Il sole sfavillava sulle spesse armature e gli scudi imponenti dei cavalieri che, raggiungendo la sommità della collina, s’immergevano nella luce dell'alba. Guadagnata la vetta, Redgar fermò la colonna e si sfilò l’elmo scintillante. I lunghi capelli castani gli ricaddero sul volto e, mentre li riavviava, chiuse gli occhi gustandosi i raggi del sole che percorrevano il suo viso come una tiepida carezza.
«Alestra ci sorride», affermò sorridendo a sua volta.
«Non vi sono dubbi. La signora del mattino ci favorisce», disse Valsaran affiancando il cavallo al suo. «Tuttavia, sarà tra le ombre di una torre che combatteremo oggi».
«Fenderemo quelle tenebre come l’astro dorato taglia la notte», disse Redgar smontando di sella. Poi accarezzò il muso dell’animale. «Non temere amico mio, andrà bene come al solito».
«Parli con me o col cavallo?».
«Entrambi».
Redgar estrasse la spada dalla lama ustionante facendole compiere un ampio arco, la conficcò nel terreno dinnanzi a sé e si inchinò appoggiando un ginocchio a terra, stringendo l'impugnatura con entrambe le mani e piegando la testa fino a sfiorarle. Meditò a lungo, chiedendo ad Alestra la forza di affrontare lo scontro che li aspettava. Pregò finché sentì che l’energia magica era al suo massimo e gli incantesimi da battaglia sfolgoravano nella sua mente come luminose scaglie dorate pronte ad essere incanalate da una mente disciplinata. Si rimise in piedi, rinfoderò la spada e si girò verso il gruppo di soldati della chiesa di Alestra. In qualità di Paladino era suo dovere guidarli in battaglia con spirito indomito. Il vento soffiava placido stormendo le foglie e piegando gli steli d’erba, scrollandoli della rugiada mattutina. Con i capelli che aleggiavano nell'aria tornò alla sua cavalcatura, e infilato un piede nella staffa si issò e ricadde sulla sella.
«Ti ho mai dato motivo di non fidarti di me?», chiese quando notò lo sguardo di Valsaran.
«Oh si! Ricordi la città delle ombre il mese scorso? E la grotta quello prima? Ah, e due giorni fa quando mi hai consigliato il pollo alla locanda!».
«Ma smettila…», sbottò Redgar ridendo di gusto. «Il pollo non era niente male, sei tu che hai lo stomaco delicato», poi divenne serio, aggrottò lo sguardo nel contemplare l’antica torre al centro della radura e indossò l’elmo. «La battaglia ci attende».
A un suo cenno la colonna di soldati iniziò a muoversi e ben presto si trovarono all’ombra della torre. Un brivido gli percorse la schiena, poteva quasi percepire l’aura di malvagità che si irradiava dalla torre, propagandosi attraverso le fenditure dei mattoni come un puzzo fetido. Avanzò fino al portone e provò a spingerne i battenti. Era chiuso, come si era aspettato. Fece un cenno agli uomini i quali presero le asce e iniziarono a tempestare il portone di colpi. Le assi erano resistenti ma, frammento dopo frammento, iniziarono a cedere gemendo sotto i colpi delle lame fino a spezzarsi con sonori schiocchi, lasciando intravedere le ombre all’interno. Facendo leva con le asce attraverso i buchi nelle assi alzarono la spessa trave che sbarrava la porta dall’interno fino a farla scivolare oltre le guide facendola cadere. Un tonfo sordo echeggiò nella torre quando la trave colpì il pavimento in pietra.
Una cosa era sicura: non godevano dell’elemento sorpresa.
Redgar imbracciò lo scudo ed estrasse la spada. Mediante un comando mentale ne arroventò la lama e si avvicinò al portone mentre gli uomini gettavano le asce da falegname e si equipaggiavano per la battaglia imminente. Scrutò attraverso le fenditure ma più che il sole a far breccia all’interno della torre sembrava fossero le ombre a diffondersi nel mondo esteriore. Diede un calcio al centro del portone e i battenti si schiusero cigolando sui cardini e andando a sbattere con il muro a fine corsa. Non un singolo suono era udibile all’interno della torre, come fosse disabitata. Entrò e le ombre aleggiarono come melassa al suo passaggio, scostandosi come una sequela di tende invisibili. Il suono dei passi sulle piastrelle di pietra grigia e il clangore dell’armatura sembravano attutiti.
Poi, come dal nulla, si scatenò il caos.
Le creature uscirono da ogni dove. Redgar mulinò la spada tagliando carne, ossa e metallo. A ogni fendente saltavano in aria brandelli di vestiti, pezzi di armature, membra e teste mozzate. I morti caddero numerosi e a un certo punto si faticava a restare in piedi tanto erano diventate scivolose le piastrelle per il sangue. Poi venne colpito alla testa, un colpo tanto forte da fargli perdere conoscenza.
Cadde tra i corpi dei suoi soldati e tutto si fece buio.
***
La testa bruciava e le palpebre erano pesanti, scrutò l’ambiente circostante attraverso gli occhi ridotti a una fessura: sembrava tutto sfocato e il cervello gli pulsava per lo sforzo. Decise di chiudere gli occhi per il momento e affidarsi agli altri sensi. Era sdraiato su un letto morbido con lenzuola pulite che profumavano di lavanda tirate fino alla vita ma nonostante questo, sentiva freddo, per cui se le tirò fino al collo e nel movimento sfiorò il petto con le mani.
Dov’era l’armatura?!
Si tirò su di scatto e una fitta alla testa quasi lo fece ricadere sulla schiena. Ruotò il busto appoggiandosi al materasso con una mano e i capelli gli scivolarono sul volto. Provò ad aprire gli occhi e riuscì a mettere a fuoco quella che era l’unica fonte di illuminazione della stanza: una lampada ad olio che bruciava senza emettere fumo. Una mano si protese a scostargli i capelli dal viso, accarezzandolo allo stesso tempo, una mano fresca e morbida, candida e affusolata. La seguì con lo sguardo e vide che apparteneva a una donna dalla pelle d’alabastro. Aveva lunghi capelli neri che incorniciavano un viso di sconvolgente bellezza, adornato da labbra rosse come il sangue e occhi azzurri come un cielo privo di nuvole.
Che fosse morto?
Che la sua anima fosse trasmigrata attraverso i piani e si trovasse alla corte di Alestra assieme ai paladini del passato? Tuttavia, non ricordava di essere passato per la sala di Hesredon e aver affrontato il Giudizio. Sentì una fitta al fianco e spostò di lato le coperte. Aggrottò la fronte: era pieno di ferite da cui colavano rivoli secchi di sangue.
«Non muoverti, faresti riaprire le ferite», sussurrò la donna. «Hai combattuto bene, non ero certa di riuscire a strapparti dall’abbraccio della morte».
Dunque era vivo…
Tirò un sospiro di sollievo, sentiva che nel muoversi le croste gli tiravano la pelle, doveva aver perso molto sangue, non c’era da stupirsi che gli girasse la testa. Fece per guardarsi intorno ma il suo sguardo venne catturato dagli occhi magnetici della donna, la quale si avvicinò e si sedette sul letto al suo finaco.
«Vi devo la vita, milady».
«Pronunci parole premature».
«Senza di voi avrei certo trovato la morte. Come posso sdebitarmi?».
«Per quello c’è molto tempo», disse lei sorridendo. «Per ora vi prego di accettare questo altro mio dono», si avvicinò e sfiorò le sue labbra con un bacio. «Ora dovete riposare».
Detto questo, si alzò e si allontanò verso la porta, la gonna che ondeggiava mossa dalle gambe. Redgar si accorse soltanto ora della pesante catena che, chiusa intorno alla caviglia, lo ancorava al muro.
***
Aprì gli occhi. Si sentiva ancora debole. Nonostante fossero costantemente medicate, le ferite non accennavano a guarire e ogni volta sembrava se ne fossero formate altre. Non aveva idea se fosse notte o giorno, dormiva molto e non c’erano finestre nello scantinato in cui lo tenevano rinchiuso. Il mal di testa, perlomeno, sembrava essere sparito, per cui ne approfittò per guardarsi meglio intorno: si trovava in una stanza spaziosa che poteva somigliare alla cantina di un grande palazzo. Decine di bottiglie di vino erano stivate in apposite scaffalature, l’aria era umida e i muri screziati di muschio, l'intonaco era caduto dalle pareti rivelando i mattoni rossi che vi si nascondevano dietro. Probabilmente nei piani inferiori la torre si diramava in un complesso molto più grande di quanto sembrasse dall’esterno. Un movimento attirò la sua attenzione: c’era una figura china su un altro letto addossato alla parete adiacente rispetto a quella dove si trovava lui. Era la donna che aveva trovato al suo primo risveglio. Era assorta dal suo compito, lo sguardo assente e le labbra socchiuse. La lunga chioma nera le ricadeva sul vestito attillato del medesimo colore e accarezzava quasi la fredda pietra del pavimento. Le rosse labbra si mossero a formare un sorriso mentre tappava la bottiglia di vetro in cui aveva appena raccolto un fluido rosso.
Vino?
La donna appoggiò la bottiglia a terra e portò entrambe le mani sul braccio dell’uomo che le stava di fronte mentre, chiudendo gli occhi, avvicinava la bocca all’incavo del gomito per leccare il sangue che usciva ancora dalle arterie recise. Poi emise un gemito estatico, lanciò un incantesimo di guarigione per fermare il sangue e avvolse il braccio con bende pulite avendo cura che la fasciatura fosse ben stretta. Riprese la bottiglia e avvicinò il viso incantevole a quello stanco e pallido dell'uomo.
«Adoro il tuo sangue!», gli sussurrò.
L'uomo la guardò stordito, soggiogato dall’incantesimo degli occhi della donna. Il prigioniero si sporse in avanti, cercando le sue labbra con le proprie ma lei si ritrasse.
In quel momento Redgar poté vedere il volto dell’uomo: Valsaran!
«Allontanati da lui!», urlò in un impeto di rabbia.
Lei si girò inarcando le sopracciglia.
«Guarda un po’ chi si è svegliato!».
«Allontanati da lui, immonda creatura! Per Alestra brucerai tr…».
«Si, si, brucerò tra le fiamme purificatrici», lo interruppe lei. «Non sei per niente originale, sai? Hai idea di quante volte me l’hanno detto? Però vacci piano con le offese personali… immonda… ma come ti permetti?».
Redgar si limitò a squadrarla con gli occhi ridotti a una fessura.
«Guarda, ti capisco… ma non devi essere geloso!», esclamò con un sorriso malizioso. «Sappi che preferisco il tuo di sangue», poi uscì portando con se la bottiglia.
Redgar rabbrividì.
Ecco perché le sue ferite non guarivano mai. Chissà quante bottiglie erano state riempite con il suo… chissà in quanti se ne erano nutriti… si guardò intorno vedendo per la prima volta le bottiglie della cantina come ciò che erano: bottiglie di sangue.
***
Ormai aveva completamente perso la nozione del tempo, potevano essere passati giorni come decadi da quando era stato imprigionato. L’assenza del sole lo stava logorando psicologicamente e da tempo non percepiva più il contatto con la Dea. Non aveva visto nessuno degli uomini con cui era arrivato alla torre, potevano essere in altre celle ma in fondo al cuore sapeva la verità: con ogni probabilità erano tutti morti. A parte Valsaran, che tuttavia al momento non era nel suo letto. Aveva provato a chiamarlo e a fare rumore ma non c’era stato verso di risvegliarlo dal coma ad occhi aperti in cui era caduto, l’incantesimo della donna era troppo potente. Si stava chiedendo dove l’avessero portato quando la porta si dischiuse con un lento cigolio e la sua carceriera corvina entrò. Portava abiti puliti e stava trascinando una vasca ricolma d’acqua da cui si alzavano volute di vapore. La facilità con cui la stava trasportando, senza mostrare segni dello sforzo sul volto, tradiva una forza che non apparteneva agli esili arti della donna: una forza di origine soprannaturale. Evitò di guardarla negli occhi per non cadere nuovamente sotto il suo incantesimo.
«Non mi guardi? Non ti piaccio più?», disse lei mettendo il broncio, poi sfoderò un ghigno selvaggio e fece una giravolta, al che i numerosi lembi della gonna danzarono attorno a lei. «E dire che mi sono fatta bella per te…».
Redgar sollevò lo sguardo quanto bastava per sapere in che direzione sputare.
«Puttana…», ringhiò.
Lei smise di ridere all’istante. Chiuse la distanza che li separava con un balzo e gli mollò uno schiaffo che quasi gli staccò la testa, poi gli afferrò il mento girandogli la testa in modo da fissarlo dritto negli occhi. Redgar sentì la magia scavargli nel profondo del cervello, digrignò i denti e riuscì a stento a resistere.
«Puttana?», chiese lei. «Ti piacerebbe vero?», gli si avvicinò ancora di più mettendosi a cavalcioni su di lui, le gambe aperte e il seno premuto contro il suo petto. «Vorresti prendermi? Qui? Adesso?».
«Vorrei ucciderti. Qui. Adesso», ebbe la prontezza di rispondere nonostante il tentativo di intrusione mentale l’avesse lasciato frastornato.
Lei si scostò quel tanto che bastava da poterlo guardare negli occhi e mentre lui li fissava, questi si fecero liquidi, come un mare in tempesta, trascinandolo al loro interno. Solo ora notò una miriade di pagliuzze dorate. Il mondo iniziò a vorticare e divenne buio, come un pescatore che la notte viene sorpreso dalla tempesta e oscilla al ritmo delle onde. I sensi s’intorpidirono, l’unica cosa che riusciva a sentire era il fragore del mare e lo scricchiolio delle assi del ponte. Era buio tutto intorno eccezion fatta per le stelle dorate della volta celeste e veniva cullato dal moto armonioso dei flutti. Poi, una fiamma apparve nell’aria, aleggiava eterea e la percepì come fosse piantata in mezzo alla fronte. In una frazione di secondo fendette il sogno a occhi aperti.
Svegliati.
La lampada a olio ebbe una vampata e Redgar scosse la testa, lucido tutto d’un tratto. Non sentiva più freddo, le ferite erano guarite e sentiva nuova forza animargli le membra. La donna si tirò su di scatto facendo due passi indietro, come fosse stata spinta da una forza invisibile.
«Curioso», disse lei sfoderando una coppia di lunghi canini. «La tua Dea ti assiste».
Redgar la fissò con nuova determinazione.
«Lavati», sibilò lei. «Stasera vedremo chi l’avrà vinta».
***
Quella sera stessa la donna venne a prenderlo in compagnia di altri tre vampiri. Quando sganciarono la cavigliera che lo teneva legato al muro Redgar fu sul punto di attaccarli e fuggire, ma per quante ne avessero uccise di quelle creature, ormai era da solo e disarmato. Nonostante l’energia bruciasse dentro di lui come un fuoco, non c’era nulla che potesse fare al momento e decise di aspettare per vedere se gli si sarebbe presentata un’occasione migliore. Lo condussero in cima alla torre, sul tetto, alla luce della luna e delle stelle. Lo spiazzo, delimitato da un parapetto in pietra, sembrava essere stato attrezzato per un grande banchetto: bottiglie piene di liquido color borgogna riempivano i tavoli. Tuttavia, non c’erano pietanze. Ai vampiri immortali non serviva mangiare il cibo dei viventi. Una sequela di altari era disposta in prossimità del parapetto lungo tutto il perimetro della torre. Vi erano sdraiati i suoi uomini, drogati e asserviti alla volontà dei vampiri. Lo condussero all’unico altare rimasto libero e lo costrinsero a sdraiarvisi sopra, incatenandolo.
«Lastelor», gli sussurrò la donna all’orecchio. «Buona festa della luna».
Se Alestra era la Dea del Sole, Nesaelin lo era della Luna. Lastelor veniva festeggiata in tutto il mondo ogni mese durante la prima sera di luna piena accendendo lumi, brindando e danzando.
«Maledetti eretici…», commentò Redgar. «Credete che la Dama d’Argento approvi tutto questo?».
Lei sbuffò come se stesse parlando con uno stolto.
«Voi umani credete che rappresenti solo la speranza poiché i raggi lunari fendono la notte vincendo le tenebre ma essi sono molto più di questo, al contrario del sole, la luna non disprezza il nostro popolo e la sua luce non ci nuoce», aprì la bocca per aggiungere altro ma cambiò idea e congedò la faccenda con un gesto della mano. «Ma non sono qui per parlare di teologia con te… ci vediamo dopo», disse dandogli un paio di buffetti sulla guancia e avviandosi all’altare su cui giaceva Valsaran dove prese il lungo coltello dalla lama ondulata che vi era appoggiato.
Redgar realizzò in quel momento che l’avrebbero ucciso. Li avrebbero uccisi tutti. Lui era il capitano della brigata ed era suo compito fare in modo che tornassero vivi alle loro famiglie, inutile dire che aveva fallito. Conosceva Valsaran da quando aveva memoria, erano cresciuti insieme e avevano frequentato la stessa accademia e ora, avrebbe assistito alla sua morte. Urlò e tirò le catene ma era impossibile spezzarle.
«La tua disperazione è dolce per la Signora», disse lei un momento prima di calare il pugnale che trapassò la carne con facilità e colpì la pietra dell’altare. Valsaran smise di urlare all’istante, il cuore spezzato. Il sangue schizzò tutto intorno bagnando l’altare e i vampiri si gettarono sul corpo mordendo ovunque trovassero pelle nuda. La donna lasciò gli altri al loro banchetto e gli si avvicinò. Aveva pagliuzze d’oro negli occhi che splendevano come rari tesori, unico segno del suo retaggio elfico.
«Ho conservato il mio appetito per te», disse leccandosi le labbra.
Redgar si perse nuovamente nei suoi occhi. Lei gli si mise sopra a cavalcioni, le gambe aperte ai lati di quelle di lui e si chinò baciandogli il collo e facendogli sentire il morbido seno a contatto con la pelle. Poi quello stesso fuoco che aveva sentito insorgere da dentro lo strappò nuovamente alla dominazione mentale.
Combatti.
Redgar spalancò gli occhi che ora rilucevano della luce di Alestra e strattonò le catene. La donna si tirò su di scatto con un grido.
«E va bene, l’hai voluto tu! Avrai un destino diverso da quello del tuo amico», disse spalancando la bocca e rivelando due lunghi canini.
Gli morse il collo e una fitta di dolore gli percorse il cervello mentre i denti gli perforavano la pelle. Ebbe la sensazione di un orribile risucchio, il sangue che invertiva direzione nelle vene per l’aspirazione. Il cuore iniziò a battere all’impazzata. Ma non era solo questione di cosa gli veniva tolto, c’era anche la sensazione viscida di qualcosa che entrava, qualcosa che strisciava attraverso i canini della donna e che gli scivolava all’interno come una presenza che si diffondeva a macchia d’olio. Quando ella si staccò, sentì un brivido e un pizzicore quasi piacevoli.
«Vedrai», disse lei. «Sarà questione di un momento e mi ringrazierai per averlo fatto».
Redgar urlò inarcando la schiena mentre l’infezione dilagava percorrendo vene e arterie che diventavano nere sotto la pelle, un fuoco che si diffondeva a ogni battito del cuore corrompendogli la carne. A uno a uno gli organi collassarono per poi tornare in funzione grazie all’energia oscura della maledizione. Quando giunse al cuore ebbe un infarto e aprì la bocca annaspando alla ricerca d’aria. Poi, un lampo di luce scaturì dai suoi occhi.
Risorgi.
In una deflagrazione luminosa che lo fece sollevare a un metro dall’altare, luci e ombre si intersecarono senza mai mescolarsi e la degenerazione della sua carne venne arrestata ma non invertita.
Né vivo, né morto, Redgar si alzò.
Forte del potere di Alestra e del germe della non-morte strappò le catene dalla pietra con uno scatto delle braccia. Poteva percepire le ondate di potere che scaturivano dal suo corpo come basse vibrazioni. La donna si trovava a terra a due passi da lui. L’esplosione le aveva strappato le vesti e un sangue scuro e denso come confettura colava da molteplici ferite. Redgar si mosse con una rapidità che gli era sconosciuta mulinando la catena sopra la testa e la colpì scaraventandola nel vuoto oltre il parapetto.
Gli altri vampiri si rialzarono, scrollandosi di dosso i frammenti di vetro delle bottiglie che erano esplose, tutti inzuppati di sangue, e si lanciarono all’attacco. Redgar li fulminò con lo sguardo, luci che si levavano come lingue di fuoco dall’occhio destro e ombre come volute di fumo dal sinistro. Questa volta la situazione era ribaltata: loro erano disarmati e lui aveva una catena dalla cui estremità pendeva un grumo di malta e mattoni. Per quanto riguardava forza e velocità invece… il divario era stato ben colmato.
Roteò l’arma e colpì staccando la testa del primo vampiro con un sol colpo e ancora prima che questa toccasse terra stava già attaccando nuovamente. I vampiri saltarono ai lati nel tentativo di accerchiarlo ma Redgar indietreggiò fino ad avere il cornicione alle spalle. Vedendo che tentennavano, Redgar decise di prendere l’iniziativa. Scattò in avanti colpendo allo stomaco il più vicino scaraventandolo diversi metri indietro, nell’aria risuonò il secco schioccare delle costole spaccate. Spostò una spalla all’indietro per schivare le nere unghie di una delle creature e ne approfittò per caricare un montante che gli scaricò sul mento con tale forza da alzarlo dal suolo rompendo la mandibola. Sentì dei sibili alle sue spalle e si voltò per vedere due vampiri che gli si stavano gettando addosso. Reagì d’istinto allungando una mano e scaricando il potere che la Signora del Mattino gli aveva concesso: ne scaturì un cono di luce abbagliante che non solo fermò la carica delle creature ma le lasciò morte e fumanti.
Non ebbe difficoltà a finire i vampiri rimanenti e quando fu rimasto solo, cadde in ginocchio, sfinito. Luci e ombre dentro di lui si spensero lasciando un sentimento di vuota disperazione. Le prime luci dell’alba iniziavano a tingere di rosa l’orizzonte. Si mise in piedi con sforzo sovrumano e guardò oltre il parapetto: la donna era scomparsa.
Scese a uno a uno gli scalini della torre e si trascinò fino al salone d’ingresso. Il portone era ancora sfondato così come l’avevano lasciato quando avevano fatto irruzione e la luce dorata del mattino vi entrava come una lama illuminando la polvere aleggiante e disegnando un arco sul pavimento.
Emise un sospiro pesante.
S’incamminò, immergendosi nella luce, finché non ebbe messo un piede fuori dalla torre.
Con sua sorpresa non prese fuoco e non morì.
Sollevò un sopracciglio senza sapere se essere deluso o sollevato.
Perlomeno, era segno che non era diventato completamente un mostro. Però cazzo se aveva sete.