli era mai capitato nella sua breve carriera.
Era rimasta una sola opzione: rintracciare lo smartphone, e sapeva esattamente a chi avrebbe potuto chiedere.
* * *
«Crepa!», urlò Alan scaricando l’AK-47 sull’alieno grigiastro che sibilò di dolore scoprendo tre file di denti seghettati.
I suoi commilitoni stavano sistemando le barricate come meglio potevano, creare un perimetro sicuro sembrava un’impresa impossibile. Gli alieni saltavano oltre le palizzate o cercavano di demolirle stridendo come impazziti. Buttò il caricatore vuoto e ne inserì un altro appena in tempo per abbattere una creatura dalle lunghe zampe e il corpo longilineo che gli si stava gettando addosso. Sfruttando la copertura di un’auto, si appoggiò sul cofano per darsi stabilità e sparò su tutto ciò che vedeva muoversi nell’erba alta della campagna.
«Zona est sotto controllo», disse. «Jack, come va con la barricata?».
«È complet… ma arriv… branco!», urlò lui alle sue spalle, il segnale era disturbato. «Non… fermarli… raggiunger… città».
Bzzz…
Come se questo non bastasse, sentì vibrare il telefono. Chi diavolo doveva chiamarlo proprio in quel momento?!
Bzzz…
Lo ignorò. Chiunque fosse, poteva aspettare.
«Portate il carro col vulcan e sistematelo al centro», disse. «Dobbiamo fermarli qui!».
Bzzz…
Dalla zona buia oltre al perimetro improvvisato giungevano i latrati e gli stridii degli alieni che si lanciavano alla carica, erano di ogni forma e dimensione.
Bzzz…
«E che cazzo!», lanciò una granata al fosforo e afferrò il telefono. Scostò una cuffia dell’headset e rispose alla chiamata reggendolo con la spalla.
«Ciao Alan», gli arrivò la voce di Daniel.
«Ciao bestia!», proruppe lui. «Se chiami per un paio di birre in serata ci sono!».
«Ne abbiamo bevute più di un paio giusto ieri, quanto puoi essere festaiolo?».
«Finché sono in licenza, ogni sera è festa!».
«Hey marine, meno birra e più pallottole», gli giunse nell’orecchio sinistro. «Sei già abbastanza scarso quando non ti distrai».
«Ah non cagatemi il cazzo, sono al telefono».
«Giochi con… marine, …arà bravo, dicevano».
«Ma piantala, dammene uno vero e vedi come te li impallino questi alieni! E cambia le cuffie Kyle, queste fanno cagare».
«Alan?».
«Scusa Daniel, sto giocando con gli altri, dicevi?».
«Mi serve il tuo aiuto con una faccenda…».
«Che tipo di faccenda?».
«Una da discutere in privato…».
«Ok, ok, datemi un secondo ragazzi».
«Hey non starai andando afk?», giunse dall’orecchio sinistro. «Stiamo tutti morendo».
«Tranquilli, muto solo il microfono».
«Per la mir… che ha… online o afk ca… bia poco».
«Fanculo, Kyle», disse Alan togliendosi l’headset e appoggiandolo sul divano senza smettere di sparare. «Sono tutto tuo Daniel, che hai combinato?».
«Devo rintracciare il telefono di un paziente».
«Pedinare le persone è illegale».
«Non lo sto pedinando…».
«Lo stai… seguendo per controllarne spostamenti e comportamenti?».
«Possiamo dire di sì…».
«Non vorrei rovinarti la festa ma è la definizione di pedinare».
«E va bene, lo sto pedinando», sbottò Daniel. «Sei contento ora?».
«Non proprio: pedinare le persone è illegale».
«Hai intenzione di aiutarmi oppure no?».
«Sì, certo!».
«Ci vediamo tra mezzora al Waffle Diner sulla venticinquesima».
«Facciamo un’oretta».
«Non c’è tempo Alan, va fatto stasera».
«Non ci vorrà molto».
«Gli altri vivono online, puoi continuare domani, questa cosa va fatta subito».
«Ah giusto, perché dopo averlo rintracciato vuoi pedinarlo».
«Sì… esatto…».
«Ok, parto subito».
«Bene».
«Se arrivi prima tu ordinami una cheesecake».
«Al Waffle Diner dovrei ordinare una cheesecake?».
«Non mi piacciono i waffle, sono troppo dolci».
«E la cheesecake no?».
«La cheesecake può permettersi tutto!».
«Ok… se lo dici tu…», Alan poté percepire che l’amico stava scuotendo la testa dal tono di voce. «Ci vediamo lì tra mezzora».
«A tra poco!», Alan rimise l’headset. «Mi spiace ragazzi ma devo andare».
«Siamo a metà missione!».
«Eh non ho più tempo mi spiace».
«Devi andare a nanna?».
«No, a mangiare una cheesecake».
«Ci stai piantando in asso per quella rossa?».
«Mi piacerebbe…».
«Tanto non te la dà».
«Ma la volete smettere?».
«Massì vai pure, nessun rancore».
Ra-ta-ta-ta
I suoi commilitoni stavano sistemando le barricate come meglio potevano, creare un perimetro sicuro sembrava un’impresa impossibile. Gli alieni saltavano oltre le palizzate o cercavano di demolirle stridendo come impazziti. Buttò il caricatore vuoto e ne inserì un altro appena in tempo per abbattere una creatura dalle lunghe zampe e il corpo longilineo che gli si stava gettando addosso. Sfruttando la copertura di un’auto, si appoggiò sul cofano per darsi stabilità e sparò su tutto ciò che vedeva muoversi nell’erba alta della campagna.
«Zona est sotto controllo», disse. «Jack, come va con la barricata?».
«È complet… ma arriv… branco!», urlò lui alle sue spalle, il segnale era disturbato. «Non… fermarli… raggiunger… città».
Bzzz…
Come se questo non bastasse, sentì vibrare il telefono. Chi diavolo doveva chiamarlo proprio in quel momento?!
Bzzz…
Lo ignorò. Chiunque fosse, poteva aspettare.
«Portate il carro col vulcan e sistematelo al centro», disse. «Dobbiamo fermarli qui!».
Bzzz…
Dalla zona buia oltre al perimetro improvvisato giungevano i latrati e gli stridii degli alieni che si lanciavano alla carica, erano di ogni forma e dimensione.
Bzzz…
«E che cazzo!», lanciò una granata al fosforo e afferrò il telefono. Scostò una cuffia dell’headset e rispose alla chiamata reggendolo con la spalla.
«Ciao Alan», gli arrivò la voce di Daniel.
«Ciao bestia!», proruppe lui. «Se chiami per un paio di birre in serata ci sono!».
«Ne abbiamo bevute più di un paio giusto ieri, quanto puoi essere festaiolo?».
«Finché sono in licenza, ogni sera è festa!».
«Hey marine, meno birra e più pallottole», gli giunse nell’orecchio sinistro. «Sei già abbastanza scarso quando non ti distrai».
«Ah non cagatemi il cazzo, sono al telefono».
«Giochi con… marine, …arà bravo, dicevano».
«Ma piantala, dammene uno vero e vedi come te li impallino questi alieni! E cambia le cuffie Kyle, queste fanno cagare».
«Alan?».
«Scusa Daniel, sto giocando con gli altri, dicevi?».
«Mi serve il tuo aiuto con una faccenda…».
«Che tipo di faccenda?».
«Una da discutere in privato…».
«Ok, ok, datemi un secondo ragazzi».
«Hey non starai andando afk?», giunse dall’orecchio sinistro. «Stiamo tutti morendo».
«Tranquilli, muto solo il microfono».
«Per la mir… che ha… online o afk ca… bia poco».
«Fanculo, Kyle», disse Alan togliendosi l’headset e appoggiandolo sul divano senza smettere di sparare. «Sono tutto tuo Daniel, che hai combinato?».
«Devo rintracciare il telefono di un paziente».
«Pedinare le persone è illegale».
«Non lo sto pedinando…».
«Lo stai… seguendo per controllarne spostamenti e comportamenti?».
«Possiamo dire di sì…».
«Non vorrei rovinarti la festa ma è la definizione di pedinare».
«E va bene, lo sto pedinando», sbottò Daniel. «Sei contento ora?».
«Non proprio: pedinare le persone è illegale».
«Hai intenzione di aiutarmi oppure no?».
«Sì, certo!».
«Ci vediamo tra mezzora al Waffle Diner sulla venticinquesima».
«Facciamo un’oretta».
«Non c’è tempo Alan, va fatto stasera».
«Non ci vorrà molto».
«Gli altri vivono online, puoi continuare domani, questa cosa va fatta subito».
«Ah giusto, perché dopo averlo rintracciato vuoi pedinarlo».
«Sì… esatto…».
«Ok, parto subito».
«Bene».
«Se arrivi prima tu ordinami una cheesecake».
«Al Waffle Diner dovrei ordinare una cheesecake?».
«Non mi piacciono i waffle, sono troppo dolci».
«E la cheesecake no?».
«La cheesecake può permettersi tutto!».
«Ok… se lo dici tu…», Alan poté percepire che l’amico stava scuotendo la testa dal tono di voce. «Ci vediamo lì tra mezzora».
«A tra poco!», Alan rimise l’headset. «Mi spiace ragazzi ma devo andare».
«Siamo a metà missione!».
«Eh non ho più tempo mi spiace».
«Devi andare a nanna?».
«No, a mangiare una cheesecake».
«Ci stai piantando in asso per quella rossa?».
«Mi piacerebbe…».
«Tanto non te la dà».
«Ma la volete smettere?».
«Massì vai pure, nessun rancore».
Ra-ta-ta-ta
You Died
«Dai, ma c’era bisogno?!», sbottò Alan senza riuscire a trattenere le risate.
«Buona serata!».
«Ciao ragazzi, buona partita».
Ripose l’headset e spense il computer. Andò in camera: avrebbe avuto bisogno di un po’ di equipaggiamento.
«Buona serata!».
«Ciao ragazzi, buona partita».
Ripose l’headset e spense il computer. Andò in camera: avrebbe avuto bisogno di un po’ di equipaggiamento.
* * *
Il Waffle Diner era un vecchio locale dalle pareti fatiscenti ma all’interno si percepiva un’atmosfera casalinga. Daniel non sapeva dire a cosa fosse dovuto, forse all’arredamento semplice, quasi rustico, forse alle luci calde tendenti al giallo, forse al fatto che lo frequentavano fin da bambini e il sapore dei dolci non era cambiato da allora.
«Perché non hai chiamato la polizia?», chiese Alan dando una forchettata alla cheesecake ai frutti di bosco.
«Non volevo fare l’allarmista, è solo un mio sospetto, non ho alcuna prova concreta…».
«Sì, capisco, però sappi che se poi vorrai chiamarla sarà bene che ti inventi una buona scusa», disse tirando fuori un piccolo computer portatile dallo zaino. «Quello che stiamo per fare non è esattamente legale…».
«Immaginavo», disse Daniel porgendogli il biglietto su cui aveva scritto il numero di Campbell.
Alan iniziò a smanettare col computer.
«Non sapevo avessi accesso al database della polizia».
«Incredibile, eh?».
«Tutti al corpo dei marines possono accedervi?».
«No, no!», rise Alan. «Lo sto hackerando».
Daniel sgranò gli occhi.
«È un crimine federale…».
«Sì».
«Si va in prigione per parecchio tempo per ‘ste cose».
«Sì».
«Come…?».
«Ho un amico in un giro di software pirata, dei pazzi antigovernativi, non te li raccomando, ma tornano utili!».
«Ok…», Daniel sentì la bocca improvvisamente asciutta. «Non voglio sapere altro, nel caso ci arrestino».
«Ma va’… Dick è un tipo a posto, il suo codice è buono».
«Ti sei fidato di un hacker di nome Dick?».
«No, ho controllato il codice e fatto qualche modifica ma in generale il suo non era male».
«Non era male?».
«Sì, non credo che i federali riusciranno a beccarlo tanto presto».
Daniel si grattò la nuca.
«E il tuo codice?».
«A prova di bomba», disse colpendo il tasto invio con uno svolazzo della mano. «Ecco fatto. Ora è solo questione di tempo».
«Prima che ci arrestino?».
«Ma smettila! Sei tu quello che pedina le persone per hobby».
«Ok, ok… grazie», disse Daniel continuando a sorseggiare il caffè che ora si pentiva di aver ordinato, con tutto quel parlare di crimini informatici era già nervoso, forse avrebbe dovuto bere una camomilla.
Dal canto suo, Alan si ributtò sulla cheesecake.
«È ottima!», disse parlando a bocca piena. «Dovrebbero cambiargli nome e chiamarlo Cheesecake Diner».
«Diglielo tu, la cameriera mi ha guardato male anche solo per non aver ordinato un waffle…».
«Avresti potuto prenderne uno per te».
«Non ho fame, tutta questa storia mi ha fatto passare l’appetito».
«Io quando sono nervoso mangio».
«Tu mangi quando sei qualsiasi cosa».
Alan sogghignò e allontanò il piatto vuoto.
«Ricerca finita», disse. «Si trova in periferia, a oltre trenta isolati da qui, all’interno di un edificio abbandonato».
«Prendiamo la mia macchina», disse Daniel afferrando la giacca.
«Prendiamo la mia», ribatté Alan.
«Se preferisci…».
«Perché non hai chiamato la polizia?», chiese Alan dando una forchettata alla cheesecake ai frutti di bosco.
«Non volevo fare l’allarmista, è solo un mio sospetto, non ho alcuna prova concreta…».
«Sì, capisco, però sappi che se poi vorrai chiamarla sarà bene che ti inventi una buona scusa», disse tirando fuori un piccolo computer portatile dallo zaino. «Quello che stiamo per fare non è esattamente legale…».
«Immaginavo», disse Daniel porgendogli il biglietto su cui aveva scritto il numero di Campbell.
Alan iniziò a smanettare col computer.
«Non sapevo avessi accesso al database della polizia».
«Incredibile, eh?».
«Tutti al corpo dei marines possono accedervi?».
«No, no!», rise Alan. «Lo sto hackerando».
Daniel sgranò gli occhi.
«È un crimine federale…».
«Sì».
«Si va in prigione per parecchio tempo per ‘ste cose».
«Sì».
«Come…?».
«Ho un amico in un giro di software pirata, dei pazzi antigovernativi, non te li raccomando, ma tornano utili!».
«Ok…», Daniel sentì la bocca improvvisamente asciutta. «Non voglio sapere altro, nel caso ci arrestino».
«Ma va’… Dick è un tipo a posto, il suo codice è buono».
«Ti sei fidato di un hacker di nome Dick?».
«No, ho controllato il codice e fatto qualche modifica ma in generale il suo non era male».
«Non era male?».
«Sì, non credo che i federali riusciranno a beccarlo tanto presto».
Daniel si grattò la nuca.
«E il tuo codice?».
«A prova di bomba», disse colpendo il tasto invio con uno svolazzo della mano. «Ecco fatto. Ora è solo questione di tempo».
«Prima che ci arrestino?».
«Ma smettila! Sei tu quello che pedina le persone per hobby».
«Ok, ok… grazie», disse Daniel continuando a sorseggiare il caffè che ora si pentiva di aver ordinato, con tutto quel parlare di crimini informatici era già nervoso, forse avrebbe dovuto bere una camomilla.
Dal canto suo, Alan si ributtò sulla cheesecake.
«È ottima!», disse parlando a bocca piena. «Dovrebbero cambiargli nome e chiamarlo Cheesecake Diner».
«Diglielo tu, la cameriera mi ha guardato male anche solo per non aver ordinato un waffle…».
«Avresti potuto prenderne uno per te».
«Non ho fame, tutta questa storia mi ha fatto passare l’appetito».
«Io quando sono nervoso mangio».
«Tu mangi quando sei qualsiasi cosa».
Alan sogghignò e allontanò il piatto vuoto.
«Ricerca finita», disse. «Si trova in periferia, a oltre trenta isolati da qui, all’interno di un edificio abbandonato».
«Prendiamo la mia macchina», disse Daniel afferrando la giacca.
«Prendiamo la mia», ribatté Alan.
«Se preferisci…».
* * *
Il traffico andò diradandosi man mano che si spingevano in periferia fino a scomparire del tutto quando si addentrarono nei pressi di una zona industriale dai palazzi diroccati con l’intonaco sbiadito e mezzo scrostato.
«Parcheggia qui», disse Daniel quando si trovarono a due isolati di distanza. «Meglio non farsi notare».
Alan accostò e spense il motore.
«È ora di farti vedere il motivo per cui abbiamo preso la mia macchina», disse scendendo e chiudendo la portiera. «Ho un regalo per te».
«Non so come mai ma sento di dover avere paura».
«Ma smettila», disse lui avvicinandosi al bagagliaio.
«Non dirmi che c’è una ragazza dentro».
«Tutto prenderebbe una piega inaspettata, eh?».
«Decisamente».
«Ma non sono io quello che pedina la gente».
«Beh sei qui con me…».
«Touché».
«Quindi non è niente di illegale?».
«Uhm… non proprio».
«Non esiste “non proprio” con la legge: o è legale o non lo è!».
«È situazionale…».
Daniel lo guardò inarcando le sopracciglia.
«Quindi… in questa situazione?».
«Non lo è», disse Alan aprendo il bagagliaio.
Dentro c’erano due valige, prese la più piccola e l’aprì. Due pistole sfavillarono alla luce dei lampioni.
«Una Beretta M9 e una SIG Sauer P320», disse prendendole una in una mano e una nell’altra.
Daniel sbiancò.
«Non ho saputo scegliere e quindi le ho portate entrambe!», continuò Alan come se niente fosse. «Avrei portato il mitragliatore d’assalto M9 che ho in dotazione nei marines ma mi è sembrato troppo».
«Ti lasciano portare le armi a casa quando sei in licenza?».
«Assolutamente no! Ma mi mancava, il mio piccolino… e ne ho recuperato uno identico grazie a un tizio che conosco…».
«Ok, ok, ho capito», tagliò corto Daniel. «E cosa c’è nella valigia grande?».
«Un bazooka».
«Cosa?!».
«Un bazooka!».
«Ho capito che è un bazooka! Era per dire “ma che cazzo!”».
«Non dare in escandescenze, non è per stasera».
«Ok, ma chi va in giro in macchina con un bazooka nel bagagliaio?».
«Uno che l’ha dimenticato».
«La tipica cosa che ci si dimentica…».
«Incredibile, eh?».
«Vabbè dai…», sospirò Daniel. «in realtà sono contento tu sia venuto armato, questa situazione diventa sempre più inquietante».
«E qui veniamo al regalo!», disse porgendogli una pistola. «Prendi la beretta, è giusto che inizi con un classico!».
«So sparare…».
«Lo so», disse lui con un sorriso sardonico. «Ma non sei un professionista».
«Ricordo che quando ci portavano al poligono sparavo meglio io».
«È stato mezza vita fa!», disse liquidando la faccenda con un gesto della mano. «Ora ti massacrerei».
«Lo spero, altrimenti l’addestramento dei marines andrebbe rivisto alla radice».
«La vuoi la pistola o no?».
«Sì…», disse Daniel suo malgrado.
Aveva intrapreso una strada diversa rispetto a quella militare dei loro padri appunto perché non amava le armi ma doveva ammettere che in quella situazione avere del metallo tra le dita lo faceva sentire più sicuro.
Si avviarono lungo la strada, coprendo gli ultimi due isolati che li separavano dal segnale del telefono di Campbell. Si trovarono davanti a una serie di capannoni industriali, circondati da una recinzione su cui l’edera stava pian piano prendendo il sopravvento, aggrovigliandosi intorno al fil di ferro tanto da prendere l’aspetto di una siepe.
«Il segnale proviene da uno dei capannoni», disse Alan. «Da qui non saprei dire quale…».
Daniel fece scorrere lo sguardo lungo il perimetro e vide che, in prossimità del cancello, l’edera era stata tagliata e gettata ai lati lasciando libero l’ingresso.
«Speriamo non sia chiuso a chiave», disse avvicinandosi.
La vernice bianca che ricopriva le sbarre era scrostata e lasciava intravedere il ferro ossidato, la serratura era riversa all’interno e non si allineava al resto della recinzione, gli bastò una leggera spinta e il cancello si aprì. Al primo accenno di stridio lo bloccò e premette piano fino a creare un varco appena sufficiente a farlo passare. Sgusciò dentro, seguito da Alan.
Oltrepassarono un piazzale in cui l’erba cresceva rigogliosa tra le fenditure delle piastrelle in cemento grigio. Al contrario della strada, all’interno i lampioni erano spenti per la maggior parte e intorno a loro tutto era visibile solo come una sovrapposizione di ombre. Avanzarono tra i capannoni e, a un certo punto, scorsero una luce posta davanti a un portone. Ai lati vi erano due guardie armate di mitra.
«Cazzo…», sussurrò Alan. «Avevi ragione a sospettare qualcosa, ti credevo impazzito…».
«Grazie per la fiducia…», disse Daniel guardandolo di sottecchi.
Venti metri di terreno aperto li separavano dal portone sorvegliato.
«Non c’è modo di superarle…», disse Alan. «E non c’è modo di stenderle senza farsi ammazzare».
«Cosa suggerisci?».
«Questi capannoni industriali di solito hanno delle entrate secondarie».
Daniel inspirò ed esalò, si era aspettato di tutto ma non dei soldati con armi d’assalto, ora le pistole non gli sembravano più un’idea tanto malvagia, anzi…
«Sembrano indossare un’uniforme», disse osservando la pettorina su cui era raffigurata una sigma maiuscola. «Che siano dei mercenari?».
«Chi lo sa…», disse Alan. «Ma una cosa è sicura: fanno parte di un’organizzazione paramilitare».
I pensieri iniziarono a correre: poteva aver scoperto un traffico di organi illegali? Sarebbe stato un movente perfetto, attirare i pazienti xenomelici con la scusa dell’amputazione per ucciderli e prelevare organi da vendere al mercato nero!
«Facciamo il giro», disse Alan distogliendolo dal suo vortice mentale.
Fecero il giro più largo possibile, strisciando contro le pareti, fino a giungere sul retro dell’edificio. Infine, videro quello che stavano cercando: una porta secondaria presidiata da un soldato.
Alan raccolse un sasso e gli fece cenno di aspettare. Il marine si avvicinò il più possibile, a passo felpato, senza smuovere nemmeno una foglia. Lanciò il sasso facendogli compiere un’alta parabola e, quando si schiantò a terra, il soldato si voltò in direzione del rumore. Alan gli si gettò addosso, tappandogli la bocca con una mano e stringendogli il collo nell’incavo del gomito dell’altro braccio. L’uomo si divincolò, abbandonò il fucile portando le mani al collo per cercare di liberarsi ma Alan era troppo forte e non lasciò la presa. Il soldato riuscì a estrarre il coltello poco prima di crollare a terra.
«L’hai ucciso?», chiese Daniel uscendo dalla copertura.
«No, è solo svenuto».
Daniel tirò un sospiro di sollievo.
«Si sveglierà tra un’oretta con un bel mal di testa», disse Alan accompagnando a terra il corpo del soldato.
«Darà l’allarme!».
«Preferivi che lo uccidessi?».
«Ovvio che no…».
«Andiamo, non abbiamo molto tempo».
Alan girò la maniglia e la porta si aprì con un cigolio. Entrarono e la richiusero alle loro spalle.
Vennero circondati dall’oscurità più totale.
Daniel aspettò qualche secondo, cercando di fare in modo che gli occhi si abituassero al buio, ma non ci fu niente da fare. Sentì Alan che procedeva a tentoni e lo seguì tendendo le mani in avanti fino a trovare la sua schiena. Gli mise una mano sulla spalla per essere sicuro di non perdersi. Con l’altra provò a toccarsi intorno e sentì una parete fredda e umida. Proseguirono a piccoli passi. D’un tratto, un tonfo metallico risuonò sordo.
«Cazzo», imprecò Alan. «Ho trovato una scala».
Salirono un gradino dopo l’altro e, quando si trovarono un paio di piani più in alto, cercarono a tentoni una porta e l’aprirono.
Si trovarono in un corridoio, l’illuminazione era bassa e arrivava da una stanza più avanti. Seguendo la fonte della luce giunsero in una sala che aveva un lato interamente occupato da un basso parapetto in muratura e un’ampia vetrata. La luce proveniva da oltre il vetro.
Si avvicinarono per guardare e scoprirono che non c’era il pavimento. Sia il piano inferiore che quello superiore rispetto a dove si trovavano erano stati uniti in un unico ampio spazio. L’azienda che aveva sede in quell’edificio doveva essersi avvalsa di macchinari enormi e quella dove si trovavano poteva essere stata una postazione di supervisione dei lavori. Sotto, il pavimento era stato sgombrato e diversi uomini armati di fucili, pistole e asce erano radunati intorno a quello che sembrava un altare in pietra dove stava steso un uomo.
Il Signor Campbell.
«Cazzo», sussurrò Alan. «Avevi ragione».
«Non credo ai miei occhi, pensavo di essere diventato paranoico…».
«Non si muove, sembra l’abbiano sedato».
Sulla coscia sinistra si poteva ancora vedere il cerchio nero che aveva disegnato poche ore prima, durante la seduta. Daniel imprecò sottovoce, non si era reso conto che fosse arrivato a un tale punto di rottura da rivolgersi a dei malviventi per eseguire l’amputazione. Vero che non era mai stato un tipo paziente, ma rivolgersi a gente armata di mitragliatori e asce? Che raptus di follia poteva averlo posseduto? L’altare, Daniel non avrebbe saputo come altro descrivere il “letto” su cui era steso Campbell, era macchiato di sangue, come anche il pavimento. I tentativi di lavarlo non erano riusciti a rimuovere gli aloni rossicci.
Un brivido gli percorse la schiena.
«Solo un macellaio può pensare di eseguire un’amputazione con delle asce…».
«A giudicare dalla quantità di sangue, non è la prima volta».
«Cosa possiamo fare?».
«Sono oltre una decina, possiamo fare poco e niente».
«Chiamiamo la polizia?».
«La polizia…», sospirò Alan. «Con l’equipaggiamento che hanno temo faremmo solo uccidere dei bravi agenti. Qui ci vorrebbe l’esercito».
Daniel rimase con le mani in mano. Alan aveva ragione, nessuno avrebbe potuto aiutare il Signor Campbell. Non poteva fare nulla per fermarli ma non avrebbe permesso che cose come queste succedessero ancora: prese il telefono e iniziò a filmare l’intera scena.
«Almeno avremo le prove…», disse più a sé stesso che all’amico.
Rimase a osservare come rapito, in attesa dell’inevitabile. I due uomini con le asce si avvicinarono all’altare, uno da una parte e uno dall’altra.
Sollevarono le scuri.
Gli altri si disposero in semicerchio e portarono il calcio dei mitragliatori alla spalla, prendendo le distanze.
«Ma che diavolo fanno?», mormorò Alan.
La prima ascia calò con forza aprendosi un varco nella carne e spezzando il femore. L’uomo ebbe appena il tempo di ritirare l’arma quando la seconda si abbatté nello stesso punto. Il secondo colpo fu sufficiente a tranciare di netto l’arto poco sopra alla linea della penna.
Il sangue schizzò imbrattando l’intero altare e i due uomini.
Daniel iniziò a sentirsi male, si tappò la bocca con una mano e represse i conati di vomito mentre osservava il fluido rosso colare a terra. I due uomini con le asce si affrettarono ad allontanarsi, trascinando per le braccia il corpo mutilato del Signor Campbell che lasciava una striscia di sangue.
La carne del moncherino iniziò a ribollire e una serie di lunghe propaggini che terminavano in aguzzi spuntoni ossei ne esplose in tutte le direzioni. Muovendosi come le zampe di un ragno, le propaggini colpirono alla cieca, infilzando uno degli armati e impalandolo al pavimento. Gli altri iniziarono a sparare.
«Ma che cazzo!», sbottò Alan.
Daniel emise un urlo ma non riuscì a parlare, osservò a bocca spalancata il moncherino che mutava e fremeva sotto la selva di colpi dei mitra. Il sangue schizzava ovunque sulle pareti ma le propaggini non accennavano a fermarsi e sferzavano l’aria come impazzite. Gli uomini erano costretti a stare rasenti ai muri per non rischiare di essere falciati o impalati. La carne del moncherino roteava e il rumore di ossa spezzate risuonò nell’aria. Una parvenza di bocca apparve sul lato opposto rispetto al piede, dove la carne era stata maciullata dalle asce. Frammenti seghettati del femore spuntavano come denti e l’abominio cercò di alzarsi sulle zampe.
Daniel non riuscì più a trattenersi e vomitò sul pavimento.
La creatura deforme non fece più di due passi prima di crollare a terra, emettendo uno stridio raccapricciante, crivellata dai proiettili. Il silenzio improvviso dopo la sparatoria era assordante, l’aria odorava di polvere da sparo. Daniel si asciugò la bocca su una manica e tornò ad affacciarsi alla vetrata. I soldati si avvicinarono alla bestia, assicurandosi che fosse morta e accorsero a prestare soccorso all’uomo che era stato impalato mentre altri portavano via il Signor Campbell ancora privo di sensi.
Alan impugnava la pistola con forza tale da far sbiancare le nocche, incapace di distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo. Daniel barcollò all’indietro senza sapere quanto avesse ripreso di tutta la faccenda.
«Fermi!», giunse un grido alle loro spalle.
Si girarono con gli occhi sgranati, ritrovandosi faccia a faccia col soldato che avevano steso poco prima, aveva capelli biondi, un’espressione truce e il mitra spianato.
«Gettate le armi!», intimò.
Daniel si guardò la mano, ricordando solo in quel momento di star ancora impugnando la Beretta e la poggiò a terra.
«Hai la testa dura eh?», sibilò Alan.
Daniel si chiese da dove prendesse tutto questo sangue freddo per rispondere a tono e notò che non stava abbassando la pistola.
«Sei solo stato fortunato a cogliermi alla sprovvista», rispose lui. «Ora abbassa quella Sauer prima che ti buchi come un colapasta».
«Abbassa la pistola…», disse Daniel. «Non ha senso farci sparare…».
«L’ho già steso una volta», disse Alan continuando a tenere il soldato sotto tiro. «Scommetto che sparo meglio io».
D’un tratto il suono di altri passi risuonò dal corridoio e tre soldati equipaggiati in modo simile entrarono nella stanza.
«Ok…», disse Alan abbassando l’arma. «Quattro sono troppi».
Un quinto uomo si fece avanti, aveva i capelli brizzolati e un sorriso obliquo. Impugnava una pistola ma, invece di puntargliela contro, la rimise nella fondina.
«Abbassate le armi», disse ai soldati. «È il Dottor Berg, aveva in cura il Signor Campbell. L’altro… un amico, suppongo?».
Daniel aprì e chiuse la bocca diverse volte, senza riuscire a pronunciare una parola. Ora che vedeva i militari da vicino notò che almeno la metà aveva degli arti meccanici, chi una gamba, chi un braccio.
«Il suo paziente starà bene», disse l’uomo brizzolato. «Abbiamo risolto il problema con l’alieno, come avete potuto vedere…».
Daniel non batté ciglio. Da quando aveva visto il moncherino animarsi e trasformarsi in quella creatura aberrante tutto era diventato così surreale, come se stesse vivendo un sogno, come se nulla di tutto ciò fosse reale.
«Era… nella sua gamba?», chiese Alan.
«Non esattamente. L’alieno era la sua gamba», disse l’uomo mettendo enfasi sulla parola “era”.
Daniel strabuzzò gli occhi per l’ennesima volta.
«Come…?», chiese facendo gesti incoerenti con le mani.
«I Kaiju sono creature infide», spiegò l’uomo brizzolato. «Non sappiamo cosa siano né da dove vengano, sappiamo solo che una volta trovato un ospite ne divorano una parte del corpo per sostituirsi a essa. Si nutrono e crescono a spese dell’ospite. Ogni tanto c’è chi si rende conto che qualcosa non va ma vengono scambiati per pazienti xenomelici».
«Ma…», disse Daniel balbettando. «E…».
«E noi li combattiamo, Dottor Berg», disse l’uomo. «Siamo le Forze Speciali di Difesa Planetaria della SIGMA!».
«Parcheggia qui», disse Daniel quando si trovarono a due isolati di distanza. «Meglio non farsi notare».
Alan accostò e spense il motore.
«È ora di farti vedere il motivo per cui abbiamo preso la mia macchina», disse scendendo e chiudendo la portiera. «Ho un regalo per te».
«Non so come mai ma sento di dover avere paura».
«Ma smettila», disse lui avvicinandosi al bagagliaio.
«Non dirmi che c’è una ragazza dentro».
«Tutto prenderebbe una piega inaspettata, eh?».
«Decisamente».
«Ma non sono io quello che pedina la gente».
«Beh sei qui con me…».
«Touché».
«Quindi non è niente di illegale?».
«Uhm… non proprio».
«Non esiste “non proprio” con la legge: o è legale o non lo è!».
«È situazionale…».
Daniel lo guardò inarcando le sopracciglia.
«Quindi… in questa situazione?».
«Non lo è», disse Alan aprendo il bagagliaio.
Dentro c’erano due valige, prese la più piccola e l’aprì. Due pistole sfavillarono alla luce dei lampioni.
«Una Beretta M9 e una SIG Sauer P320», disse prendendole una in una mano e una nell’altra.
Daniel sbiancò.
«Non ho saputo scegliere e quindi le ho portate entrambe!», continuò Alan come se niente fosse. «Avrei portato il mitragliatore d’assalto M9 che ho in dotazione nei marines ma mi è sembrato troppo».
«Ti lasciano portare le armi a casa quando sei in licenza?».
«Assolutamente no! Ma mi mancava, il mio piccolino… e ne ho recuperato uno identico grazie a un tizio che conosco…».
«Ok, ok, ho capito», tagliò corto Daniel. «E cosa c’è nella valigia grande?».
«Un bazooka».
«Cosa?!».
«Un bazooka!».
«Ho capito che è un bazooka! Era per dire “ma che cazzo!”».
«Non dare in escandescenze, non è per stasera».
«Ok, ma chi va in giro in macchina con un bazooka nel bagagliaio?».
«Uno che l’ha dimenticato».
«La tipica cosa che ci si dimentica…».
«Incredibile, eh?».
«Vabbè dai…», sospirò Daniel. «in realtà sono contento tu sia venuto armato, questa situazione diventa sempre più inquietante».
«E qui veniamo al regalo!», disse porgendogli una pistola. «Prendi la beretta, è giusto che inizi con un classico!».
«So sparare…».
«Lo so», disse lui con un sorriso sardonico. «Ma non sei un professionista».
«Ricordo che quando ci portavano al poligono sparavo meglio io».
«È stato mezza vita fa!», disse liquidando la faccenda con un gesto della mano. «Ora ti massacrerei».
«Lo spero, altrimenti l’addestramento dei marines andrebbe rivisto alla radice».
«La vuoi la pistola o no?».
«Sì…», disse Daniel suo malgrado.
Aveva intrapreso una strada diversa rispetto a quella militare dei loro padri appunto perché non amava le armi ma doveva ammettere che in quella situazione avere del metallo tra le dita lo faceva sentire più sicuro.
Si avviarono lungo la strada, coprendo gli ultimi due isolati che li separavano dal segnale del telefono di Campbell. Si trovarono davanti a una serie di capannoni industriali, circondati da una recinzione su cui l’edera stava pian piano prendendo il sopravvento, aggrovigliandosi intorno al fil di ferro tanto da prendere l’aspetto di una siepe.
«Il segnale proviene da uno dei capannoni», disse Alan. «Da qui non saprei dire quale…».
Daniel fece scorrere lo sguardo lungo il perimetro e vide che, in prossimità del cancello, l’edera era stata tagliata e gettata ai lati lasciando libero l’ingresso.
«Speriamo non sia chiuso a chiave», disse avvicinandosi.
La vernice bianca che ricopriva le sbarre era scrostata e lasciava intravedere il ferro ossidato, la serratura era riversa all’interno e non si allineava al resto della recinzione, gli bastò una leggera spinta e il cancello si aprì. Al primo accenno di stridio lo bloccò e premette piano fino a creare un varco appena sufficiente a farlo passare. Sgusciò dentro, seguito da Alan.
Oltrepassarono un piazzale in cui l’erba cresceva rigogliosa tra le fenditure delle piastrelle in cemento grigio. Al contrario della strada, all’interno i lampioni erano spenti per la maggior parte e intorno a loro tutto era visibile solo come una sovrapposizione di ombre. Avanzarono tra i capannoni e, a un certo punto, scorsero una luce posta davanti a un portone. Ai lati vi erano due guardie armate di mitra.
«Cazzo…», sussurrò Alan. «Avevi ragione a sospettare qualcosa, ti credevo impazzito…».
«Grazie per la fiducia…», disse Daniel guardandolo di sottecchi.
Venti metri di terreno aperto li separavano dal portone sorvegliato.
«Non c’è modo di superarle…», disse Alan. «E non c’è modo di stenderle senza farsi ammazzare».
«Cosa suggerisci?».
«Questi capannoni industriali di solito hanno delle entrate secondarie».
Daniel inspirò ed esalò, si era aspettato di tutto ma non dei soldati con armi d’assalto, ora le pistole non gli sembravano più un’idea tanto malvagia, anzi…
«Sembrano indossare un’uniforme», disse osservando la pettorina su cui era raffigurata una sigma maiuscola. «Che siano dei mercenari?».
«Chi lo sa…», disse Alan. «Ma una cosa è sicura: fanno parte di un’organizzazione paramilitare».
I pensieri iniziarono a correre: poteva aver scoperto un traffico di organi illegali? Sarebbe stato un movente perfetto, attirare i pazienti xenomelici con la scusa dell’amputazione per ucciderli e prelevare organi da vendere al mercato nero!
«Facciamo il giro», disse Alan distogliendolo dal suo vortice mentale.
Fecero il giro più largo possibile, strisciando contro le pareti, fino a giungere sul retro dell’edificio. Infine, videro quello che stavano cercando: una porta secondaria presidiata da un soldato.
Alan raccolse un sasso e gli fece cenno di aspettare. Il marine si avvicinò il più possibile, a passo felpato, senza smuovere nemmeno una foglia. Lanciò il sasso facendogli compiere un’alta parabola e, quando si schiantò a terra, il soldato si voltò in direzione del rumore. Alan gli si gettò addosso, tappandogli la bocca con una mano e stringendogli il collo nell’incavo del gomito dell’altro braccio. L’uomo si divincolò, abbandonò il fucile portando le mani al collo per cercare di liberarsi ma Alan era troppo forte e non lasciò la presa. Il soldato riuscì a estrarre il coltello poco prima di crollare a terra.
«L’hai ucciso?», chiese Daniel uscendo dalla copertura.
«No, è solo svenuto».
Daniel tirò un sospiro di sollievo.
«Si sveglierà tra un’oretta con un bel mal di testa», disse Alan accompagnando a terra il corpo del soldato.
«Darà l’allarme!».
«Preferivi che lo uccidessi?».
«Ovvio che no…».
«Andiamo, non abbiamo molto tempo».
Alan girò la maniglia e la porta si aprì con un cigolio. Entrarono e la richiusero alle loro spalle.
Vennero circondati dall’oscurità più totale.
Daniel aspettò qualche secondo, cercando di fare in modo che gli occhi si abituassero al buio, ma non ci fu niente da fare. Sentì Alan che procedeva a tentoni e lo seguì tendendo le mani in avanti fino a trovare la sua schiena. Gli mise una mano sulla spalla per essere sicuro di non perdersi. Con l’altra provò a toccarsi intorno e sentì una parete fredda e umida. Proseguirono a piccoli passi. D’un tratto, un tonfo metallico risuonò sordo.
«Cazzo», imprecò Alan. «Ho trovato una scala».
Salirono un gradino dopo l’altro e, quando si trovarono un paio di piani più in alto, cercarono a tentoni una porta e l’aprirono.
Si trovarono in un corridoio, l’illuminazione era bassa e arrivava da una stanza più avanti. Seguendo la fonte della luce giunsero in una sala che aveva un lato interamente occupato da un basso parapetto in muratura e un’ampia vetrata. La luce proveniva da oltre il vetro.
Si avvicinarono per guardare e scoprirono che non c’era il pavimento. Sia il piano inferiore che quello superiore rispetto a dove si trovavano erano stati uniti in un unico ampio spazio. L’azienda che aveva sede in quell’edificio doveva essersi avvalsa di macchinari enormi e quella dove si trovavano poteva essere stata una postazione di supervisione dei lavori. Sotto, il pavimento era stato sgombrato e diversi uomini armati di fucili, pistole e asce erano radunati intorno a quello che sembrava un altare in pietra dove stava steso un uomo.
Il Signor Campbell.
«Cazzo», sussurrò Alan. «Avevi ragione».
«Non credo ai miei occhi, pensavo di essere diventato paranoico…».
«Non si muove, sembra l’abbiano sedato».
Sulla coscia sinistra si poteva ancora vedere il cerchio nero che aveva disegnato poche ore prima, durante la seduta. Daniel imprecò sottovoce, non si era reso conto che fosse arrivato a un tale punto di rottura da rivolgersi a dei malviventi per eseguire l’amputazione. Vero che non era mai stato un tipo paziente, ma rivolgersi a gente armata di mitragliatori e asce? Che raptus di follia poteva averlo posseduto? L’altare, Daniel non avrebbe saputo come altro descrivere il “letto” su cui era steso Campbell, era macchiato di sangue, come anche il pavimento. I tentativi di lavarlo non erano riusciti a rimuovere gli aloni rossicci.
Un brivido gli percorse la schiena.
«Solo un macellaio può pensare di eseguire un’amputazione con delle asce…».
«A giudicare dalla quantità di sangue, non è la prima volta».
«Cosa possiamo fare?».
«Sono oltre una decina, possiamo fare poco e niente».
«Chiamiamo la polizia?».
«La polizia…», sospirò Alan. «Con l’equipaggiamento che hanno temo faremmo solo uccidere dei bravi agenti. Qui ci vorrebbe l’esercito».
Daniel rimase con le mani in mano. Alan aveva ragione, nessuno avrebbe potuto aiutare il Signor Campbell. Non poteva fare nulla per fermarli ma non avrebbe permesso che cose come queste succedessero ancora: prese il telefono e iniziò a filmare l’intera scena.
«Almeno avremo le prove…», disse più a sé stesso che all’amico.
Rimase a osservare come rapito, in attesa dell’inevitabile. I due uomini con le asce si avvicinarono all’altare, uno da una parte e uno dall’altra.
Sollevarono le scuri.
Gli altri si disposero in semicerchio e portarono il calcio dei mitragliatori alla spalla, prendendo le distanze.
«Ma che diavolo fanno?», mormorò Alan.
La prima ascia calò con forza aprendosi un varco nella carne e spezzando il femore. L’uomo ebbe appena il tempo di ritirare l’arma quando la seconda si abbatté nello stesso punto. Il secondo colpo fu sufficiente a tranciare di netto l’arto poco sopra alla linea della penna.
Il sangue schizzò imbrattando l’intero altare e i due uomini.
Daniel iniziò a sentirsi male, si tappò la bocca con una mano e represse i conati di vomito mentre osservava il fluido rosso colare a terra. I due uomini con le asce si affrettarono ad allontanarsi, trascinando per le braccia il corpo mutilato del Signor Campbell che lasciava una striscia di sangue.
La carne del moncherino iniziò a ribollire e una serie di lunghe propaggini che terminavano in aguzzi spuntoni ossei ne esplose in tutte le direzioni. Muovendosi come le zampe di un ragno, le propaggini colpirono alla cieca, infilzando uno degli armati e impalandolo al pavimento. Gli altri iniziarono a sparare.
«Ma che cazzo!», sbottò Alan.
Daniel emise un urlo ma non riuscì a parlare, osservò a bocca spalancata il moncherino che mutava e fremeva sotto la selva di colpi dei mitra. Il sangue schizzava ovunque sulle pareti ma le propaggini non accennavano a fermarsi e sferzavano l’aria come impazzite. Gli uomini erano costretti a stare rasenti ai muri per non rischiare di essere falciati o impalati. La carne del moncherino roteava e il rumore di ossa spezzate risuonò nell’aria. Una parvenza di bocca apparve sul lato opposto rispetto al piede, dove la carne era stata maciullata dalle asce. Frammenti seghettati del femore spuntavano come denti e l’abominio cercò di alzarsi sulle zampe.
Daniel non riuscì più a trattenersi e vomitò sul pavimento.
La creatura deforme non fece più di due passi prima di crollare a terra, emettendo uno stridio raccapricciante, crivellata dai proiettili. Il silenzio improvviso dopo la sparatoria era assordante, l’aria odorava di polvere da sparo. Daniel si asciugò la bocca su una manica e tornò ad affacciarsi alla vetrata. I soldati si avvicinarono alla bestia, assicurandosi che fosse morta e accorsero a prestare soccorso all’uomo che era stato impalato mentre altri portavano via il Signor Campbell ancora privo di sensi.
Alan impugnava la pistola con forza tale da far sbiancare le nocche, incapace di distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo. Daniel barcollò all’indietro senza sapere quanto avesse ripreso di tutta la faccenda.
«Fermi!», giunse un grido alle loro spalle.
Si girarono con gli occhi sgranati, ritrovandosi faccia a faccia col soldato che avevano steso poco prima, aveva capelli biondi, un’espressione truce e il mitra spianato.
«Gettate le armi!», intimò.
Daniel si guardò la mano, ricordando solo in quel momento di star ancora impugnando la Beretta e la poggiò a terra.
«Hai la testa dura eh?», sibilò Alan.
Daniel si chiese da dove prendesse tutto questo sangue freddo per rispondere a tono e notò che non stava abbassando la pistola.
«Sei solo stato fortunato a cogliermi alla sprovvista», rispose lui. «Ora abbassa quella Sauer prima che ti buchi come un colapasta».
«Abbassa la pistola…», disse Daniel. «Non ha senso farci sparare…».
«L’ho già steso una volta», disse Alan continuando a tenere il soldato sotto tiro. «Scommetto che sparo meglio io».
D’un tratto il suono di altri passi risuonò dal corridoio e tre soldati equipaggiati in modo simile entrarono nella stanza.
«Ok…», disse Alan abbassando l’arma. «Quattro sono troppi».
Un quinto uomo si fece avanti, aveva i capelli brizzolati e un sorriso obliquo. Impugnava una pistola ma, invece di puntargliela contro, la rimise nella fondina.
«Abbassate le armi», disse ai soldati. «È il Dottor Berg, aveva in cura il Signor Campbell. L’altro… un amico, suppongo?».
Daniel aprì e chiuse la bocca diverse volte, senza riuscire a pronunciare una parola. Ora che vedeva i militari da vicino notò che almeno la metà aveva degli arti meccanici, chi una gamba, chi un braccio.
«Il suo paziente starà bene», disse l’uomo brizzolato. «Abbiamo risolto il problema con l’alieno, come avete potuto vedere…».
Daniel non batté ciglio. Da quando aveva visto il moncherino animarsi e trasformarsi in quella creatura aberrante tutto era diventato così surreale, come se stesse vivendo un sogno, come se nulla di tutto ciò fosse reale.
«Era… nella sua gamba?», chiese Alan.
«Non esattamente. L’alieno era la sua gamba», disse l’uomo mettendo enfasi sulla parola “era”.
Daniel strabuzzò gli occhi per l’ennesima volta.
«Come…?», chiese facendo gesti incoerenti con le mani.
«I Kaiju sono creature infide», spiegò l’uomo brizzolato. «Non sappiamo cosa siano né da dove vengano, sappiamo solo che una volta trovato un ospite ne divorano una parte del corpo per sostituirsi a essa. Si nutrono e crescono a spese dell’ospite. Ogni tanto c’è chi si rende conto che qualcosa non va ma vengono scambiati per pazienti xenomelici».
«Ma…», disse Daniel balbettando. «E…».
«E noi li combattiamo, Dottor Berg», disse l’uomo. «Siamo le Forze Speciali di Difesa Planetaria della SIGMA!».
SIGMA
Daniel bevve un sorso di caffè e tornò a guardare nel vuoto.
Di fronte, Alan fece lo stesso.
L’amico si era fermato a dormire e da quando si erano svegliati nessuno aveva aperto bocca. Daniel aveva preparato il caffè e si erano seduti in cucina in compagnia di un sacchetto di biscotti ormai divelto e razziato in ogni suo angolo. Sul tavolo giaceva il biglietto da visita che l’uomo brizzolato aveva dato loro la notte precedente.
«Quindi…», disse Alan rompendo il silenzio. «Ora le agenzie segrete hanno dei biglietti da visita?».
«Dopo quello che hai visto ieri, è davvero questa la domanda che ti ha tormentato?».
«Dico solo che è strano… tutta questa segretezza e poi ci lasciano un biglietto, è una prova della loro esistenza».
Daniel appoggiò la tazza e scrollò le spalle.
«Vai a capire…».
«È anche vero che se andassimo da qualcuno affermando di “avere le prove dell’esistenza degli alieni e di un’agenzia segreta che li combatte”, finiremmo presto in una di quelle trasmissioni che passano sui canali a doppia cifra».
«Questo è poco ma sicuro».
«Insieme a quelli che cacciano il Bigfoot».
«E a quelli che vanno in giro a cercare fantasmi con degli attrezzi che fanno rumori da giocattoli per bambini».
«Sai con chi altri finiremmo associati?», disse Alan unendo i polpastrelli.
«Illuminami…».
«Con quelli che credono che la terra sia piatta».
«Se è per questo, anche con quelli che credono sia cava».
«E con quelli che credono sia concava».
«C’è anche gente del genere?».
«C’è di tutto…».
«Il mondo è bello perché è vario».
«Sì, ma senza esagerare».
«Dopo ieri però non mi sento più di ridere della gente che crede a cose… beh non folli come la terra piatta ma cose…», Daniel si grattò la nuca. «Non so come dire…».
«Un po’ più normali?».
«Un po’ più plausibili, ecco…».
«Che non infrangano qualsiasi legge della fisica o della logica?».
«Sì, della “nuova” logica».
«Tipo?».
«Bigfoot, Nessie, chupacabras… chi ti dice che non siano un qualche tipo di alieno?».
«No, Nessie no, per favore, se qualcuno tira fuori un plesiosauro dal lago di Lockness sono pronto a spararmi qui e ora».
«Ok, Nessie no…».
«E faresti meglio a essere pronto anche tu perché credo commetterei un omicidio-suicidio».
«Ti basterebbe prendere il bazooka e sparare un colpo a terra».
«Che gran modo per andarsene!».
«Col botto!».
«Ah che battuta…», Alan si massaggiò le tempie. «Farò finta di non averti sentito».
«E funerale vichingo compreso».
«Senza barca, però».
«Dettagli».
«Farò di nuovo finta di non averti sentito…».
«Non divaghiamo come al solito», disse Daniel raccogliendo le briciole dei biscotti in una mano e rovesciandosele in bocca. «Ok, Nessie no, ma non so più a cosa credere, tutto quello che prima si poteva catalogare in “deliri di un paio di folli bifolchi” ora chissà… cos’è vero e cos’è falso?».
«Anche io non so più cosa pensare».
Daniel sospirò, poi tamburellò con le dita sul tavolo squadrando il biglietto da visita.
«Ma non è nemmeno questo il punto…».
«Non sai se accettare l’invito?».
«Tu che dici?».
«Io vado!».
«E come la metti coi marines?».
«Sono in licenza…», disse Alan sollevando le spalle. «Capita una volta nella vita di poter dare un occhio alla base di un’agenzia segreta che combatte gli alieni».
«Hai ragione… dovrò annullare le sedute».
«Ah guarda, i tuoi pazienti stavano male anche prima di venire in terapia, se la caveranno».
Daniel rise suo malgrado.
«È in questi momenti che vorrei avere qualcuno a cui delegare le chiamate…».
«Se vuoi li chiamo io, ci metto un attimo».
«Mi serve che siano ancora miei pazienti al termine della chiamata…», disse Daniel prendendo telefono e taccuino. «Tu occupati del volo».
«Perché succede sempre tutto a New York?».
«Chi l’avrebbe mai detto, vero? La vita è come nei film».
Daniel passò la successiva mezzora chiamando tutti i suoi pazienti, informandoli che le sedute sarebbero state annullate per la settimana a venire. Alan, dal canto suo, fece in modo di ottenere due posti su un volo per l’aeroporto JFK quel pomeriggio stesso. Non c’era niente in casa per pranzare, quindi decisero di mangiare sano e ordinarono una pizza. Più tardi, durante le ore di attesa al terminal, trovarono un albergo in cui pernottare e quando atterrarono a New York, nel tardo pomeriggio, presero un taxi che li portò all’hotel. Quella sera mangiarono un hamburger al ristorante dell’albergo e uscirono a bere una birra nel primo Irish Pub che trovarono. Per quanto fosse stata una giornata frenetica, con il viaggio improvvisato, quando si trovarono sotto alle coperte Daniel non riuscì a prendere sonno e si rigirò a lungo, accompagnato dal russare di Alan che, a quanto pareva, non risentiva dello stress allo stesso modo. Infine, scivolò tra le braccia di Morfeo senza rendersene conto, ritrovandosi a rotolare in un’inquadratura nera tra un’immagine e l’altra della sera precedente: la gamba mozzata, l’alieno che si agitava, il suono degli spari, il mitragliatore puntato in faccia.
La sveglia suonò, traendolo in salvo.
Daniel scattò su, ansimando con gli occhi sgranati.
«Cazzo…», mormorò.
«Cosa succede?», Alan era già vestito e si stava mettendo le scarpe.
«Incubi… tu non ne hai avuti?».
«No, perché?».
«L’alieno…», disse Daniel allargando le mani. «La gamba…».
«Ah sì, è stato spaventoso».
«Ma hai comunque dormito bene?».
«Come un bambino!».
Daniel si limitò a scuotere la testa e stropicciarsi gli occhi.
«Mi serviranno almeno un paio di caffè per riprendermi».
«Allora muoviti, andiamo a fare colazione», Alan gli lanciò addosso i vestiti. «Ho fame!».
Daniel si preparò in fretta e furia e, ancora barcollante, seguì l’amico nella hall dell’hotel dove era stato allestito un piccolo buffet.
«Cosa ti aspetti di trovare alla sede di questa SIGMA?», chiese Alan mettendosi nel piatto tutto il bacon che riuscì ad afferrare. «Roba alla Men in Black? Alieni che passeggiano, maxischermi sintonizzati su trasmissioni di chissà quale pianeta e lucine colorate ovunque?».
«Come fai ad abbuffarti in questo modo di prima mattina?», chiese Daniel prendendo uno yogurt e delle fette biscottate. «Non ne ho idea, una base con alieni che gironzolano in giro mi sembrerebbe troppo. Dai, nessuno riuscirebbe a mantenere segreti tutti quegli alieni e sicuramente non viviamo in un cassetto».
«Prova tu a non fare una colazione sostanziosa con davanti ore di addestramento e poi dimmi se non arrivi a pranzo con la lingua che striscia per terra», disse Alan prendendo le posate e iniziando a tagliare. «Beh, ricordati dei neuralizzatori, è tutto più semplice se puoi cancellare la memoria alla gente».
«Ok, ma bacon, burro, pane e uova sembra la sagra del colesterolo più che una colazione che possa lasciarti in grado di correre», disse Daniel strappando la pellicola dello yogurt con pere e noci, poi spezzò una fetta biscottata a metà e la intinse. «In tal caso sarei preoccupato anche io per gli effetti a lungo termine come diceva J, e non vedo perché non usarlo su di noi quella sera stessa».
«Correre? Parlavo dell’addestramento al poligono», disse Alan con una grassa risata prima di ficcarsi in bocca una striscia di bacon croccante. «Perché vogliono reclutarci».
«Reclutarci?».
«Altrimenti perché ci avrebbero invitati a fare un tour della loro sede?».
«In effetti ha senso…».
«E devo ringraziare te per essere qui!».
«E non te lo dimenticare», Daniel lo puntò con il pezzo di fetta biscottata ricoperto di yogurt.
«Ma mangialo in maniera normale quello yogurt!».
«No».
Finito di fare colazione, uscirono e percorsero a piedi i pochi isolati che li separavano dall’indirizzo che era segnato sul biglietto da visita. Giunsero in una piazza circondata da alberi di ginkgo e panchine in pietra. Al centro vi era una fontana con un singolo getto che traballava nello sfidare la gravità. Un imponente edificio dalle pareti completamente nere occupava la metà nord.
«Sembra un Cubo Borg», disse Alan. «Non fosse per le pareti lisce e il fatto che gli mancano quelle inquietanti luci verdi, ma per il resto è uguale».
«È un cubo nero… somiglia a qualsiasi cubo nero», disse Daniel guardandolo di traverso. «È come dire che sembra un cubo di Rubik con tutte le facce nere».
«Un cubo di Rubik monocolore non avrebbe senso di esistere».
«Ti chiamano Capitan Ovvio nei marines?».
«Sì, fatti forte del tuo stato da civile, prenditi gioco del capitano che non può punirti per insubordinazione».
«Allora smettila con questi paragoni idioti».
«Ok, allora somiglia a un gigantesco brownie».
«Ma hai ancora fame?».
«No, ma c’è sempre posto per un brownie».
«E comunque no, non ci somiglia, il brownie è chiamato così perché è marrone, non nero».
«Non ti va mai bene niente eh?».
«Sono solo esigente coi paragoni».
«Dev’essere terribile essere te».
«Ah, non sai quanto, c’è un tizio che mi dà il tormento da tutta la vita…».
«Ma smettila! Se anche fosse vero, il fastidio sarebbe ampiamente compensato dalla saggezza».
«Disse quello che dimentica i bazooka nel bagagliaio».
«Cazzo, il bazooka!».
«Non l’hai tolto?».
«E quando? Sono rimasto da te a dormire, ricordi? È stato ventiquattro ore fa, nemmeno tu puoi averlo dimenticato…».
«Vabbè… fortuna che siamo andati con la mia macchina all’aereoporto».
«Il che vuol dire che la mia è ancora parcheggiata sotto casa tua».
«Basta che non salti in aria…».
«O che un poliziotto non ne controlli il bagagliaio, ti immagini?».
«Non farmici pensare…».
«È l’ultima delle nostre preoccupazioni», disse Alan avviandosi verso l’edificio. «Piuttosto, come entriamo?».
«Lì nel centro c’è un portone».
«Sì, l’ho visto… ma dico: entriamo così? Citofoniamo al portone e basta?».
Daniel fece spallucce.
«Un po’ deludente questa agenzia segreta».
«Prima i biglietti da visita e poi portoni nei brownies… non sembrano tenere alla loro segretezza…».
«Però…», Daniel si grattò la testa. «Non c’è civico né campanello».
Un sottile fascio di luce quasi impercettibile fuoriuscì da una fotocellula sopra alla porta e li scansionò entrambi in una frazione di secondo.
Il portone si spalancò.
«Ok…», disse Alan. «Iniziamo a ragionare».
Entrarono e si ritrovarono in quella che sembrava la reception di un hotel, piccole piante dalle foglie larghe erano sistemate in ogni angolo e una zona relax sulla sinistra ospitava un basso tavolo attorniato da poltrone e divani su cui erano adagiati soffici cuscini. Dritto davanti a loro, un tappeto rosso era adagiato sulle piastrelle di marmo e conduceva fino a un ascensore sul lato opposto della sala. A metà percorso, sulla destra, una fila di sgabelli in legno laccato era posta davanti a un lungo bancone dello stesso materiale dietro al quale vi era una collezione di decine e decine di bottiglie di liquori colorati. Un uomo vestito con una camicia borgogna e un panciotto nero stava dietro al bancone e li osservava da sopra due folti baffi attorcigliati.
«Buongiorno signori», li salutò. «Come posso esservi utile?».
«Un paio di giorni fa un uomo brizzolato sulla cinquantina ci ha dato questo», disse Daniel avanzando fino al bancone e mostrando il biglietto da visita.
«Primo piano», disse lui indicando l’ascensore. «Sotterraneo, ovviamente».
«Sotterraneo, ovviamente», sussurrò Alan dandogli di gomito.
Il barman sollevò un sopracciglio.
«Perdoni il mio amico», disse Daniel. «Prendiamo le scale».
«Non potete».
Fu il turno di Daniel di sollevare un sopracciglio e spostò lo sguardo dall’uomo alla tromba delle scale.
«Quelle non sono scale?».
«Sono scale, ma non ci sono scale che portano dove state andando».
«Allora vada per l’ascensore», disse Alan con un sorriso a trentadue denti. «Di bene in meglio!».
Entrarono nell’ascensore e premettero il pulsante del primo piano sotterraneo. Mentre le porte si chiudevano, l’uomo al bancone alzò la cornetta del telefono.
«Telefoni vintage», disse Alan. «Mi piace!».
«Perlomeno, sono abbastanza sicuro che quando le porte si apriranno non ci troveremo una pistola puntata alla testa», disse Daniel osservando la quantità di pulsanti che erano presenti sul fianco dell’ascensore.
«Ne sarei alquanto contrariato… ci hanno invitati loro, che almeno offrano una pizza e una birra prima di spararci».
Quando le porte si schiusero, l’uomo brizzolato li accolse con un grande sorriso.
«Ero sicuro che sareste venuti!», disse con una grassa risata rifilando a entrambi una sonora pacca sulla spalla. «Mi spiace che l’altra sera non si sia riusciti di fare bene le presentazioni ma spero comprendiate che andavamo di fretta».
Daniel ruotò la spalla indolenzita e strinse la mano dell’uomo, il quale la chiuse sulla sua come una morsa.
«Sono Roy Graves e dirigo la baracca», disse. «Venite, vi faccio fare un giro».
S’incamminarono alle sue spalle. Il brusio di voci e lo scalpiccio di passi crebbero di volume finché entrarono in un enorme salone il cui soffitto era sorretto da una doppia fila di colonne. Una miriade di persone era intenta nelle attività più disparate: chi stava alla scrivania davanti a un terminale, chi esaminava scartoffie, chi parlava al telefono, chi con ologrammi, chi semplicemente si spostava da un’apertura all’altra ai lati della sala, trasportando scatoloni, armi e qualsivoglia altro materiale. Gruppi di persone erano raccolte intorno a grandi mappe o strani oggetti dalla fattura misteriosa. Per quanto la maggior parte degli agenti fossero umani, erano presenti anche alcuni alieni dalle forme e colori più disparati.
«Benvenuti nel quartier generale della SIGMA», disse Roy.
«Se ora scopro che viviamo in un cassetto o che ci sono alieni giganti che giocano a biglie con la nostra galassia vi giuro che dovrete sedarmi», disse Alan.
«Ho un paio di colleghi davvero bravi», disse Daniel «Ti porteremo da loro».
Roy rise di gusto.
«Niente di queste cose da film», disse. «Beh a parte quello che avete davanti agli occhi… e a dirla tutta non posso escludere la cosa delle biglie».
Il direttore si incamminò attraverso la sala, Daniel e Alan lo seguirono guardandosi intorno con la bocca spalancata, fissando cose, persone e alieni senza badare alle occhiatacce che ricevevano di rimando.
«La base è ancora in fase di allestimento», continuò Roy. «Ma sta diventando un quartier generale sempre più efficiente».
Daniel osservò un tavolo sopra al quale era sospesa una sfera ricca di incisioni, un’agente la fece ruotare sfiorando l’aria nella sua prossimità e questa baluginò di un bagliore blu.
«Quindi l’agenzia è nata di recente?», chiese senza staccare gli occhi dal globo che non accennava a rallentare il suo moto.
«Di recente non direi, ha i suoi bei decenni. Possiamo dire “relativamente nuova” rispetto ad agenzie come la CIA o l’FBI. È la sede che è nuova, stiamo ancora trasferendo tutto il materiale e concentrando il centro operativo in questa struttura. Le attività della SIGMA si sono espanse parecchio negli ultimi anni, soprattutto da quando abbiamo preso contatti con la Federazione Galattica».
«Esiste una Federazione Galattica?», chiese Daniel perdendo interesse per la sfera fluttuante.
«Sorprendente, vero?», disse Roy. «Quando l’abbiamo scoperto è stato un delirio… un giorno che non dimenticherò mai».
«Far parte di una Federazione Galattica è più di quanto potessi aspettarmi», disse Alan con gli occhi sgranati.
«Beh non ne facciamo proprio parte…».
Daniel lo guardò aggrottando la fronte.
«Siamo… come dire… ci hanno definiti: “satelliti in osservazione”, un’espressione del genere», continuò Roy. «Ci sono ancora alcuni problemi di comunicazione».
«In pratica un tirocinio non retribuito», disse Alan.
«Beh, abbiamo i nostri vantaggi», disse Roy facendo spallucce. «Tutto sommato più di quanto ci saremmo potuti aspettare. Però in generale sì, la Federazione si attiene a una serie di rigide linee guida per approvare i membri e al momento non li soddisfiamo».
Un alieno grassoccio dalla pelle blu passò di fronte a loro con un muletto, tenendone il volante con sei mani, trasportava un bancale su cui erano adagiate quattro casse con la dicitura “Tecnologia Extraterrestre”.
«È tecnologia fornita dalla Federazione?», chiese Alan.
«No, la Federazione ci fornisce più che altro informazioni che considerano di dominio pubblico galattico, quando gliele chiediamo o quando ritengono doveroso informarci a riguardo. Quelle scatole vanno al dipartimento Tecnologia Extraterrestre che possiamo dire essere il dipartimento fondatore dell’agenzia. Ci sono una moltitudine di reperti alieni, come quella sfera che hai visto prima, i cercatori di tesori li trovano e li recuperano mentre gli scienziati cercano di capire come funzionano sia per utilizzarli sia per fare un po’ di reverse engineering. Non immaginate quanto materiale abbiamo racimolato nel corso dei decenni, tra civiltà maya, egizia, greca, romana, indiana, celtica… un mare di roba».
«Quindi ci sono sempre stati alieni sulla terra?», chiese Daniel. «Non verrai a dirci che i pazzoidi che dicono che Stonehenge e le piramidi sono state costruite dagli alieni hanno ragione?».
Roy emise una grassa risata.
«Non che io sappia. Però capisco questo senso d’insicurezza, l’ho avuto anch’io all’inizio, ti fa tremare le fondamenta delle più profonde convinzioni, eh?».
«Tremare è un eufemismo…».
«Per rispondere alla tua domanda: sì, ci sono sempre stati alieni sulla terra», Roy fece una pausa scrutandoli in volto, poi scoppiò ancora a ridere. «Ma non così tanti, rilassatevi! Principalmente qualche viaggiatore di passaggio o dei pirati che usano il nostro pianeta come fosse Port Royal nel milleseicentocinquanta».
«Beh questo non è che mi rassicuri poi gran che…», disse Daniel.
«Su questo non posso farci molto», disse Roy facendo spallucce. «Perlomeno, grazie ai cercatori di tesori ce ne siamo resi conto, inizialmente è a gente come loro che si deve tutto», disse indicando il gruppo intorno al tavolo su cui era dispiegata la mappa. «Ma voi non andate a dirglielo, hanno già un ego abbastanza grosso, le teste più calde della SIGMA le trovate in quel dipartimento».
«Cosa vorrebbe dire?», chiese Alan.
«Cosa?».
«SIGMA».
«Strategic Intelligence and Galactic Military Agency».
«Riempie la bocca…».
«Ma descrive bene quello che facciamo e l’acronimo è accattivante. In questo settore, credetemi, l’acronimo è tutto!».
«Ma hai detto che con la Federazione ci sono ancora problemi di comunicazione», disse Daniel. «Non credo badino all’acronimo, non credo nemmeno gli importi che lo sia».
«L’acronimo non è per loro!», disse Roy. «È per quei dementi dei politici che ci ritroviamo, e non parlo solo del nostro paese, la SIGMA è un’agenzia internazionale, è un problema diffuso a livello globale! Un nome che a loro suoni “figo” aiuta quando si fa richiesta di fondi».
Raggiunsero infine il lato opposto della gigantesca sala.
«Quest’ala a destra diventerà la divisione Missioni Spaziali, un giorno, forse, quando avremo più conoscenze e fondi… ma conto di aprirla prima di andare in pensione, se un alieno non mi si mangia prima», continuò Roy. «Da questa parte invece troviamo la divisione madrina della SIGMA, quella che più di tutte ne rappresenta l’anima: Difesa Planetaria!».
«Sono molte informazioni da metabolizzare», disse Daniel massaggiandosi una tempia.
«Ancora non ci siamo fatti una ragione dell’alieno dell’altra sera…», aggiunse Alan.
«Lo so, è soverchiante all’inizio», convenne Roy. «Ma appunto per non farvi venire un gran mal di testa, anche se temo che ormai sia troppo tardi, dopo questa panoramica su ciò che facciamo qui pensavo di farvi iniziare in piccolo, presentandovi la squadra che avete già, in qualche modo, incontrato: l’Unità Kaiju».
Li condusse un corridoio dopo l’altro in un locale più contenuto dove alcuni soldati stavano chiacchierando mentre indossavano delle protezioni imbottite. Al centro del pettorale era impressa una sigma maiuscola bianca in campo nero. Quando li notarono, si misero sull’attenti.
«Direttore», dissero in coro.
«Riposo, soldati», disse Roy. «Volevo presentarvi Daniel e Alan, alcuni di voi li hanno già incontrati un paio di giorni fa durante l’ultima missione».
«Me li ricordo bene», disse un soldato coi gradi di capitano facendosi avanti, aveva capelli corti, biondi, una mascella squadrata e una targa con scritto “Lake Miller”. «Questo coglione mi ha attaccato alle spalle».
«A mia discolpa», disse Alan. «Dan mi aveva detto che stavate facendo fuori un suo paziente…».
«Ora non dare la colpa a me!», sbottò Daniel.
«Per strappargli gli organi e venderli al mercato nero, non provare a negare!».
«La prossima volta», continuò Lake mostrando un dito medio robotico. «Ti infilo su per il culo il mio braccio metallico!».
«La prima volta non ci sei riuscito, non vedo come tu poss…».
Daniel non aveva mai sentito l’amico rimanere senza parole durante una discussione. Ad alcuni soldati mancava un arto, c’era chi aveva un braccio meccanico, chi una mano, chi una gamba. Scosse la testa ricordando di aver già notato quel dettaglio, erano successe così tante cose negli ultimi due giorni che gli era passato di mente.
«Siete?».
«L’Unità Kaiju è composta in parte da sopravvissuti», disse una soldatessa dalla pelle ambrata, i capelli ricci e una gamba meccanica la cui targa recitava “Taìssa Souza”. «Dopo l’operazione, se i pazienti hanno un background militare, li reclutiamo, diamo loro un nuovo arto robotico e la possibilità di tornare in azione».
«A proposito di azione», disse Lake. «Noi procediamo con l’addestramento».
Roy fece un cenno d’assenso e i soldati si allontanarono.
«Non il migliore degli inizi», disse Alan. «Ma tutto considerato poteva andare peggio».
«Tornano a combattere dopo un evento del genere…», disse Daniel. «Spero siano seguiti da un bravo psicoterapeuta, non è uno scherzo superare un tale trauma e mantenere un certo equilibrio emotivo, soprattutto se poi si viene ributtati in azione e per giunta in un contesto molto simile a quello traumatico».
«Sì, abbiamo alcuni psicoterapeuti, ma ci manca personale specializzato che conosca patologie di disforia dell’integrità corporea o che abbia mai visto in prima persona i kaiju».
«Per questo mi hai invitato?».
«Potresti rivelarti una risorsa vitale per la salute di questa unità. Tu e Alan vi siete dimostrati abili nel rintracciare il Signor Campbell e sareste entrambi molto utili qui alla SIGMA», disse Roy, avviandosi verso una delle porte. «Vi presento i componenti più cervellotici della squadra, sapranno rispondere a qualsiasi vostra domanda, o perlomeno… a quelle di cui conosciamo le risposte».
Li condusse in un piccolo ufficio dove una donna giapponese e un uomo indiano sollevarono lo sguardo dalla bevanda che stavano sorseggiando in tazze nere con una sigma bianca.
«Vi presento il nostro team di ricerca sui kaiju: Ito Mitsuko, esobiologa, e Ravi Kumar, astrofisico».
Daniel e Alan strinsero loro la mano a turno.
«Un ristrettissimo gruppo, che si espanderà presto, spero…».
«Avete…», disse Alan sollevando un indice. «Le tazze brandizzate?».
«Consideralo un bonus aziendale».
«Ma quindi…», li interruppe Daniel. «Cosa sono di preciso queste creature?».
«Non lo sappiamo», sentenziò Ravi scolandosi il caffè che gli rimaneva nella tazza.
«Ravi tende a essere categorico», intervenne Mitsuko dando una pacca sulla spalla al collega. «Non sappiamo cosa siano né da dove vengano, ma alcune cose nel tempo le abbiamo capite. Per dirla in poche parole: sono organismi alieni parassitici. Si insediano all’interno dell’ospite e crescono divorandone la carne e sostituendosi a uno dei suoi arti per un periodo indefinito, forse fino al termine del loro ciclo vitale».
«Come fate a essere sicuri che siano alieni?».
«Hai presente il fatto che alcune proteine sono evolutivamente conservate tanto da essere quasi identiche in tutte le creature viventi, dal lievito ai mammiferi?».
«Ho un’infarinatura base di biologia…».
«Beh, in sostanza, durante l’evoluzione alcune proteine che svolgono funzioni basilari, come la replicazione del DNA, sono rimaste pressoché invariate nei loro loci fondamentali. Pur avendo i mammiferi tante proteine accessorie e sistemi di correzione sofisticati, le proteine che polimerizzano il DNA funzionano allo stesso modo fin da quando le prime cellule eucariotiche si sono sviluppate, centinaia di milioni di anni fa».
«Mi sembra logico».
«Bene, nei campioni di tessuto di queste creature che abbiamo analizzato ci sono delle proteine analoghe, che svolgono lo stesso ruolo, ma sia la struttura degli acidi nucleici che portano l’informazione genetica sia quella delle proteine che li leggono e copiano è completamente diversa da ogni altra forma di vita conosciuta. Lo stesso vale per molti altri aspetti, è come se si fossero sviluppati da un altro evento di nascita della vita, per questo riteniamo che siano alieni».
«Capisco… e cosa intendi quando dici che si sostituiscono a un arto per un “periodo indefinito”?».
«Per ora non abbiamo mai saputo di un avvistamento casuale di queste creature, succede solo quando lo…».
«Induciamo», le venne in soccorso Ravi. «Oppure quando un paziente cerca con troppo successo di danneggiare l’arto alieno».
«A quanto pare non escono dal periodo dormiente di loro spontanea iniziativa», continuò Mitsuko. «Oppure il loro periodo dormiente è talmente lungo che supera l’arco temporale della vita umana…».
«Non sarebbe possibile studiarli in laboratorio?».
«Ne servirebbe un esemplare vivo».
«E sono dannatamente difficili da uccidere», intervenne Roy. «Figuriamoci da catturare vivi…».
«Sarebbe davvero il caso», disse Ravi. «Con i soggetti morti siamo in balia degli artefatti».
«Uh?», chiese Alan.
«Dati falsati dovuti a condizioni non biologiche, è impossibile capire come certe strutture fossero quando la creatura era in vita, perché cambiano post mortem».
«Ah…».
«Ci sarà tempo per i dettagli tecnici», tagliò corto Roy. «Organizziamo spesso conferenze per i nuovi membri del team, sono molto utili anche per fare brainstorming. Torniamo alla mia prima domanda: siete dei nostri?».
Daniel spostò il peso da un piede all’altro.
«Non saprei, Roy… è tanta roba e parecchio sopra le righe».
«Non mi aspetto una risposta su due piedi», disse lui. «So che può essere soverchiante, bisogna avere il tempo di metabolizzare il tutto. Però, mentre pensate alla decisione da prendere, che ne direste di restare qualche giorno? In attesa della prossima missione, per guardarvi un po’ in giro. Possiamo darvi delle stanze all’interno della sede così non dovreste fare avanti e indietro dall’hotel».
«L’offerta è fin troppo allettante», rispose Alan per tutti e due.
Daniel annuì. Dopotutto, l’amico aveva ragione: succedeva una volta nella vita di poter dare un occhio alla base di un’agenzia segreta.
«Solo un’altra domanda», disse Alan. «I kaiju non sarebbero dei mostri giganti?».
«La concezione di kaiju come “mostro gigante” non è del tutto esatta, ma capisco come la filmografia possa avervi tratti in inganno», disse Mitsuko con un sorriso. «La traduzione più appropriata di kaiju è qualcosa come “strana bestia” o “creatura misteriosa”, mi è sembrato adatto a descrivere gli alieni con cui abbiamo a che fare».
Di fronte, Alan fece lo stesso.
L’amico si era fermato a dormire e da quando si erano svegliati nessuno aveva aperto bocca. Daniel aveva preparato il caffè e si erano seduti in cucina in compagnia di un sacchetto di biscotti ormai divelto e razziato in ogni suo angolo. Sul tavolo giaceva il biglietto da visita che l’uomo brizzolato aveva dato loro la notte precedente.
«Quindi…», disse Alan rompendo il silenzio. «Ora le agenzie segrete hanno dei biglietti da visita?».
«Dopo quello che hai visto ieri, è davvero questa la domanda che ti ha tormentato?».
«Dico solo che è strano… tutta questa segretezza e poi ci lasciano un biglietto, è una prova della loro esistenza».
Daniel appoggiò la tazza e scrollò le spalle.
«Vai a capire…».
«È anche vero che se andassimo da qualcuno affermando di “avere le prove dell’esistenza degli alieni e di un’agenzia segreta che li combatte”, finiremmo presto in una di quelle trasmissioni che passano sui canali a doppia cifra».
«Questo è poco ma sicuro».
«Insieme a quelli che cacciano il Bigfoot».
«E a quelli che vanno in giro a cercare fantasmi con degli attrezzi che fanno rumori da giocattoli per bambini».
«Sai con chi altri finiremmo associati?», disse Alan unendo i polpastrelli.
«Illuminami…».
«Con quelli che credono che la terra sia piatta».
«Se è per questo, anche con quelli che credono sia cava».
«E con quelli che credono sia concava».
«C’è anche gente del genere?».
«C’è di tutto…».
«Il mondo è bello perché è vario».
«Sì, ma senza esagerare».
«Dopo ieri però non mi sento più di ridere della gente che crede a cose… beh non folli come la terra piatta ma cose…», Daniel si grattò la nuca. «Non so come dire…».
«Un po’ più normali?».
«Un po’ più plausibili, ecco…».
«Che non infrangano qualsiasi legge della fisica o della logica?».
«Sì, della “nuova” logica».
«Tipo?».
«Bigfoot, Nessie, chupacabras… chi ti dice che non siano un qualche tipo di alieno?».
«No, Nessie no, per favore, se qualcuno tira fuori un plesiosauro dal lago di Lockness sono pronto a spararmi qui e ora».
«Ok, Nessie no…».
«E faresti meglio a essere pronto anche tu perché credo commetterei un omicidio-suicidio».
«Ti basterebbe prendere il bazooka e sparare un colpo a terra».
«Che gran modo per andarsene!».
«Col botto!».
«Ah che battuta…», Alan si massaggiò le tempie. «Farò finta di non averti sentito».
«E funerale vichingo compreso».
«Senza barca, però».
«Dettagli».
«Farò di nuovo finta di non averti sentito…».
«Non divaghiamo come al solito», disse Daniel raccogliendo le briciole dei biscotti in una mano e rovesciandosele in bocca. «Ok, Nessie no, ma non so più a cosa credere, tutto quello che prima si poteva catalogare in “deliri di un paio di folli bifolchi” ora chissà… cos’è vero e cos’è falso?».
«Anche io non so più cosa pensare».
Daniel sospirò, poi tamburellò con le dita sul tavolo squadrando il biglietto da visita.
«Ma non è nemmeno questo il punto…».
«Non sai se accettare l’invito?».
«Tu che dici?».
«Io vado!».
«E come la metti coi marines?».
«Sono in licenza…», disse Alan sollevando le spalle. «Capita una volta nella vita di poter dare un occhio alla base di un’agenzia segreta che combatte gli alieni».
«Hai ragione… dovrò annullare le sedute».
«Ah guarda, i tuoi pazienti stavano male anche prima di venire in terapia, se la caveranno».
Daniel rise suo malgrado.
«È in questi momenti che vorrei avere qualcuno a cui delegare le chiamate…».
«Se vuoi li chiamo io, ci metto un attimo».
«Mi serve che siano ancora miei pazienti al termine della chiamata…», disse Daniel prendendo telefono e taccuino. «Tu occupati del volo».
«Perché succede sempre tutto a New York?».
«Chi l’avrebbe mai detto, vero? La vita è come nei film».
Daniel passò la successiva mezzora chiamando tutti i suoi pazienti, informandoli che le sedute sarebbero state annullate per la settimana a venire. Alan, dal canto suo, fece in modo di ottenere due posti su un volo per l’aeroporto JFK quel pomeriggio stesso. Non c’era niente in casa per pranzare, quindi decisero di mangiare sano e ordinarono una pizza. Più tardi, durante le ore di attesa al terminal, trovarono un albergo in cui pernottare e quando atterrarono a New York, nel tardo pomeriggio, presero un taxi che li portò all’hotel. Quella sera mangiarono un hamburger al ristorante dell’albergo e uscirono a bere una birra nel primo Irish Pub che trovarono. Per quanto fosse stata una giornata frenetica, con il viaggio improvvisato, quando si trovarono sotto alle coperte Daniel non riuscì a prendere sonno e si rigirò a lungo, accompagnato dal russare di Alan che, a quanto pareva, non risentiva dello stress allo stesso modo. Infine, scivolò tra le braccia di Morfeo senza rendersene conto, ritrovandosi a rotolare in un’inquadratura nera tra un’immagine e l’altra della sera precedente: la gamba mozzata, l’alieno che si agitava, il suono degli spari, il mitragliatore puntato in faccia.
La sveglia suonò, traendolo in salvo.
Daniel scattò su, ansimando con gli occhi sgranati.
«Cazzo…», mormorò.
«Cosa succede?», Alan era già vestito e si stava mettendo le scarpe.
«Incubi… tu non ne hai avuti?».
«No, perché?».
«L’alieno…», disse Daniel allargando le mani. «La gamba…».
«Ah sì, è stato spaventoso».
«Ma hai comunque dormito bene?».
«Come un bambino!».
Daniel si limitò a scuotere la testa e stropicciarsi gli occhi.
«Mi serviranno almeno un paio di caffè per riprendermi».
«Allora muoviti, andiamo a fare colazione», Alan gli lanciò addosso i vestiti. «Ho fame!».
Daniel si preparò in fretta e furia e, ancora barcollante, seguì l’amico nella hall dell’hotel dove era stato allestito un piccolo buffet.
«Cosa ti aspetti di trovare alla sede di questa SIGMA?», chiese Alan mettendosi nel piatto tutto il bacon che riuscì ad afferrare. «Roba alla Men in Black? Alieni che passeggiano, maxischermi sintonizzati su trasmissioni di chissà quale pianeta e lucine colorate ovunque?».
«Come fai ad abbuffarti in questo modo di prima mattina?», chiese Daniel prendendo uno yogurt e delle fette biscottate. «Non ne ho idea, una base con alieni che gironzolano in giro mi sembrerebbe troppo. Dai, nessuno riuscirebbe a mantenere segreti tutti quegli alieni e sicuramente non viviamo in un cassetto».
«Prova tu a non fare una colazione sostanziosa con davanti ore di addestramento e poi dimmi se non arrivi a pranzo con la lingua che striscia per terra», disse Alan prendendo le posate e iniziando a tagliare. «Beh, ricordati dei neuralizzatori, è tutto più semplice se puoi cancellare la memoria alla gente».
«Ok, ma bacon, burro, pane e uova sembra la sagra del colesterolo più che una colazione che possa lasciarti in grado di correre», disse Daniel strappando la pellicola dello yogurt con pere e noci, poi spezzò una fetta biscottata a metà e la intinse. «In tal caso sarei preoccupato anche io per gli effetti a lungo termine come diceva J, e non vedo perché non usarlo su di noi quella sera stessa».
«Correre? Parlavo dell’addestramento al poligono», disse Alan con una grassa risata prima di ficcarsi in bocca una striscia di bacon croccante. «Perché vogliono reclutarci».
«Reclutarci?».
«Altrimenti perché ci avrebbero invitati a fare un tour della loro sede?».
«In effetti ha senso…».
«E devo ringraziare te per essere qui!».
«E non te lo dimenticare», Daniel lo puntò con il pezzo di fetta biscottata ricoperto di yogurt.
«Ma mangialo in maniera normale quello yogurt!».
«No».
Finito di fare colazione, uscirono e percorsero a piedi i pochi isolati che li separavano dall’indirizzo che era segnato sul biglietto da visita. Giunsero in una piazza circondata da alberi di ginkgo e panchine in pietra. Al centro vi era una fontana con un singolo getto che traballava nello sfidare la gravità. Un imponente edificio dalle pareti completamente nere occupava la metà nord.
«Sembra un Cubo Borg», disse Alan. «Non fosse per le pareti lisce e il fatto che gli mancano quelle inquietanti luci verdi, ma per il resto è uguale».
«È un cubo nero… somiglia a qualsiasi cubo nero», disse Daniel guardandolo di traverso. «È come dire che sembra un cubo di Rubik con tutte le facce nere».
«Un cubo di Rubik monocolore non avrebbe senso di esistere».
«Ti chiamano Capitan Ovvio nei marines?».
«Sì, fatti forte del tuo stato da civile, prenditi gioco del capitano che non può punirti per insubordinazione».
«Allora smettila con questi paragoni idioti».
«Ok, allora somiglia a un gigantesco brownie».
«Ma hai ancora fame?».
«No, ma c’è sempre posto per un brownie».
«E comunque no, non ci somiglia, il brownie è chiamato così perché è marrone, non nero».
«Non ti va mai bene niente eh?».
«Sono solo esigente coi paragoni».
«Dev’essere terribile essere te».
«Ah, non sai quanto, c’è un tizio che mi dà il tormento da tutta la vita…».
«Ma smettila! Se anche fosse vero, il fastidio sarebbe ampiamente compensato dalla saggezza».
«Disse quello che dimentica i bazooka nel bagagliaio».
«Cazzo, il bazooka!».
«Non l’hai tolto?».
«E quando? Sono rimasto da te a dormire, ricordi? È stato ventiquattro ore fa, nemmeno tu puoi averlo dimenticato…».
«Vabbè… fortuna che siamo andati con la mia macchina all’aereoporto».
«Il che vuol dire che la mia è ancora parcheggiata sotto casa tua».
«Basta che non salti in aria…».
«O che un poliziotto non ne controlli il bagagliaio, ti immagini?».
«Non farmici pensare…».
«È l’ultima delle nostre preoccupazioni», disse Alan avviandosi verso l’edificio. «Piuttosto, come entriamo?».
«Lì nel centro c’è un portone».
«Sì, l’ho visto… ma dico: entriamo così? Citofoniamo al portone e basta?».
Daniel fece spallucce.
«Un po’ deludente questa agenzia segreta».
«Prima i biglietti da visita e poi portoni nei brownies… non sembrano tenere alla loro segretezza…».
«Però…», Daniel si grattò la testa. «Non c’è civico né campanello».
Un sottile fascio di luce quasi impercettibile fuoriuscì da una fotocellula sopra alla porta e li scansionò entrambi in una frazione di secondo.
Il portone si spalancò.
«Ok…», disse Alan. «Iniziamo a ragionare».
Entrarono e si ritrovarono in quella che sembrava la reception di un hotel, piccole piante dalle foglie larghe erano sistemate in ogni angolo e una zona relax sulla sinistra ospitava un basso tavolo attorniato da poltrone e divani su cui erano adagiati soffici cuscini. Dritto davanti a loro, un tappeto rosso era adagiato sulle piastrelle di marmo e conduceva fino a un ascensore sul lato opposto della sala. A metà percorso, sulla destra, una fila di sgabelli in legno laccato era posta davanti a un lungo bancone dello stesso materiale dietro al quale vi era una collezione di decine e decine di bottiglie di liquori colorati. Un uomo vestito con una camicia borgogna e un panciotto nero stava dietro al bancone e li osservava da sopra due folti baffi attorcigliati.
«Buongiorno signori», li salutò. «Come posso esservi utile?».
«Un paio di giorni fa un uomo brizzolato sulla cinquantina ci ha dato questo», disse Daniel avanzando fino al bancone e mostrando il biglietto da visita.
«Primo piano», disse lui indicando l’ascensore. «Sotterraneo, ovviamente».
«Sotterraneo, ovviamente», sussurrò Alan dandogli di gomito.
Il barman sollevò un sopracciglio.
«Perdoni il mio amico», disse Daniel. «Prendiamo le scale».
«Non potete».
Fu il turno di Daniel di sollevare un sopracciglio e spostò lo sguardo dall’uomo alla tromba delle scale.
«Quelle non sono scale?».
«Sono scale, ma non ci sono scale che portano dove state andando».
«Allora vada per l’ascensore», disse Alan con un sorriso a trentadue denti. «Di bene in meglio!».
Entrarono nell’ascensore e premettero il pulsante del primo piano sotterraneo. Mentre le porte si chiudevano, l’uomo al bancone alzò la cornetta del telefono.
«Telefoni vintage», disse Alan. «Mi piace!».
«Perlomeno, sono abbastanza sicuro che quando le porte si apriranno non ci troveremo una pistola puntata alla testa», disse Daniel osservando la quantità di pulsanti che erano presenti sul fianco dell’ascensore.
«Ne sarei alquanto contrariato… ci hanno invitati loro, che almeno offrano una pizza e una birra prima di spararci».
Quando le porte si schiusero, l’uomo brizzolato li accolse con un grande sorriso.
«Ero sicuro che sareste venuti!», disse con una grassa risata rifilando a entrambi una sonora pacca sulla spalla. «Mi spiace che l’altra sera non si sia riusciti di fare bene le presentazioni ma spero comprendiate che andavamo di fretta».
Daniel ruotò la spalla indolenzita e strinse la mano dell’uomo, il quale la chiuse sulla sua come una morsa.
«Sono Roy Graves e dirigo la baracca», disse. «Venite, vi faccio fare un giro».
S’incamminarono alle sue spalle. Il brusio di voci e lo scalpiccio di passi crebbero di volume finché entrarono in un enorme salone il cui soffitto era sorretto da una doppia fila di colonne. Una miriade di persone era intenta nelle attività più disparate: chi stava alla scrivania davanti a un terminale, chi esaminava scartoffie, chi parlava al telefono, chi con ologrammi, chi semplicemente si spostava da un’apertura all’altra ai lati della sala, trasportando scatoloni, armi e qualsivoglia altro materiale. Gruppi di persone erano raccolte intorno a grandi mappe o strani oggetti dalla fattura misteriosa. Per quanto la maggior parte degli agenti fossero umani, erano presenti anche alcuni alieni dalle forme e colori più disparati.
«Benvenuti nel quartier generale della SIGMA», disse Roy.
«Se ora scopro che viviamo in un cassetto o che ci sono alieni giganti che giocano a biglie con la nostra galassia vi giuro che dovrete sedarmi», disse Alan.
«Ho un paio di colleghi davvero bravi», disse Daniel «Ti porteremo da loro».
Roy rise di gusto.
«Niente di queste cose da film», disse. «Beh a parte quello che avete davanti agli occhi… e a dirla tutta non posso escludere la cosa delle biglie».
Il direttore si incamminò attraverso la sala, Daniel e Alan lo seguirono guardandosi intorno con la bocca spalancata, fissando cose, persone e alieni senza badare alle occhiatacce che ricevevano di rimando.
«La base è ancora in fase di allestimento», continuò Roy. «Ma sta diventando un quartier generale sempre più efficiente».
Daniel osservò un tavolo sopra al quale era sospesa una sfera ricca di incisioni, un’agente la fece ruotare sfiorando l’aria nella sua prossimità e questa baluginò di un bagliore blu.
«Quindi l’agenzia è nata di recente?», chiese senza staccare gli occhi dal globo che non accennava a rallentare il suo moto.
«Di recente non direi, ha i suoi bei decenni. Possiamo dire “relativamente nuova” rispetto ad agenzie come la CIA o l’FBI. È la sede che è nuova, stiamo ancora trasferendo tutto il materiale e concentrando il centro operativo in questa struttura. Le attività della SIGMA si sono espanse parecchio negli ultimi anni, soprattutto da quando abbiamo preso contatti con la Federazione Galattica».
«Esiste una Federazione Galattica?», chiese Daniel perdendo interesse per la sfera fluttuante.
«Sorprendente, vero?», disse Roy. «Quando l’abbiamo scoperto è stato un delirio… un giorno che non dimenticherò mai».
«Far parte di una Federazione Galattica è più di quanto potessi aspettarmi», disse Alan con gli occhi sgranati.
«Beh non ne facciamo proprio parte…».
Daniel lo guardò aggrottando la fronte.
«Siamo… come dire… ci hanno definiti: “satelliti in osservazione”, un’espressione del genere», continuò Roy. «Ci sono ancora alcuni problemi di comunicazione».
«In pratica un tirocinio non retribuito», disse Alan.
«Beh, abbiamo i nostri vantaggi», disse Roy facendo spallucce. «Tutto sommato più di quanto ci saremmo potuti aspettare. Però in generale sì, la Federazione si attiene a una serie di rigide linee guida per approvare i membri e al momento non li soddisfiamo».
Un alieno grassoccio dalla pelle blu passò di fronte a loro con un muletto, tenendone il volante con sei mani, trasportava un bancale su cui erano adagiate quattro casse con la dicitura “Tecnologia Extraterrestre”.
«È tecnologia fornita dalla Federazione?», chiese Alan.
«No, la Federazione ci fornisce più che altro informazioni che considerano di dominio pubblico galattico, quando gliele chiediamo o quando ritengono doveroso informarci a riguardo. Quelle scatole vanno al dipartimento Tecnologia Extraterrestre che possiamo dire essere il dipartimento fondatore dell’agenzia. Ci sono una moltitudine di reperti alieni, come quella sfera che hai visto prima, i cercatori di tesori li trovano e li recuperano mentre gli scienziati cercano di capire come funzionano sia per utilizzarli sia per fare un po’ di reverse engineering. Non immaginate quanto materiale abbiamo racimolato nel corso dei decenni, tra civiltà maya, egizia, greca, romana, indiana, celtica… un mare di roba».
«Quindi ci sono sempre stati alieni sulla terra?», chiese Daniel. «Non verrai a dirci che i pazzoidi che dicono che Stonehenge e le piramidi sono state costruite dagli alieni hanno ragione?».
Roy emise una grassa risata.
«Non che io sappia. Però capisco questo senso d’insicurezza, l’ho avuto anch’io all’inizio, ti fa tremare le fondamenta delle più profonde convinzioni, eh?».
«Tremare è un eufemismo…».
«Per rispondere alla tua domanda: sì, ci sono sempre stati alieni sulla terra», Roy fece una pausa scrutandoli in volto, poi scoppiò ancora a ridere. «Ma non così tanti, rilassatevi! Principalmente qualche viaggiatore di passaggio o dei pirati che usano il nostro pianeta come fosse Port Royal nel milleseicentocinquanta».
«Beh questo non è che mi rassicuri poi gran che…», disse Daniel.
«Su questo non posso farci molto», disse Roy facendo spallucce. «Perlomeno, grazie ai cercatori di tesori ce ne siamo resi conto, inizialmente è a gente come loro che si deve tutto», disse indicando il gruppo intorno al tavolo su cui era dispiegata la mappa. «Ma voi non andate a dirglielo, hanno già un ego abbastanza grosso, le teste più calde della SIGMA le trovate in quel dipartimento».
«Cosa vorrebbe dire?», chiese Alan.
«Cosa?».
«SIGMA».
«Strategic Intelligence and Galactic Military Agency».
«Riempie la bocca…».
«Ma descrive bene quello che facciamo e l’acronimo è accattivante. In questo settore, credetemi, l’acronimo è tutto!».
«Ma hai detto che con la Federazione ci sono ancora problemi di comunicazione», disse Daniel. «Non credo badino all’acronimo, non credo nemmeno gli importi che lo sia».
«L’acronimo non è per loro!», disse Roy. «È per quei dementi dei politici che ci ritroviamo, e non parlo solo del nostro paese, la SIGMA è un’agenzia internazionale, è un problema diffuso a livello globale! Un nome che a loro suoni “figo” aiuta quando si fa richiesta di fondi».
Raggiunsero infine il lato opposto della gigantesca sala.
«Quest’ala a destra diventerà la divisione Missioni Spaziali, un giorno, forse, quando avremo più conoscenze e fondi… ma conto di aprirla prima di andare in pensione, se un alieno non mi si mangia prima», continuò Roy. «Da questa parte invece troviamo la divisione madrina della SIGMA, quella che più di tutte ne rappresenta l’anima: Difesa Planetaria!».
«Sono molte informazioni da metabolizzare», disse Daniel massaggiandosi una tempia.
«Ancora non ci siamo fatti una ragione dell’alieno dell’altra sera…», aggiunse Alan.
«Lo so, è soverchiante all’inizio», convenne Roy. «Ma appunto per non farvi venire un gran mal di testa, anche se temo che ormai sia troppo tardi, dopo questa panoramica su ciò che facciamo qui pensavo di farvi iniziare in piccolo, presentandovi la squadra che avete già, in qualche modo, incontrato: l’Unità Kaiju».
Li condusse un corridoio dopo l’altro in un locale più contenuto dove alcuni soldati stavano chiacchierando mentre indossavano delle protezioni imbottite. Al centro del pettorale era impressa una sigma maiuscola bianca in campo nero. Quando li notarono, si misero sull’attenti.
«Direttore», dissero in coro.
«Riposo, soldati», disse Roy. «Volevo presentarvi Daniel e Alan, alcuni di voi li hanno già incontrati un paio di giorni fa durante l’ultima missione».
«Me li ricordo bene», disse un soldato coi gradi di capitano facendosi avanti, aveva capelli corti, biondi, una mascella squadrata e una targa con scritto “Lake Miller”. «Questo coglione mi ha attaccato alle spalle».
«A mia discolpa», disse Alan. «Dan mi aveva detto che stavate facendo fuori un suo paziente…».
«Ora non dare la colpa a me!», sbottò Daniel.
«Per strappargli gli organi e venderli al mercato nero, non provare a negare!».
«La prossima volta», continuò Lake mostrando un dito medio robotico. «Ti infilo su per il culo il mio braccio metallico!».
«La prima volta non ci sei riuscito, non vedo come tu poss…».
Daniel non aveva mai sentito l’amico rimanere senza parole durante una discussione. Ad alcuni soldati mancava un arto, c’era chi aveva un braccio meccanico, chi una mano, chi una gamba. Scosse la testa ricordando di aver già notato quel dettaglio, erano successe così tante cose negli ultimi due giorni che gli era passato di mente.
«Siete?».
«L’Unità Kaiju è composta in parte da sopravvissuti», disse una soldatessa dalla pelle ambrata, i capelli ricci e una gamba meccanica la cui targa recitava “Taìssa Souza”. «Dopo l’operazione, se i pazienti hanno un background militare, li reclutiamo, diamo loro un nuovo arto robotico e la possibilità di tornare in azione».
«A proposito di azione», disse Lake. «Noi procediamo con l’addestramento».
Roy fece un cenno d’assenso e i soldati si allontanarono.
«Non il migliore degli inizi», disse Alan. «Ma tutto considerato poteva andare peggio».
«Tornano a combattere dopo un evento del genere…», disse Daniel. «Spero siano seguiti da un bravo psicoterapeuta, non è uno scherzo superare un tale trauma e mantenere un certo equilibrio emotivo, soprattutto se poi si viene ributtati in azione e per giunta in un contesto molto simile a quello traumatico».
«Sì, abbiamo alcuni psicoterapeuti, ma ci manca personale specializzato che conosca patologie di disforia dell’integrità corporea o che abbia mai visto in prima persona i kaiju».
«Per questo mi hai invitato?».
«Potresti rivelarti una risorsa vitale per la salute di questa unità. Tu e Alan vi siete dimostrati abili nel rintracciare il Signor Campbell e sareste entrambi molto utili qui alla SIGMA», disse Roy, avviandosi verso una delle porte. «Vi presento i componenti più cervellotici della squadra, sapranno rispondere a qualsiasi vostra domanda, o perlomeno… a quelle di cui conosciamo le risposte».
Li condusse in un piccolo ufficio dove una donna giapponese e un uomo indiano sollevarono lo sguardo dalla bevanda che stavano sorseggiando in tazze nere con una sigma bianca.
«Vi presento il nostro team di ricerca sui kaiju: Ito Mitsuko, esobiologa, e Ravi Kumar, astrofisico».
Daniel e Alan strinsero loro la mano a turno.
«Un ristrettissimo gruppo, che si espanderà presto, spero…».
«Avete…», disse Alan sollevando un indice. «Le tazze brandizzate?».
«Consideralo un bonus aziendale».
«Ma quindi…», li interruppe Daniel. «Cosa sono di preciso queste creature?».
«Non lo sappiamo», sentenziò Ravi scolandosi il caffè che gli rimaneva nella tazza.
«Ravi tende a essere categorico», intervenne Mitsuko dando una pacca sulla spalla al collega. «Non sappiamo cosa siano né da dove vengano, ma alcune cose nel tempo le abbiamo capite. Per dirla in poche parole: sono organismi alieni parassitici. Si insediano all’interno dell’ospite e crescono divorandone la carne e sostituendosi a uno dei suoi arti per un periodo indefinito, forse fino al termine del loro ciclo vitale».
«Come fate a essere sicuri che siano alieni?».
«Hai presente il fatto che alcune proteine sono evolutivamente conservate tanto da essere quasi identiche in tutte le creature viventi, dal lievito ai mammiferi?».
«Ho un’infarinatura base di biologia…».
«Beh, in sostanza, durante l’evoluzione alcune proteine che svolgono funzioni basilari, come la replicazione del DNA, sono rimaste pressoché invariate nei loro loci fondamentali. Pur avendo i mammiferi tante proteine accessorie e sistemi di correzione sofisticati, le proteine che polimerizzano il DNA funzionano allo stesso modo fin da quando le prime cellule eucariotiche si sono sviluppate, centinaia di milioni di anni fa».
«Mi sembra logico».
«Bene, nei campioni di tessuto di queste creature che abbiamo analizzato ci sono delle proteine analoghe, che svolgono lo stesso ruolo, ma sia la struttura degli acidi nucleici che portano l’informazione genetica sia quella delle proteine che li leggono e copiano è completamente diversa da ogni altra forma di vita conosciuta. Lo stesso vale per molti altri aspetti, è come se si fossero sviluppati da un altro evento di nascita della vita, per questo riteniamo che siano alieni».
«Capisco… e cosa intendi quando dici che si sostituiscono a un arto per un “periodo indefinito”?».
«Per ora non abbiamo mai saputo di un avvistamento casuale di queste creature, succede solo quando lo…».
«Induciamo», le venne in soccorso Ravi. «Oppure quando un paziente cerca con troppo successo di danneggiare l’arto alieno».
«A quanto pare non escono dal periodo dormiente di loro spontanea iniziativa», continuò Mitsuko. «Oppure il loro periodo dormiente è talmente lungo che supera l’arco temporale della vita umana…».
«Non sarebbe possibile studiarli in laboratorio?».
«Ne servirebbe un esemplare vivo».
«E sono dannatamente difficili da uccidere», intervenne Roy. «Figuriamoci da catturare vivi…».
«Sarebbe davvero il caso», disse Ravi. «Con i soggetti morti siamo in balia degli artefatti».
«Uh?», chiese Alan.
«Dati falsati dovuti a condizioni non biologiche, è impossibile capire come certe strutture fossero quando la creatura era in vita, perché cambiano post mortem».
«Ah…».
«Ci sarà tempo per i dettagli tecnici», tagliò corto Roy. «Organizziamo spesso conferenze per i nuovi membri del team, sono molto utili anche per fare brainstorming. Torniamo alla mia prima domanda: siete dei nostri?».
Daniel spostò il peso da un piede all’altro.
«Non saprei, Roy… è tanta roba e parecchio sopra le righe».
«Non mi aspetto una risposta su due piedi», disse lui. «So che può essere soverchiante, bisogna avere il tempo di metabolizzare il tutto. Però, mentre pensate alla decisione da prendere, che ne direste di restare qualche giorno? In attesa della prossima missione, per guardarvi un po’ in giro. Possiamo darvi delle stanze all’interno della sede così non dovreste fare avanti e indietro dall’hotel».
«L’offerta è fin troppo allettante», rispose Alan per tutti e due.
Daniel annuì. Dopotutto, l’amico aveva ragione: succedeva una volta nella vita di poter dare un occhio alla base di un’agenzia segreta.
«Solo un’altra domanda», disse Alan. «I kaiju non sarebbero dei mostri giganti?».
«La concezione di kaiju come “mostro gigante” non è del tutto esatta, ma capisco come la filmografia possa avervi tratti in inganno», disse Mitsuko con un sorriso. «La traduzione più appropriata di kaiju è qualcosa come “strana bestia” o “creatura misteriosa”, mi è sembrato adatto a descrivere gli alieni con cui abbiamo a che fare».