Genere: Fantascienza, azione, AVVentura, commedia, horror.
«Anche solo poche decine di esemplari potrebbero perturbare l’ecosistema, destabilizzandolo, fino a farlo collassare. È difficile prevedere le conseguenze».
Dopo aver risolto l’enigma dei kaiju, Daniel e Alan si sono uniti alla SIGMA e, per “farsi le ossa”, accompagnano Lake e Taìssa a catturare una creatura aliena che imperversa per lo zoo di Central Park. Quello che sembrava un esemplare isolato potrebbe preannunciare una catastrofe ecologica. Accompagnati da Mitsuko, un’esobiologa esperta di forme di vita aliene, si mettono sulle tracce di una possibile colonia di creature appartenenti a un altro mondo. Dove si trovano? Quanto sono numerose? Come sono arrivate sulla Terra? Sono tutte domande alle quali tenteranno di dare una risposta.
Trigger Warnings: violenza, linguaggio scurrile.
leggi i primi 3 capitoli
Lo zoo di Central Park
«Quando mi hai proposto di visitare lo zoo di Central Park non credevo l’avremmo fatto armati», disse Daniel con la pistola a dardi che gli premeva sul costato, nascosta da un lembo della giacca.
«Se ti avessi detto il vero motivo», Alan esibì un ghigno. «Non saresti venuto».
«Dovremmo parlare di questa tua tendenza a gettarmi nel pericolo con l’inganno…».
«Qualcuno deve pur movimentarti la vita», la ghiaia del sentiero scricchiolò sotto agli scarponi. «Altrimenti resteresti chiuso nel tuo studio tutto il giorno».
«Forse è quello che voglio».
«Nah…», emise Alan guardandolo in tralice. «Non me la dai a bere».
Daniel allargò le braccia e l’imprecazione che gli uscì di bocca venne sovrastata dal clacson di un camion. Le urla degli autisti bloccati nel traffico di New York spaventarono uno stormo di passeri che, spiccato il volo dagli alberi ai lati della strada, si librarono nell’aria sopra alle loro teste.
«Cerca di non spararti un tranquillante in un piede e andrà tutto bene», disse Lake, affiancandoglisi. «Anche perché non ho voglia di portarti in braccio…».
Daniel squadrò il soldato di sottecchi.
«Nessuno ha voglia di portarti in braccio», rincarò la dose Taìssa con lo sguardo perso tra le fronde degli alberi dai mille colori. «Ti lasceremmo a sbavare sul selciato…».
«O ti butteremmo a smaltire la dose nel recinto delle tigri».
«Non dargli retta», disse Mitsuko poggiandogli una mano sulla spalla, il profumo di vaniglia si mescolava a quello di resina come fosse tutt’uno con la natura circostante. «Non ci sono tigri a Central Park».
«Ma ci sono i leopardi delle nevi», rise Alan calciando oltre il sentiero un ramo spezzato che rimbalzò sbilenco sulle prime foglie autunnali adagiate sull’erba. «Più o meno le stesse bestie…».
«Più o meno le stesse bestie…», borbottò l’esobiologa. «Fingerò di non aver sentito».
«Non sono i felini a preoccuparmi…», disse Daniel.
«La pistola?», chiese Alan. «Ha la sicura, non preoccuparti».
Daniel guardò Lake e il soldato scosse la testa.
«La sicura non è inserita».
«La dose di sedativo non è letale per gli esseri umani», disse Taìssa. «Fintanto che ti spari un solo colpo…».
«Non mi sparerò in un piede!», sbottò Daniel provocando risate generali. «È l’idea di dare la caccia a una creatura aliena all’interno di uno zoo che mi stranisce!».
Costeggiarono la Fifth Avenue verso nord, camminando lungo il viale alberato. Svoltarono a sinistra, allontanandosi dalla strada e discendendo due brevi rampe di scale, imboccando il sentiero selciato che tagliava attraverso gli alberi portando all’entrata dello zoo di Central Park. Un’imponente struttura in mattoni rossi, su cui garrivano al vento diverse bandiere, si stagliò davanti a loro. Un’aquila di mare testabianca era raffigurata tra due cumuli di palle di cannone in cima al portone d’ingresso, sciabole incrociate e picche impilate ne adornavano i pannelli laterali. Una targa recitava “Arsenale”.
«Gli animali li tengono come attrazione o li addestrano per l’esercito?», chiese Alan grattandosi la testa.
«Paura che ti rubino il posto nei marines?», disse Lake.
«Non si sa mai… scommetto che ci sono scimmie che sparano meglio di te».
«Questo edificio era un deposito di munizioni durante la Guerra Civile», intervenne Mitsuko prima che i due potessero iniziare a litigare. «Ora ospita il Dipartimento Parchi e Ricreazione di New York».
Il selciato si divideva in due strade che percorrevano il perimetro dell’arsenale per poi curvare oltre di esso. Sulla destra, in fondo alla via, era visibile un cinema mezzo nascosto tra le fronde degli alberi. Sulla sinistra, sul lato esterno del percorso, c’era un negozio di souvenir.
«Avete idea…», iniziò Daniel, guardandosi intorno per esser sicuro che nessun visitatore fosse a portata d’orecchio. «…di come sia fatto l’alieno che cerchiamo?».
«Piccolo, scuro e peloso», disse Taìssa. «Non sappiamo altro».
«Non è molto…».
La soldatessa fece spallucce.
«Ti aspettavi una foto?».
«Non mi aspettavo niente…».
«E allora di cosa ti lamenti?», intervenne Alan. «Magari è pure carino!».
«Sappiamo bene che sei in grado di affezionarti anche a quelli più orripilanti», disse Lake. «Non importa da quale incubo siano usciti…».
Il marine ignorò la frecciatina e si diresse verso il negozio di souvenir.
«Qualunque cosa sia, da qualunque parte sia venuto, possiamo essere certi di tre cose», disse, voltandosi. «È spaventato, è affamato e… erano solo due cose».
«Non hai tutti i torti», disse Mitsuko. «Probabilmente sta cercando del cibo».
«Di cosa si nutre?», chiese Daniel.
La biologa fece spallucce.
«Bambini?».
Alan scoppiò a ridere.
«Spero sia erbivoro!».
I soldati dell’unità kaiju si scambiarono occhiate nervose.
«Meglio muoversi», disse Daniel.
Svoltarono l’angolo sul selciato di fianco al negozio di souvenir e videro, oltre un cancello aperto, l’ingresso vero e proprio dello zoo. Era un luminoso sabato pomeriggio e i genitori avevano portato i bambini per una gitarella in famiglia, accalcandosi davanti al guardiano che ne controllava i biglietti prima di farli entrare.
«Non so com’è entrato l’alieno…», disse Taìssa. «Ma a noi toccherà pagare».
Alan sbuffò e scosse la testa.
«Degli agenti di un’organizzazione segreta che devono perdere tempo a prendere i biglietti…», disse mentre svoltavano a sinistra seguendo i cartelli che indicavano la biglietteria. «Davvero, ragazzi, a volte non so cosa pensare, spero almeno non ci sia…».
Avevano davanti una dozzina di persone.
«Degli agenti di un’organizzazione segreta in coda alla biglietteria», riprese Alan. «Roy dovrebbe davvero…».
«Abbiamo capito», sbottò Lake. «Hai chiarito il punto, ora vuoi stare zitto?».
Le persone in coda prima di loro si rivelarono essere tre famiglie e in breve tempo acquistarono i biglietti d’ingresso e tornarono all’aria aperta.
«Diciannove dollari e novantacinque…», disse Alan. «Questi Roy ce li rimborsa, vero?».
«Farai meglio a goderti gli animali…».
Passarono davanti al Caffè della Gru Danzante, i cui tavolini esterni erano occupati da persone che facevano merenda con paste appena sfornate, mentre l’odore di popcorn al burro si levava dal chiosco sul sentiero. A Daniel venne l’acquolina in bocca, aveva fatto un pranzo leggero, ma non c’era tempo.
«Se è alla ricerca di cibo», disse. «Potrebbe aggirarsi nei pressi del caffè».
«Di sicuro ne ha sentito l’odore», disse Mitsuko. «Ma la zona è molto affollata, potrebbe aver deciso di cercare fonti di cibo incustodite…».
«…come le riserve di cibo per gli animali», concluse Taìssa. «Ma non possiamo certo chiedere le chiavi del magazzino a un guardiano…».
Raggiunsero l’entrata dello zoo e mostrarono i biglietti al controllore che fece un cenno con la testa, represse uno sbadiglio, e li lasciò passare. Il sentiero selciato proseguiva dritto con i bagni pubblici a sinistra e una piazza sulla destra. Una gigantesca vasca scoperta ospitava un gran numero di otarie che nuotavano in cerchio.
«Non credo si sia avvicinato alla piazza centrale», disse Daniel osservando la moltitudine di persone che, accalcate al parapetto di vetro, osservavano i mammiferi marini saltellare sulle grasse pance per accaparrarsi i posti più comodi dove riposare su una formazione rocciosa al centro della vasca.
Procedettero e si trovarono davanti a un edificio in mattoni rossi su cui l’edera si abbarbicava facendo presa tra i solchi. La porta era chiusa e sopra di essa vi era una targa che recitava “Area Tropicale”.
«Che abbia cercato riparo qui dentro?», disse Alan. «Non sono una creaturina aliena ma questo posto potrebbe sembrare un rifugio sicuro».
«Pensi che sia in grado di aprire le porte?», chiese Daniel.
«Magari è sgattaiolato seguendo un turista».
«Non sapendo con cosa abbiamo a che fare…», disse Mitsuko facendo spallucce. «Tanto vale provare».
Entrarono nel padiglione e, superata la doppia porta, vennero avvolti dall’oscurità in un clima caldo e umido. Le pareti blu scuro ospitavano, su entrambi i lati, delle teche illuminate preparate ad arte per somigliare al sottobosco di una foresta tropicale. Diverse specie di serpenti giacevano sonnolenti a terra o sui rami, il vapore acqueo si condensava sulle squame, splendendo alla luce delle lampade termiche. Sorpassarono i visitatori con le facce incollate ai vetri e raggiunsero un punto in cui il passaggio si stringeva e una serie di frange di plastica pendeva dal soffitto, filtrando una luce fredda.
Daniel avanzò seguendo gli altri, scostando le frange con una mano e ritrovandosi su un passamento in assi di legno, circondato da piante dalle foglie larghe e carnose. Non vi erano pareti oltre al parapetto in vetro. Piccoli pappagalli verdi e altri esemplari più grandi blu e gialli erano liberi di svolazzare sopra alle loro teste. In cima ad alcuni paletti infilzati nel terreno vi erano delle mangiatoie in plastica nera, come fossero piatti in bilico sulla punta dei bastoni. I pappagalli vi becchettavano facendo cadere di tanto in tanto dei semi coi rapidi movimenti del becco. Ibis, upupe e cacatua saltellavano sulle rocce di fianco al passaggio e molte altre specie che non seppe identificare volavano di ramo in ramo. Vi erano anche delle anatre a terra, intente a lavarsi in una pozza d’acqua mentre una guardiana versava del pane raffermo nei vassoi per poi dedicarsi a pulire gli escrementi dei volatili.
«Che diavolo ci fanno delle anatre nell’area tropicale?», chiese Alan.
«Le anatre hanno una distribuzione cosmopolita», disse Mitsuko.
Alan la squadrò sollevando un sopracciglio.
«Si dice così quando l’areale di una specie si estende quasi in tutto il mon…».
«Riformulo l’indignazione: ho pagato venti dollari per vedere delle anatre?».
«A quanto pare… non erano nemmeno nella brochure», disse la biologa. «Ma non dimenticare l’alieno».
«Quello non era di certo nella brochure».
«Prendilo come un fuori programma».
«Allora è stata una fortuna aver organizzato proprio oggi una gita allo zoo».
Mitsuko emise una risatina nervosa.
«Basta non farsi mordere».
Procedettero sulla passatoia, un piede dopo l’altro, guardandosi intorno. Un metro più in basso vi era del terriccio umido e, giungendo come una cascata dal piano superiore, l’acqua scorreva in un piccolo torrente che intersecava il percorso. Una vasca composta da una lastra di vetro posizionata tra le rocce conteneva una decina di piranha dal ventre rosso, placidi a dispetto della loro nomea. Alti pilastri di metallo, disposti a intervalli regolari al centro della passatoia, sorreggevano lunghi vassoi da cui la vegetazione faceva discendere foglie e viticci fin quasi a sfiorar loro i capelli.
Uno dei paletti su cui erano appese le mangiatoie era stato divelto. Il vassoio di plastica nera era riverso a terra e una miriade di semi erano sparsi al suolo. Il cadavere di un ibis rosso giaceva squartato, le ossa del torace rotte ed esposte all’aria, il corpo vuoto, sviscerato.
«Cazzo…», sussurrò Daniel. «Opera del nostro amico?».
«Non vedo animali in grado di fare una cosa del genere», disse Alan. «A meno che i piranha non abbiano imparato a camminare…».
«Questo risponde alle domande sulla dieta dell’alieno», disse Mitsuko portando una mano a coprire la bocca.
«È meglio se ci muoviamo, prima che faccia del male a qualcuno», disse Lake. «O peggio…».
Un frastuono di squittii venne da più avanti. All’interno di una gabbia in alto, una miriade di piccoli lemuri saltavano come impazziti da un ramo all’altro. Una creatura dalla lunga pelliccia scura ne afferrò uno tra le zampe artigliate e gli staccò la testa a morsi, schizzando il vetro di sangue.
«Merda…», disse Daniel.
I bambini urlarono, i genitori li allontanarono dalla gabbia.
L’alieno emise uno stridio.
Corsero avanti dove il percorso piegava su sé stesso in una spirale ascendente che li portò al piano superiore. Quando raggiunsero la gabbia dei lemuri, l’alieno sibilò rizzando il pelo tanto da somigliare a una palla nera dal cui centro colava sangue. Scagliò la preda a terra e si tuffò attraverso un’apertura nel vetro della gabbia, dirigendosi all’uscita del padiglione, sparendo nella vegetazione.
Il camminamento in legno si immergeva nella gabbia dei lemuri come un tunnel in una montagna, i piccoli mammiferi squittivano e agitavano i rami tutto intorno a loro. Il cadavere dello sfortunato giaceva nel terriccio umido. Oltrepassata la gabbia, l’ultima parte del percorso serpeggiava tra alti tronchi secchi da cui si librarono in volo una moltitudine di pipistrelli, spaventati dal baccano. Un pavone li scansò in uno svolazzare di penne brillanti. La sagoma dell’alieno svanì in lontananza attraverso una porta mente un turista urlava come un ossesso cercando di fuggire.
Raggiunsero una parete di legno e, oltrepassata la doppia porta, si ritrovarono alla luce del sole sul lato adiacente rispetto a quello da cui erano entrati, poco oltre la piazza con la vasca delle otarie. Il visitatore era a terra e si teneva una gamba con le mani, gemendo come se gliel’avessero amputata. Dell’alieno non vi era traccia.
«Cazzo!», disse Lake. «Dobbiamo catturarlo il prima possibile!».
«Dividiamoci», disse Taìssa. «Due squadre?».
«L’hai mai visto un film horror?», disse Alan.
«Non c’è tempo per le stronzate», sbottò Lake. «Mitsuko, assicurati che il turista stia bene, chiama l’unità medica se necessario. Taìssa con me, perlustriamo il giardino centrale e la zona intorno all’area tropicale. Voi due controllate…», si guardò intorno. «Oltre questo laghetto artificiale».
I due soldati della squadra kaiju scomparvero tra le siepi e Mitsuko si chinò sul visitatore, cercando di calmarlo e lasciarle vedere la ferita. Daniel si trovò a fissare l’amico d’infanzia.
«Mi sembra giusto», disse allargando le mani. «Lasciamo insieme i due con minore esperienza nel cacciare alieni…».
«Non vedeva l’ora di liberarsi di noi».
«Mi chiedo perché… pensavo aveste fatto pace dopo la centrale elettrica».
«Solo una tregua passeggera».
Daniel sospirò passandosi una mano sulla fronte.
«Dai, non disperare», disse Alan. «Troviamo quella palla di pelo!».
«Fate in fretta», disse Mitsuko alle loro spalle. «Sembra che abbia una sorta di veleno paralizzante», l’uomo che fino a un momento prima si dimenava in preda ai lamenti era disteso immobile. «Non possiamo lasciare che ferisca altre persone, non so nemmeno se la SIGMA ha un antidoto», prese il telefono. «Unità medica? Abbiamo un problema…».
«Sia maledetto il giorno in cui ho deciso di unirmi all’organizzazione», disse Daniel distogliendo l’attenzione dall’esobiologa. «Muoviamoci!».
Percorsero il selciato, sotto un porticato di colonne in mattoni rossi, allontanandosi dalla piazza principale con la vasca delle otarie in direzione di un lago artificiale circondato da un parapetto di vetro. Il porticato terminò in un arco dopo il quale la strada si faceva asfaltata, immergendosi nel panorama rustico dell’area temperata.
«Guarda nel laghetto», disse Alan indicando una zona distante una decina di metri dove l’acqua ribolliva. «Hanno creato una sorgente calda».
Una targa sul parapetto recava “Macaco giapponese”, seguito da qualche riga di descrizione.
«Le scimmie saranno contente d’inverno», disse Daniel. «Ma non perderei troppo tempo a fare il turista…».
«Dici che un bel bagno alle terme non rappresenta un’attrattiva per l’alieno?».
«Non lo escludo», Daniel fece spallucce. «Ma da quello che abbiamo visto nell’area tropicale penso sia più interessato al cibo».
«Allora eviterei di perdere tempo ai recinti dei leopardi delle nevi e dei grizzly», ridacchiò Alan. «Certo, a meno che non sia completamente pazzo…».
«Non mi sembrava in grado di ragionamenti complessi, però è improbabile che attacchi animali più grossi di lui, anche se ha un veleno paralizzante…».
Seguendo il sentiero asfaltato giunsero a un bivio, la via di fronte a loro terminava ben presto contro una parete di tronchi che delimitava l’area dello zoo mentre a destra si snodava salendo di quota.
«Diamo un occhio avanti», disse Alan. «Poi andiamo a destra».
Daniel annuì lasciando che il marine avanzasse per primo. Senza quasi accorgersene portò la mano sotto alla giacca, afferrando la pistola spara dardi e procedette come fosse un assassino, gli occhi che saettavano da un lato all’altro. Giunsero su una piattaforma rialzata sopra a una piccola pozza d’acqua.
«Attenzione», lesse Alan indicando un cartello. «I cigni mordono».
Daniel spostò lo sguardo sulla pozza d’acqua, i cigni nuotavano con pigri colpi di zampe e banchettavano coi pezzi di pane gettati loro dai visitatori. L’alieno sbucò dal nulla lanciandosi contro uno dei pennuti, azzannandolo al collo. I bambini urlarono, il cigno batté le ali cercando di scrollarselo di dosso e librarsi in volo ma la creatura gli aprì la gola con un artiglio, facendolo scorrere lungo l’esofago. La testa del volatile oscillò come un giunco al vento e cadde in acqua con un tonfo, il candido piumaggio striato di rosso.
«Allontanatevi», disse Alan estraendo la pistola. «Abbiamo tutto sotto controllo!».
Sparò, ma l’alieno balzò a terra e il dardo narcotizzante s’infilzò nel cadavere del cigno. La creatura gonfiò il pelo ed emise un acuto stridio, poi si gettò tra gli arbusti, gli artigli delle zampe che lanciavano terriccio alle sue spalle.
«Merda!», esclamò Daniel estraendo a sua volta la pistola. «Recatevi all’ingresso», disse ai visitatori che li guardavano con occhi sgranati. «Restate uniti!».
Tornarono di corsa sui loro passi e imboccarono l’altra diramazione del sentiero asfaltato che conduceva nel cuore del territorio temperato. La strada era in lieve salita, a sinistra avevano una parete di roccia e, a destra, uno steccato e un prato con arbusti dalle foglie larghe e fiori gialli che giungeva fino in riva al lago termale artificiale. Il sentiero curvava gradualmente verso sinistra e, d’un tratto, vennero sorvolati da una coppia di scoiattoli che, correndo sui rami che li sovrastavano, spiccarono un salto che li portò oltre lo steccato, dileguandosi nella vegetazione tra uno squittio e l’altro. A seguirli, nero come un incubo, l’alieno saltò emettendo il solito stridio. Nell’impeto dello slancio, il pelo si adese al corpo rivelando una forma esile e scattante che era rimasta celata sotto la voluminosa pelliccia.
Daniel raggiunse lo steccato con la pistola puntata e si sporse. I due scoiattoli, seguiti dal predatore, raggiunsero il laghetto e saltarono su una serie di massi che emergevano dall’acqua. Sparò un dardo che rimbalzò sulla pietra e si inabissò. Gli animali saltarono di sasso in sasso fino ad arrivare alla parete rocciosa di un’isoletta, sparendo tra gli arbusti che la incorniciavano.
Il sentiero si fece più ripido e una manciata di secondi dopo si trovarono al di sopra di quello che scoprirono essere il riparo dei macachi giapponesi, nascosto dietro alla parete rocciosa, nei pressi di una cascata artificiale che si riversava nel lago in corrispondenza di un punto di avvistamento preparato per i visitatori.
«Dov’è?», chiese Alan.
«Non lo vedo», disse Daniel scrutando la vegetazione dell’isolotto, troppo fitta per distinguere una creatura dalle dimensioni modeste.
D’un tratto, gli scoiattoli saltarono fuori dalla macchia, passando in mezzo al branco di macachi. L’alieno li inseguì, ringhiando, seminando il panico tra le scimmie. Uno dei macachi che stava lavando della frutta mollò il cibo per la sorpresa e prese dei sassi iniziando a lanciarli. Gli altri lo imitarono e l’alieno, inferocito, fu costretto ad abbandonare la caccia per fronteggiare il nuovo nemico.
Alan prese la mira ma una mano gli fece abbassare il braccio che teneva la pistola.
«Non adesso», disse Mitsuko.
I macachi rizzarono il pelo grigiastro e mostrarono le zanne.
«Se dovesse cadere privo di sensi in quella conca sarebbe difficile recuperarlo».
L’alieno venne colto da un sasso sul costato e fuggì su per il costone roccioso, aggrappandosi alle asperità della pietra e aiutandosi coi rami degli arbusti che si abbarbicavano tra le fenditure della parete scoscesa.
«Viene da questa parte!», squittì Daniel.
Raggiunta la sommità, la creatura sgattaiolò tra le loro gambe. Daniel sarebbe saltato sul ramo più alto di un albero se solo avesse potuto. Puntò alla rinfusa e sparò un dardo che rimbalzò sull’asfalto tra i piedi di Alan.
«Cazzo!», sbottò il marine. «Fai attenzione!».
L’alieno sibilò e continuò la corsa.
«Va verso il recinto dei leopardi delle nevi», disse Mitsuko.
Rincorsero la creatura per qualche decina di metri. Daniel faticò a mantenere il passo mentre prendeva un altro dardo e cercava di infilarlo nella canna dell’arma che sobbalzava a ogni falcata, tremandogli tra le mani. Il recinto dei leopardi delle nevi era circondato da un alto muro di cemento.
«Sta entrando nel punto di osservazione», disse mentre l’alieno si fiondava in quello che sembrava un capanno.
Vennero quasi travolti dalla fiumana di persone che fuggivano all’esterno urlando e, qualche gomitata dopo, entrarono nel punto di osservazione: un’area ottagonale con pareti in assi di legno e tetto impagliato, sorretto da una colonna portante al centro. Sui lati attigui a quello in cui era ricavato il passaggio d’ingresso vi erano raffigurazioni dell’habitat tipico dei leopardi delle nevi, mentre tre dei lati opposti, al di sopra di un parapetto in legno che arrivava alla vita, erano costituiti da spesse finestre di vetro temperato tramite le quali si poteva vedere l’interno della gabbia.
«È in trappola!», urlò Alan puntando la pistola. «Ora stai fermo, piccolo bastardo…».
L’alieno saltò, aggrappandosi con le unghie al balconcino del parapetto di legno, usandolo per darsi lo slancio. Il tonfo che provocò schiantandosi sul vetro temperato rimbombò in tutto il punto d’osservazione. Le ossa si spezzarono emettendo un sonoro crack e l’alieno rimbalzò a terra morto stecchito.
«Ah…», disse Daniel rimanendo senza parole.
«Muori così?», disse Alan abbassando l’arma. «Da idiota, spaccandoti l’osso del collo contro una parete di vetro?», avanzò di qualche passo e scosse il cadavere con la punta della scarpa per essere sicuro che fosse morto. «Che delusione…».
«Sarebbe stato meglio prenderlo vivo», disse Mitsuko estraendo un sacchetto di plastica a chiusura ermetica. «Ma non si può avere tutto».
Un leopardo delle nevi uscì da dietro un cespuglio, avvicinandosi incuriosito.
«Gli Stati Uniti ringraziano per la tua collaborazione», disse Alan facendo il saluto militare.
Il felino ricambiò lo sguardo e sbadigliò mostrando una spanna di lingua.
«Bah…», disse il marine con un gesto della mano. «Ingrato».
Mitsuko indossò dei guanti di lattice e si avvicinò al cadavere dell’alieno.
«Che schifo», disse. «Non so se mi va di prenderlo… guanti o non guanti».
Daniel si guardò in giro, uscì dal punto d’osservazione e prese due rami che fossero abbastanza dritti poi rientrò e si chinò di fianco alla biologa.
«Faccio io», disse infilando i rami sotto al corpo della creatura. «Tieni aperto il sacchetto».
Mitsuko allargò i lembi di plastica e Daniel vi fece scivolare dentro il cadavere. In quel momento, i due soldati dell’unità kaiju arrivarono con uno scalpiccio di stivali, entrando con le armi spianate.
«Cosa succede?», chiese Lake. «Abbiamo sentito del trambusto».
«Calma, cowboy», disse Alan. «L’alieno è bello che stecchito».
«Non dovrebbe essere stecchito, gli ordini erano di prenderlo vivo».
«Beh… si vede che lui ha ricevuto ordini diversi: si è spaccato l’osso del collo cercando di saltare attraverso un vetro».
«Lo dico sempre che i vetri troppo puliti sono un problema», disse Daniel.
«E tu ne sai qualcosa, vero?», ridacchiò Alan.
«È successo una volta sola!».
Lake sospirò e scrollò le spalle.
«Immagino sia meglio di niente», disse. «Almeno non scorrazza più libero a Central Park».
Mitsuko sigillò il sacco di plastica e lo mise nello zaino.
«Sarà meglio andare…», disse caricandoselo in spalla.
«Peccato, avrei voluto vedere i pinguini…», disse Alan.
«Se vuoi finire il giro, puoi rimanere», disse Taìssa. «Però poi dovresti spiegare parecchie cose alla polizia, arriveranno a breve».
«Non ci tengo… preferisco lasciare certe beghe a Roy».
Ripercorsero la strada al contrario, passando davanti al guardiano della biglietteria che li squadrò senza sapere cosa dire o fare, sentendo lo sguardo dei presenti sulle loro spalle.
«Dobbiamo capire da dove arriva», disse Mitsuko. «Se ci fosse, da qualche parte, una popolazione di creature aliene sarebbe un danno enorme per l’ecosistema».
Si incamminarono verso nord, seguendo la strada selciata che percorreva il perimetro di Central Park, passando sotto agli archi di pietra su cui sorgeva il Delacorte Clock. Le lancette segnarono le diciotto in punto e le scimmie di bronzo in cima alla struttura batterono i martelli sulla campana. Al piano di sotto, sei statue di animali che suonavano strumenti musicali iniziarono a ruotare sui binari attorno all’orologio. Fu così che un pinguino, un canguro, un orso, un elefante, un ippopotamo e una capra danzanti li accompagnarono attraverso il parco suonando una varietà di strumenti musicali sulle note di Raindrops Keep Falling on my Head.
«Se ti avessi detto il vero motivo», Alan esibì un ghigno. «Non saresti venuto».
«Dovremmo parlare di questa tua tendenza a gettarmi nel pericolo con l’inganno…».
«Qualcuno deve pur movimentarti la vita», la ghiaia del sentiero scricchiolò sotto agli scarponi. «Altrimenti resteresti chiuso nel tuo studio tutto il giorno».
«Forse è quello che voglio».
«Nah…», emise Alan guardandolo in tralice. «Non me la dai a bere».
Daniel allargò le braccia e l’imprecazione che gli uscì di bocca venne sovrastata dal clacson di un camion. Le urla degli autisti bloccati nel traffico di New York spaventarono uno stormo di passeri che, spiccato il volo dagli alberi ai lati della strada, si librarono nell’aria sopra alle loro teste.
«Cerca di non spararti un tranquillante in un piede e andrà tutto bene», disse Lake, affiancandoglisi. «Anche perché non ho voglia di portarti in braccio…».
Daniel squadrò il soldato di sottecchi.
«Nessuno ha voglia di portarti in braccio», rincarò la dose Taìssa con lo sguardo perso tra le fronde degli alberi dai mille colori. «Ti lasceremmo a sbavare sul selciato…».
«O ti butteremmo a smaltire la dose nel recinto delle tigri».
«Non dargli retta», disse Mitsuko poggiandogli una mano sulla spalla, il profumo di vaniglia si mescolava a quello di resina come fosse tutt’uno con la natura circostante. «Non ci sono tigri a Central Park».
«Ma ci sono i leopardi delle nevi», rise Alan calciando oltre il sentiero un ramo spezzato che rimbalzò sbilenco sulle prime foglie autunnali adagiate sull’erba. «Più o meno le stesse bestie…».
«Più o meno le stesse bestie…», borbottò l’esobiologa. «Fingerò di non aver sentito».
«Non sono i felini a preoccuparmi…», disse Daniel.
«La pistola?», chiese Alan. «Ha la sicura, non preoccuparti».
Daniel guardò Lake e il soldato scosse la testa.
«La sicura non è inserita».
«La dose di sedativo non è letale per gli esseri umani», disse Taìssa. «Fintanto che ti spari un solo colpo…».
«Non mi sparerò in un piede!», sbottò Daniel provocando risate generali. «È l’idea di dare la caccia a una creatura aliena all’interno di uno zoo che mi stranisce!».
Costeggiarono la Fifth Avenue verso nord, camminando lungo il viale alberato. Svoltarono a sinistra, allontanandosi dalla strada e discendendo due brevi rampe di scale, imboccando il sentiero selciato che tagliava attraverso gli alberi portando all’entrata dello zoo di Central Park. Un’imponente struttura in mattoni rossi, su cui garrivano al vento diverse bandiere, si stagliò davanti a loro. Un’aquila di mare testabianca era raffigurata tra due cumuli di palle di cannone in cima al portone d’ingresso, sciabole incrociate e picche impilate ne adornavano i pannelli laterali. Una targa recitava “Arsenale”.
«Gli animali li tengono come attrazione o li addestrano per l’esercito?», chiese Alan grattandosi la testa.
«Paura che ti rubino il posto nei marines?», disse Lake.
«Non si sa mai… scommetto che ci sono scimmie che sparano meglio di te».
«Questo edificio era un deposito di munizioni durante la Guerra Civile», intervenne Mitsuko prima che i due potessero iniziare a litigare. «Ora ospita il Dipartimento Parchi e Ricreazione di New York».
Il selciato si divideva in due strade che percorrevano il perimetro dell’arsenale per poi curvare oltre di esso. Sulla destra, in fondo alla via, era visibile un cinema mezzo nascosto tra le fronde degli alberi. Sulla sinistra, sul lato esterno del percorso, c’era un negozio di souvenir.
«Avete idea…», iniziò Daniel, guardandosi intorno per esser sicuro che nessun visitatore fosse a portata d’orecchio. «…di come sia fatto l’alieno che cerchiamo?».
«Piccolo, scuro e peloso», disse Taìssa. «Non sappiamo altro».
«Non è molto…».
La soldatessa fece spallucce.
«Ti aspettavi una foto?».
«Non mi aspettavo niente…».
«E allora di cosa ti lamenti?», intervenne Alan. «Magari è pure carino!».
«Sappiamo bene che sei in grado di affezionarti anche a quelli più orripilanti», disse Lake. «Non importa da quale incubo siano usciti…».
Il marine ignorò la frecciatina e si diresse verso il negozio di souvenir.
«Qualunque cosa sia, da qualunque parte sia venuto, possiamo essere certi di tre cose», disse, voltandosi. «È spaventato, è affamato e… erano solo due cose».
«Non hai tutti i torti», disse Mitsuko. «Probabilmente sta cercando del cibo».
«Di cosa si nutre?», chiese Daniel.
La biologa fece spallucce.
«Bambini?».
Alan scoppiò a ridere.
«Spero sia erbivoro!».
I soldati dell’unità kaiju si scambiarono occhiate nervose.
«Meglio muoversi», disse Daniel.
Svoltarono l’angolo sul selciato di fianco al negozio di souvenir e videro, oltre un cancello aperto, l’ingresso vero e proprio dello zoo. Era un luminoso sabato pomeriggio e i genitori avevano portato i bambini per una gitarella in famiglia, accalcandosi davanti al guardiano che ne controllava i biglietti prima di farli entrare.
«Non so com’è entrato l’alieno…», disse Taìssa. «Ma a noi toccherà pagare».
Alan sbuffò e scosse la testa.
«Degli agenti di un’organizzazione segreta che devono perdere tempo a prendere i biglietti…», disse mentre svoltavano a sinistra seguendo i cartelli che indicavano la biglietteria. «Davvero, ragazzi, a volte non so cosa pensare, spero almeno non ci sia…».
Avevano davanti una dozzina di persone.
«Degli agenti di un’organizzazione segreta in coda alla biglietteria», riprese Alan. «Roy dovrebbe davvero…».
«Abbiamo capito», sbottò Lake. «Hai chiarito il punto, ora vuoi stare zitto?».
Le persone in coda prima di loro si rivelarono essere tre famiglie e in breve tempo acquistarono i biglietti d’ingresso e tornarono all’aria aperta.
«Diciannove dollari e novantacinque…», disse Alan. «Questi Roy ce li rimborsa, vero?».
«Farai meglio a goderti gli animali…».
Passarono davanti al Caffè della Gru Danzante, i cui tavolini esterni erano occupati da persone che facevano merenda con paste appena sfornate, mentre l’odore di popcorn al burro si levava dal chiosco sul sentiero. A Daniel venne l’acquolina in bocca, aveva fatto un pranzo leggero, ma non c’era tempo.
«Se è alla ricerca di cibo», disse. «Potrebbe aggirarsi nei pressi del caffè».
«Di sicuro ne ha sentito l’odore», disse Mitsuko. «Ma la zona è molto affollata, potrebbe aver deciso di cercare fonti di cibo incustodite…».
«…come le riserve di cibo per gli animali», concluse Taìssa. «Ma non possiamo certo chiedere le chiavi del magazzino a un guardiano…».
Raggiunsero l’entrata dello zoo e mostrarono i biglietti al controllore che fece un cenno con la testa, represse uno sbadiglio, e li lasciò passare. Il sentiero selciato proseguiva dritto con i bagni pubblici a sinistra e una piazza sulla destra. Una gigantesca vasca scoperta ospitava un gran numero di otarie che nuotavano in cerchio.
«Non credo si sia avvicinato alla piazza centrale», disse Daniel osservando la moltitudine di persone che, accalcate al parapetto di vetro, osservavano i mammiferi marini saltellare sulle grasse pance per accaparrarsi i posti più comodi dove riposare su una formazione rocciosa al centro della vasca.
Procedettero e si trovarono davanti a un edificio in mattoni rossi su cui l’edera si abbarbicava facendo presa tra i solchi. La porta era chiusa e sopra di essa vi era una targa che recitava “Area Tropicale”.
«Che abbia cercato riparo qui dentro?», disse Alan. «Non sono una creaturina aliena ma questo posto potrebbe sembrare un rifugio sicuro».
«Pensi che sia in grado di aprire le porte?», chiese Daniel.
«Magari è sgattaiolato seguendo un turista».
«Non sapendo con cosa abbiamo a che fare…», disse Mitsuko facendo spallucce. «Tanto vale provare».
Entrarono nel padiglione e, superata la doppia porta, vennero avvolti dall’oscurità in un clima caldo e umido. Le pareti blu scuro ospitavano, su entrambi i lati, delle teche illuminate preparate ad arte per somigliare al sottobosco di una foresta tropicale. Diverse specie di serpenti giacevano sonnolenti a terra o sui rami, il vapore acqueo si condensava sulle squame, splendendo alla luce delle lampade termiche. Sorpassarono i visitatori con le facce incollate ai vetri e raggiunsero un punto in cui il passaggio si stringeva e una serie di frange di plastica pendeva dal soffitto, filtrando una luce fredda.
Daniel avanzò seguendo gli altri, scostando le frange con una mano e ritrovandosi su un passamento in assi di legno, circondato da piante dalle foglie larghe e carnose. Non vi erano pareti oltre al parapetto in vetro. Piccoli pappagalli verdi e altri esemplari più grandi blu e gialli erano liberi di svolazzare sopra alle loro teste. In cima ad alcuni paletti infilzati nel terreno vi erano delle mangiatoie in plastica nera, come fossero piatti in bilico sulla punta dei bastoni. I pappagalli vi becchettavano facendo cadere di tanto in tanto dei semi coi rapidi movimenti del becco. Ibis, upupe e cacatua saltellavano sulle rocce di fianco al passaggio e molte altre specie che non seppe identificare volavano di ramo in ramo. Vi erano anche delle anatre a terra, intente a lavarsi in una pozza d’acqua mentre una guardiana versava del pane raffermo nei vassoi per poi dedicarsi a pulire gli escrementi dei volatili.
«Che diavolo ci fanno delle anatre nell’area tropicale?», chiese Alan.
«Le anatre hanno una distribuzione cosmopolita», disse Mitsuko.
Alan la squadrò sollevando un sopracciglio.
«Si dice così quando l’areale di una specie si estende quasi in tutto il mon…».
«Riformulo l’indignazione: ho pagato venti dollari per vedere delle anatre?».
«A quanto pare… non erano nemmeno nella brochure», disse la biologa. «Ma non dimenticare l’alieno».
«Quello non era di certo nella brochure».
«Prendilo come un fuori programma».
«Allora è stata una fortuna aver organizzato proprio oggi una gita allo zoo».
Mitsuko emise una risatina nervosa.
«Basta non farsi mordere».
Procedettero sulla passatoia, un piede dopo l’altro, guardandosi intorno. Un metro più in basso vi era del terriccio umido e, giungendo come una cascata dal piano superiore, l’acqua scorreva in un piccolo torrente che intersecava il percorso. Una vasca composta da una lastra di vetro posizionata tra le rocce conteneva una decina di piranha dal ventre rosso, placidi a dispetto della loro nomea. Alti pilastri di metallo, disposti a intervalli regolari al centro della passatoia, sorreggevano lunghi vassoi da cui la vegetazione faceva discendere foglie e viticci fin quasi a sfiorar loro i capelli.
Uno dei paletti su cui erano appese le mangiatoie era stato divelto. Il vassoio di plastica nera era riverso a terra e una miriade di semi erano sparsi al suolo. Il cadavere di un ibis rosso giaceva squartato, le ossa del torace rotte ed esposte all’aria, il corpo vuoto, sviscerato.
«Cazzo…», sussurrò Daniel. «Opera del nostro amico?».
«Non vedo animali in grado di fare una cosa del genere», disse Alan. «A meno che i piranha non abbiano imparato a camminare…».
«Questo risponde alle domande sulla dieta dell’alieno», disse Mitsuko portando una mano a coprire la bocca.
«È meglio se ci muoviamo, prima che faccia del male a qualcuno», disse Lake. «O peggio…».
Un frastuono di squittii venne da più avanti. All’interno di una gabbia in alto, una miriade di piccoli lemuri saltavano come impazziti da un ramo all’altro. Una creatura dalla lunga pelliccia scura ne afferrò uno tra le zampe artigliate e gli staccò la testa a morsi, schizzando il vetro di sangue.
«Merda…», disse Daniel.
I bambini urlarono, i genitori li allontanarono dalla gabbia.
L’alieno emise uno stridio.
Corsero avanti dove il percorso piegava su sé stesso in una spirale ascendente che li portò al piano superiore. Quando raggiunsero la gabbia dei lemuri, l’alieno sibilò rizzando il pelo tanto da somigliare a una palla nera dal cui centro colava sangue. Scagliò la preda a terra e si tuffò attraverso un’apertura nel vetro della gabbia, dirigendosi all’uscita del padiglione, sparendo nella vegetazione.
Il camminamento in legno si immergeva nella gabbia dei lemuri come un tunnel in una montagna, i piccoli mammiferi squittivano e agitavano i rami tutto intorno a loro. Il cadavere dello sfortunato giaceva nel terriccio umido. Oltrepassata la gabbia, l’ultima parte del percorso serpeggiava tra alti tronchi secchi da cui si librarono in volo una moltitudine di pipistrelli, spaventati dal baccano. Un pavone li scansò in uno svolazzare di penne brillanti. La sagoma dell’alieno svanì in lontananza attraverso una porta mente un turista urlava come un ossesso cercando di fuggire.
Raggiunsero una parete di legno e, oltrepassata la doppia porta, si ritrovarono alla luce del sole sul lato adiacente rispetto a quello da cui erano entrati, poco oltre la piazza con la vasca delle otarie. Il visitatore era a terra e si teneva una gamba con le mani, gemendo come se gliel’avessero amputata. Dell’alieno non vi era traccia.
«Cazzo!», disse Lake. «Dobbiamo catturarlo il prima possibile!».
«Dividiamoci», disse Taìssa. «Due squadre?».
«L’hai mai visto un film horror?», disse Alan.
«Non c’è tempo per le stronzate», sbottò Lake. «Mitsuko, assicurati che il turista stia bene, chiama l’unità medica se necessario. Taìssa con me, perlustriamo il giardino centrale e la zona intorno all’area tropicale. Voi due controllate…», si guardò intorno. «Oltre questo laghetto artificiale».
I due soldati della squadra kaiju scomparvero tra le siepi e Mitsuko si chinò sul visitatore, cercando di calmarlo e lasciarle vedere la ferita. Daniel si trovò a fissare l’amico d’infanzia.
«Mi sembra giusto», disse allargando le mani. «Lasciamo insieme i due con minore esperienza nel cacciare alieni…».
«Non vedeva l’ora di liberarsi di noi».
«Mi chiedo perché… pensavo aveste fatto pace dopo la centrale elettrica».
«Solo una tregua passeggera».
Daniel sospirò passandosi una mano sulla fronte.
«Dai, non disperare», disse Alan. «Troviamo quella palla di pelo!».
«Fate in fretta», disse Mitsuko alle loro spalle. «Sembra che abbia una sorta di veleno paralizzante», l’uomo che fino a un momento prima si dimenava in preda ai lamenti era disteso immobile. «Non possiamo lasciare che ferisca altre persone, non so nemmeno se la SIGMA ha un antidoto», prese il telefono. «Unità medica? Abbiamo un problema…».
«Sia maledetto il giorno in cui ho deciso di unirmi all’organizzazione», disse Daniel distogliendo l’attenzione dall’esobiologa. «Muoviamoci!».
Percorsero il selciato, sotto un porticato di colonne in mattoni rossi, allontanandosi dalla piazza principale con la vasca delle otarie in direzione di un lago artificiale circondato da un parapetto di vetro. Il porticato terminò in un arco dopo il quale la strada si faceva asfaltata, immergendosi nel panorama rustico dell’area temperata.
«Guarda nel laghetto», disse Alan indicando una zona distante una decina di metri dove l’acqua ribolliva. «Hanno creato una sorgente calda».
Una targa sul parapetto recava “Macaco giapponese”, seguito da qualche riga di descrizione.
«Le scimmie saranno contente d’inverno», disse Daniel. «Ma non perderei troppo tempo a fare il turista…».
«Dici che un bel bagno alle terme non rappresenta un’attrattiva per l’alieno?».
«Non lo escludo», Daniel fece spallucce. «Ma da quello che abbiamo visto nell’area tropicale penso sia più interessato al cibo».
«Allora eviterei di perdere tempo ai recinti dei leopardi delle nevi e dei grizzly», ridacchiò Alan. «Certo, a meno che non sia completamente pazzo…».
«Non mi sembrava in grado di ragionamenti complessi, però è improbabile che attacchi animali più grossi di lui, anche se ha un veleno paralizzante…».
Seguendo il sentiero asfaltato giunsero a un bivio, la via di fronte a loro terminava ben presto contro una parete di tronchi che delimitava l’area dello zoo mentre a destra si snodava salendo di quota.
«Diamo un occhio avanti», disse Alan. «Poi andiamo a destra».
Daniel annuì lasciando che il marine avanzasse per primo. Senza quasi accorgersene portò la mano sotto alla giacca, afferrando la pistola spara dardi e procedette come fosse un assassino, gli occhi che saettavano da un lato all’altro. Giunsero su una piattaforma rialzata sopra a una piccola pozza d’acqua.
«Attenzione», lesse Alan indicando un cartello. «I cigni mordono».
Daniel spostò lo sguardo sulla pozza d’acqua, i cigni nuotavano con pigri colpi di zampe e banchettavano coi pezzi di pane gettati loro dai visitatori. L’alieno sbucò dal nulla lanciandosi contro uno dei pennuti, azzannandolo al collo. I bambini urlarono, il cigno batté le ali cercando di scrollarselo di dosso e librarsi in volo ma la creatura gli aprì la gola con un artiglio, facendolo scorrere lungo l’esofago. La testa del volatile oscillò come un giunco al vento e cadde in acqua con un tonfo, il candido piumaggio striato di rosso.
«Allontanatevi», disse Alan estraendo la pistola. «Abbiamo tutto sotto controllo!».
Sparò, ma l’alieno balzò a terra e il dardo narcotizzante s’infilzò nel cadavere del cigno. La creatura gonfiò il pelo ed emise un acuto stridio, poi si gettò tra gli arbusti, gli artigli delle zampe che lanciavano terriccio alle sue spalle.
«Merda!», esclamò Daniel estraendo a sua volta la pistola. «Recatevi all’ingresso», disse ai visitatori che li guardavano con occhi sgranati. «Restate uniti!».
Tornarono di corsa sui loro passi e imboccarono l’altra diramazione del sentiero asfaltato che conduceva nel cuore del territorio temperato. La strada era in lieve salita, a sinistra avevano una parete di roccia e, a destra, uno steccato e un prato con arbusti dalle foglie larghe e fiori gialli che giungeva fino in riva al lago termale artificiale. Il sentiero curvava gradualmente verso sinistra e, d’un tratto, vennero sorvolati da una coppia di scoiattoli che, correndo sui rami che li sovrastavano, spiccarono un salto che li portò oltre lo steccato, dileguandosi nella vegetazione tra uno squittio e l’altro. A seguirli, nero come un incubo, l’alieno saltò emettendo il solito stridio. Nell’impeto dello slancio, il pelo si adese al corpo rivelando una forma esile e scattante che era rimasta celata sotto la voluminosa pelliccia.
Daniel raggiunse lo steccato con la pistola puntata e si sporse. I due scoiattoli, seguiti dal predatore, raggiunsero il laghetto e saltarono su una serie di massi che emergevano dall’acqua. Sparò un dardo che rimbalzò sulla pietra e si inabissò. Gli animali saltarono di sasso in sasso fino ad arrivare alla parete rocciosa di un’isoletta, sparendo tra gli arbusti che la incorniciavano.
Il sentiero si fece più ripido e una manciata di secondi dopo si trovarono al di sopra di quello che scoprirono essere il riparo dei macachi giapponesi, nascosto dietro alla parete rocciosa, nei pressi di una cascata artificiale che si riversava nel lago in corrispondenza di un punto di avvistamento preparato per i visitatori.
«Dov’è?», chiese Alan.
«Non lo vedo», disse Daniel scrutando la vegetazione dell’isolotto, troppo fitta per distinguere una creatura dalle dimensioni modeste.
D’un tratto, gli scoiattoli saltarono fuori dalla macchia, passando in mezzo al branco di macachi. L’alieno li inseguì, ringhiando, seminando il panico tra le scimmie. Uno dei macachi che stava lavando della frutta mollò il cibo per la sorpresa e prese dei sassi iniziando a lanciarli. Gli altri lo imitarono e l’alieno, inferocito, fu costretto ad abbandonare la caccia per fronteggiare il nuovo nemico.
Alan prese la mira ma una mano gli fece abbassare il braccio che teneva la pistola.
«Non adesso», disse Mitsuko.
I macachi rizzarono il pelo grigiastro e mostrarono le zanne.
«Se dovesse cadere privo di sensi in quella conca sarebbe difficile recuperarlo».
L’alieno venne colto da un sasso sul costato e fuggì su per il costone roccioso, aggrappandosi alle asperità della pietra e aiutandosi coi rami degli arbusti che si abbarbicavano tra le fenditure della parete scoscesa.
«Viene da questa parte!», squittì Daniel.
Raggiunta la sommità, la creatura sgattaiolò tra le loro gambe. Daniel sarebbe saltato sul ramo più alto di un albero se solo avesse potuto. Puntò alla rinfusa e sparò un dardo che rimbalzò sull’asfalto tra i piedi di Alan.
«Cazzo!», sbottò il marine. «Fai attenzione!».
L’alieno sibilò e continuò la corsa.
«Va verso il recinto dei leopardi delle nevi», disse Mitsuko.
Rincorsero la creatura per qualche decina di metri. Daniel faticò a mantenere il passo mentre prendeva un altro dardo e cercava di infilarlo nella canna dell’arma che sobbalzava a ogni falcata, tremandogli tra le mani. Il recinto dei leopardi delle nevi era circondato da un alto muro di cemento.
«Sta entrando nel punto di osservazione», disse mentre l’alieno si fiondava in quello che sembrava un capanno.
Vennero quasi travolti dalla fiumana di persone che fuggivano all’esterno urlando e, qualche gomitata dopo, entrarono nel punto di osservazione: un’area ottagonale con pareti in assi di legno e tetto impagliato, sorretto da una colonna portante al centro. Sui lati attigui a quello in cui era ricavato il passaggio d’ingresso vi erano raffigurazioni dell’habitat tipico dei leopardi delle nevi, mentre tre dei lati opposti, al di sopra di un parapetto in legno che arrivava alla vita, erano costituiti da spesse finestre di vetro temperato tramite le quali si poteva vedere l’interno della gabbia.
«È in trappola!», urlò Alan puntando la pistola. «Ora stai fermo, piccolo bastardo…».
L’alieno saltò, aggrappandosi con le unghie al balconcino del parapetto di legno, usandolo per darsi lo slancio. Il tonfo che provocò schiantandosi sul vetro temperato rimbombò in tutto il punto d’osservazione. Le ossa si spezzarono emettendo un sonoro crack e l’alieno rimbalzò a terra morto stecchito.
«Ah…», disse Daniel rimanendo senza parole.
«Muori così?», disse Alan abbassando l’arma. «Da idiota, spaccandoti l’osso del collo contro una parete di vetro?», avanzò di qualche passo e scosse il cadavere con la punta della scarpa per essere sicuro che fosse morto. «Che delusione…».
«Sarebbe stato meglio prenderlo vivo», disse Mitsuko estraendo un sacchetto di plastica a chiusura ermetica. «Ma non si può avere tutto».
Un leopardo delle nevi uscì da dietro un cespuglio, avvicinandosi incuriosito.
«Gli Stati Uniti ringraziano per la tua collaborazione», disse Alan facendo il saluto militare.
Il felino ricambiò lo sguardo e sbadigliò mostrando una spanna di lingua.
«Bah…», disse il marine con un gesto della mano. «Ingrato».
Mitsuko indossò dei guanti di lattice e si avvicinò al cadavere dell’alieno.
«Che schifo», disse. «Non so se mi va di prenderlo… guanti o non guanti».
Daniel si guardò in giro, uscì dal punto d’osservazione e prese due rami che fossero abbastanza dritti poi rientrò e si chinò di fianco alla biologa.
«Faccio io», disse infilando i rami sotto al corpo della creatura. «Tieni aperto il sacchetto».
Mitsuko allargò i lembi di plastica e Daniel vi fece scivolare dentro il cadavere. In quel momento, i due soldati dell’unità kaiju arrivarono con uno scalpiccio di stivali, entrando con le armi spianate.
«Cosa succede?», chiese Lake. «Abbiamo sentito del trambusto».
«Calma, cowboy», disse Alan. «L’alieno è bello che stecchito».
«Non dovrebbe essere stecchito, gli ordini erano di prenderlo vivo».
«Beh… si vede che lui ha ricevuto ordini diversi: si è spaccato l’osso del collo cercando di saltare attraverso un vetro».
«Lo dico sempre che i vetri troppo puliti sono un problema», disse Daniel.
«E tu ne sai qualcosa, vero?», ridacchiò Alan.
«È successo una volta sola!».
Lake sospirò e scrollò le spalle.
«Immagino sia meglio di niente», disse. «Almeno non scorrazza più libero a Central Park».
Mitsuko sigillò il sacco di plastica e lo mise nello zaino.
«Sarà meglio andare…», disse caricandoselo in spalla.
«Peccato, avrei voluto vedere i pinguini…», disse Alan.
«Se vuoi finire il giro, puoi rimanere», disse Taìssa. «Però poi dovresti spiegare parecchie cose alla polizia, arriveranno a breve».
«Non ci tengo… preferisco lasciare certe beghe a Roy».
Ripercorsero la strada al contrario, passando davanti al guardiano della biglietteria che li squadrò senza sapere cosa dire o fare, sentendo lo sguardo dei presenti sulle loro spalle.
«Dobbiamo capire da dove arriva», disse Mitsuko. «Se ci fosse, da qualche parte, una popolazione di creature aliene sarebbe un danno enorme per l’ecosistema».
Si incamminarono verso nord, seguendo la strada selciata che percorreva il perimetro di Central Park, passando sotto agli archi di pietra su cui sorgeva il Delacorte Clock. Le lancette segnarono le diciotto in punto e le scimmie di bronzo in cima alla struttura batterono i martelli sulla campana. Al piano di sotto, sei statue di animali che suonavano strumenti musicali iniziarono a ruotare sui binari attorno all’orologio. Fu così che un pinguino, un canguro, un orso, un elefante, un ippopotamo e una capra danzanti li accompagnarono attraverso il parco suonando una varietà di strumenti musicali sulle note di Raindrops Keep Falling on my Head.
La posizione Weaver
Daniel uscì dal bagno e indossò pantaloni neri e una camicia azzurra a tinta unita, si avvicinò alla parete e bussò sul muro: un colpo seguito da tre veloci e poi un altro ancora. Attese qualche secondo e dall’altra stanza vennero due colpi di risposta. Uscì e un momento dopo la porta di fianco si aprì e Alan si presentò con il suo consueto abbigliamento: maglietta nera e jeans.
«Colazione?», disse Daniel.
«C’è bisogno di chiederlo?».
Scesero le scale e raggiunsero la mensa dove alcuni agenti stavano già mangiando.
«Nessun commento su quanto sia strano trovare una mensa nella sede di un’agenzia segreta?», disse Daniel prendendo un piatto piano.
«Scherzi?», disse Alan imitandolo. «Adoro questa cosa della SIGMA», andò dritto verso il buffet. «E poi ha senso che abbiano camere e mensa per dare appoggio agli agenti di passaggio».
«In effetti è molto più comodo essere qui piuttosto di quella camera d’albergo che avevamo la prima volta che siamo arrivati in città».
Presero delle fette di pane tostato e tutto ciò di spalmabile che trovarono.
«Hai mai insegnato a qualcuno a sparare?», chiese Daniel prendendo posto a un tavolo.
«No, non più di un paio di consigli a delle reclute sbadate», Alan affondò il coltello nel burro salato per stenderlo su una fetta di pane. «Vuoi che ti dia qualche dritta?».
«Non mi dispiacerebbe».
«Dov’è finito quel “da bambino ti battevo sempre”», disse Alan puntandolo col coltello imburrato. «Ti stai rimangiando tutto?».
«Col cavolo!», disse Daniel aprendo una monoporzione di Nutella. «È che sono fuori allenamento… saranno passati vent’anni dall’ultima volta».
«Certo…», Alan annuì sornione addentando la fetta di pane e inforchettando una striscia di bacon allo stesso momento. «È quello senza dubbio».
«Tra i kaiju e l’alieno del parco…», continuò Daniel. «Stando alla SIGMA credo convenga scrollarmi di dosso un po’ di ruggine o rischio di rimanerci secco».
«Non potrei essere più d’accordo!», disse Alan deglutendo. «Taìssa mi ha mostrato un poligono nei piani sotterranei, dopo ti ci porto e vediamo di sistemare il tuo pacifismo e chiuderlo in una scatola».
«Non voglio diventare uno stragista…».
«Una scatola piccola piccola, di acciaio inossidabile», ghignò Alan avvicinando pollice e indice all’altezza degli occhi. «Che poi butteremo in mare per mai più ritrovarla!».
«Come vuoi…».
«Poi mi pregherai…», fece volteggiare una striscia di bacon e la riprese al volo. «Mi pregherai di accompagnarti a prendere un bazooka!».
«Ne dubito molto».
Una volta sfamati, si avviarono alle macchinette per chiudere la colazione con un caffè che li attivasse per affrontare la giornata quando, da dietro l’angolo, sentirono una voce ormai familiare.
«…la tempesta infuriava e l’acqua si aprì sotto di noi, come a volerci inghiottire», Sawyer stava facendo un gesto circolare con le mani. «Il vortice si allargò e la corrente afferrò la nave come avessimo fatto un torto a Poseidone in persona! Ah! La fregata che ci inseguiva ha pensato bene di colpirci con un impulso elettromagnetico, per disattivare i nostri sistemi e lasciare che fosse l’oceano a fare il lavoro sporco…».
Fece una pausa, sorseggiando il caffè dalla tazza, come se la sua presenza in quella stanza non rivelasse, almeno in parte, l’esito della vicenda.
«Ma non sapevano che il mio amico è un pazzo paranoico! Il Capitano Earl è di quelli che pensano che i volatili non esistano e siano dei droni del governo…».
Alan proruppe in una grassa risata.
«È vero!», disse l’omone voltandosi. «Cioè, non il complotto degli uccelli, ma dovete vedere come reagisce Earl ogni volta che un albatros osa avvicinarsi alla sua nave: tiene sempre un fucile a pallettoni a portata di mano».
«Ha un che di poetico», sussurrò Daniel all’amico mentre prendeva delle monete dalla tasca.
«Insomma, Earl è un bizzarro complottista, l’ho visto personalmente foderare il suo cappello con lamine di stagnola e vi starete chiedendo cosa c’entri tutto ciò…», continuò Sawyer facendo il giro del perimetro che si era creato attorno a lui, come un gladiatore nell’arena. «I nostri inseguitori non sapevano che un Capitano paranoico che solca il Mar dei Caraibi col berretto foderato di stagnola aveva schermato i sistemi stessi della nave con tanto piombo da rendere quasi impossibile al suo stesso equipaggio di comunicare con l’esterno».
Alan emise un sospiro e Daniel premette due volte il tasto “uno” sulla macchinetta, componendo il numero associato al caffè espresso.
«L’impulso elettromagnetico ci sorvolò come fossimo roccia», disse Sawyer ridacchiando con un ghigno obliquo. «Demmo una spinta ai motori e curvammo, sfruttando la potenza del vortice. Come una murena famelica ci fiondammo sull’ignara preda, schizzando oltre la corrente, perché c’era altro che i nostri inseguitori ignoravano…».
La macchinetta emise un ronzio nel consegnargli il bicchiere e, nel silenzio, tutti si voltarono a osservarlo. Daniel abbozzò un sorriso, sperando che bastasse a placare il cipiglio del cercatore di tesori, e gli fece segno di continuare.
«Portare artiglieria su una nave di recupero relitti non è esattamente legale… per questo Earl ha fatto dipingere il nome della nave, Oceanina, su entrambe le fiancate, facendo in modo che la “O” andasse a mascherare i bocchettoni che, costruiti con grande maestria, si allineano perfettamente al resto dello scafo, confondendosi con il contorno della lettera», continuò Sawyer passando un dito sulla circonferenza della tazza. «Immaginate la loro sorpresa quando gli abbiamo sparato addosso un siluro Stingray! Ah! Quando le acque si sono calmate c’era una sola nave rimasta a galla e compiere il recupero è stato un gioco da ragazzi!».
Daniel e Alan lasciarono il cercatore di tesori ai suoi applausi e uscirono dalla stanza, camminando nel corridoio mentre sorseggiavano il caffè. La parete di vetro permetteva di far scorrere lo sguardo sulla piazza di fronte all’edificio della SIGMA, dove gli alberi di ginkgo che ne abbellivano il perimetro stormivano al vento mattutino. Le foglie a ventaglio brillavano alla luce del sole e un sentore di vaniglia arrivava in qualche modo fin dentro l’edificio. Daniel alzò lo sguardo, cercando una finestra aperta ma si accorse solo in quel momento che il profumo non arrivava dall’esterno. Mitsuko era ferma davanti alla vetrata con gli occhi fissi sulla fontana al centro della piazza, l’espressione neutra, come rapita dal tremolare del getto d’acqua che zampillava nell’aria.
«Ciao, Mitsuko», la salutò quando furono vicini.
L’esobiologa si riscosse dai suoi pensieri e un lieve sorriso le apparve sulle labbra.
«Ciao ragazzi, già fatto colazione?», disse, voltandosi.
«Mangiato, preso il caffè e ascoltato il racconto di Sawyer».
«Quindi il rituale mattutino è concluso, si può dire. Com’era la storia?».
«Avvincente», disse Alan. «Come al solito».
«Sarebbe pronto a buttarsi in pasto ai cannibali pur di seguirlo nelle sue avventure», disse Daniel dando una pacca sulle spalle all’amico.
«Il caffè…», disse Alan cercando di tenere il bicchiere in equilibrio senza rovesciare la bevanda.
«Al ritmo con cui vi trovate in situazioni di pericolo», disse Mitsuko. «Non tarderete nell’avere storie da raccontare a vostra volta».
«Non vedo l’ora!», disse il marine.
Daniel trattenne il respiro e inarcò le sopracciglia.
«Preferisco le storie in cui gli alieni si mettono fuori combattimento da soli».
«Maledetto mostriciattolo… ci ha sottratto tutta la gloria!».
«Scommetto che era proprio questo il suo pensiero: “mi suiciderò contro il vetro pur di non darti la soddisfazione di vantartene con gli amici!”», disse Mitsuko facendo una vocina rauca.
Daniel sghignazzò.
«Sembra di sentire lui…», disse Alan rivolgendole uno sguardo di sottecchi.
«Non ha mai parlato», disse Daniel corrucciandosi. «Non ha mai parlato, lo sai vero?», guardò Mitsuko. «O sono pazzo io?».
Lo sguardo assassino del marine cambiò bersaglio.
«È come se l’avesse fatto, Mitsuko ha ragione!», disse. «Sapeva che avrei raccontato la storia alle macchinette del caffè e ha preferito sacrificarsi pur di tarparmi le ali!».
«Non credo sia saggio mettersi in competizione con Sawyer», disse l’esobiologa.
«Perché?», chiese Alan. «L’ultimo che ci ha provato è stato trovato a concimare i ginkgo qui fuori?».
«No… per la follia intrinseca delle cose che devi fare per poter rivaleggiare con le pazzie che fa lui, che possono portarti a morti molto più brutte dello sfamare dei favolosi alberi di ginkgo».
«Tipo sfamare dei cannibali», disse Daniel.
Mitsuko annuì.
«E perché non c’è possibilità di vittoria!», disse il cercatore di tesori attraversando il corridoio come se gli appartenesse. «Lake mi ha raccontato del tuo alieno suicida… un finale mediocre!».
Se i cervelli avessero potuto fumare, su quello di Alan avrebbero potuto affumicarci un salmone.
«Ti ha anche detto che lui stava facendo un picnic nel frattempo?».
«Poco importa, ragazzo», disse Sawyer. «Ma non demordere, credo tu abbia una certa stoffa», gli diede una pacca sulla schiena che fece ondeggiare il caffè e se ne andò com’era venuto.
Alan fece un mezzo sorriso osservando le spalle del cercatore di tesori allontanarsi.
«Parlando di cose serie», disse Daniel. «Ci sono novità sull’alieno?».
«Non molte», Mitsuko scosse la testa. «Stiamo conducendo dei test ma la biologia aliena è ancora un grosso mistero, se contate che la maggior parte delle creature che abbiamo potuto esaminare finora provenivano da una moltitudine di sistemi diversi…».
Daniel e Alan continuarono a fissarla.
«Questo vuol dire differenti origini della vita sui rispettivi mondi. Una biologia completamente diversa, a parte alcuni sistemi fondamentali che pare non abbiano molti modi per essere concepiti e risultare in forme di vita complesse: una struttura modulare di acidi nucleici che porti l’informazione, come il DNA, un sistema proteico che ne gestisca la struttura e la trascrizione, un’impalcatura che sostenga le cellule e organelli che svolgano le più disparate funzioni… oltre a questo, le strutture e le interazioni chimico-fisiche variano enormemente».
«Questo in particolare, però, sembrava cavarsela bene nel nostro ambiente», disse Alan. «Era svelto come un furetto!».
«Sì», convenne Mitsuko. «A livello macroscopico la sua muscolatura somiglia molto a quella di un piccolo mammifero e la sua biologia era, come la nostra, atta a sfruttare l’ossigeno per produrre energia. Dai test preliminari sembra fosse adattato a un’atmosfera più azotata e povera d’ossigeno rispetto alla nostra».
«Questo può spiegare la frenesia di cui era preda?», chiese Daniel. «Era… sovraccarico?».
«Può essere, ti è mai capitato di respirare da una bombola d’ossigeno?».
Daniel scosse la testa.
«È un po’ come andare in iperventilazione», disse lei. «La testa ti si fa leggera, ti senti come sospeso nell’aria. Questa sensazione mista alla fame e alla paura del trovarsi in un ambiente sconosciuto possono averlo reso iperattivo».
«Credi che trovarsi su un pianeta con un’atmosfera più ricca d’ossigeno l’abbia reso più… performante?».
«È presto per dirlo», Mitsuko fece spallucce. «L’ossigeno è un reagente molto aggressivo, una concentrazione superiore all’ambiente che ha guidato l’evoluzione di quella creatura potrebbe rivelarsi dannosa sul lungo periodo, addirittura tossica. Ma sì, c’è la possibilità che lo rendesse semplicemente più energetico, il che sarebbe l’eventualità peggiore, ecologicamente parlando… anche solo poche decine di esemplari potrebbero perturbare l’ecosistema, destabilizzandolo, fino a farlo collassare. È difficile prevedere le conseguenze. Succede con specie trasportate da un continente all’altro, figurarsi con specie aliene…».
«Le specie invasive non vengono già definite aliene?», chiese Alan.
Mitsuko contrasse le labbra per un momento.
«Quindi queste sono… aliene aliene!», continuò il marine.
«Esatto», disse Mitsuko che sembrò più inquietata che divertita dalla battuta. «Un problema al quadrato!».
«Sarebbero addirittura in grado di distruggere l’ecosistema?», chiese Daniel. «Non dovrebbe stabilizzarsi dopo l’introduzione di una specie… aliena aliena?».
«Gli ecosistemi sono resilienti, sì, ma non sono a prova di bomba», disse Mitsuko. «Guarda quanti problemi sta causando il granchio blu in tutto il mondo… ed è bastato trasportarne qualche esemplare dall’oceano Atlantico al Mare del Nord e al Mediterraneo».
«E sei preoccupata che questi alieni sovraccarichi di ossigeno sottraggano le prede agli animali autoctoni?».
«Non è solo una questione di competizione», disse Mitsuko. «Le specie invasive hanno impatto sull’intero ambiente e rappresentano una delle maggiori minacce per la biodiversità. Lo scoiattolo grigio, per esempio, nativo del Nord America, sta causando molti problemi in Italia. Compete con lo scoiattolo rosso, la specie autoctona europea. È più grosso, più abile a procurarsi il cibo ed è immune alla sifilide degli scoiattoli. Lo scoiattolo rosso è destinato all’estinzione, ma non è tutto: lo scoiattolo grigio ha impatto sulle foreste perché scortecciando gli alberi li indebolisce e li rende più vulnerabili a insetti e funghi. La nutria, originaria del Sud America, si è diffusa in mezzo mondo. Nelle zone densamente popolate può portare a una drastica riduzione delle piante acquatiche. Inoltre, la sua attività di scavo delle tane indebolisce gli argini dei corsi d’acqua aumentando il rischio di esondazioni. Per non parlare di malattie e parassiti!».
«Ma non dovrebbero poter infettare organismi appartenenti a mondi diversi», disse Alan. «Sono… troppo diversi, no?».
«Potrebbero fare un salto di specie, per quanto improbabile non è impossibile, ne abbiamo avuto un assaggio con il Covid», Mitsuko sospirò. «Anche se queste creature non dovessero rivelarsi una competizione soverchiante per le risorse, anche se non fossero predatori temibili, anche se non dovessero mettere in atto comportamenti che distruggono gli habitat, basterebbe un’epidemia per decimare gli altri animali».
«Il che avrebbe un effetto a cascata sulla catena alimentare», disse Daniel.
«Esatto, i danni sarebbero incalcolabili. In termini economici e sociali oltre che ambientali», continuò l’esobiologa. «Causerebbero danni alle coltivazioni, agli allevamenti… e non conoscendo le creature con cui abbiamo a che fare sarebbe ancora più difficile del solito porvi rimedio».
Daniel si grattò la testa, iniziava a capire l’ansia di cui era preda l’esobiologa.
«Scusate, non volevo rovinarvi l’umore già di primo mattino», disse Mitsuko tornando a volgere la sua attenzione ai Ginkgo che agitavano le fronde nel vento. «È che questa situazione mi stressa, chissà quante specie aliene arrivano sulla terra ogni anno…».
Daniel le pose una mano sulla spalla.
«Per affrontare un problema immane, spesso è utile scomporlo in parti più piccole», disse. «Occupiamoci di un’invasione aliena per volta».
«Hai ragione», disse lei sorridendogli. «Possiamo solo fare del nostro meglio per contenere questa situazione».
«Per quanto riguarda il resto», Daniel prese un sorso. «Ci penseremo a tempo debito».
Mitsuko sospirò ancora, questa volta piano, come ritrovando l’equilibrio. Rimasero in silenzio a guardare il getto della fontana fuori dalla finestra finché non ebbero finito il caffè.
«Poligono?», disse infine Alan.
Mitsuko lo guardò sollevando un sopracciglio.
«Parlavo con Billie the Kid qui, ha deciso che preferisce sopravvivere alle prossime avventure».
«Mi sembra una decisione saggia», disse lei annuendo.
Tornarono alle loro camere dove presero le pistole. Daniel soppesò tra le mani la Beretta M9 che Alan gli aveva regalato qualche tempo addietro, appena prima di scoprire l’esistenza della SIGMA. Erano tempi più semplici quelli, ormai l’idea di pedinare qualcuno gli sembrava quasi normale rispetto al dare la caccia agli alieni.
Raggiunsero l’ascensore, Alan premette uno dei pulsanti dei piani sotterranei e, pian piano, discesero. Daniel seguì l’amico attraverso i corridoi fino a giungere in una piccola anticamera con due porte, una delle quali era aperta e conduceva in una stanza attigua dalla quale risuonava un sommesso borbottare. Un omone era seduto su una sedia girevole, curvo nel suo compito. Oltre alle sue spalle spuntava la canna di un fucile e la mano andava su e giù, lucidandola con un panno.
«Ehi Bill», disse Alan agitando un braccio per farsi notare.
L’omone si voltò, rivelando un viso grassoccio con una stempiatura che arrivava a metà calotta cranica e una barba rossiccia che cresceva a chiazze sul mento e sulle guance.
«Ho portato un amico a esplodere qualche colpo, prendo due di tutto».
Bill emise un grugnito e tornò alle sue faccende.
Alan aprì la seconda porta, dietro la quale vi era una stanza con decine di pistole e fucili disposti su una rastrelliera lunga quanto la parete mentre, dall’altro lato, poggiati su un tavolo, vi erano cuffie e occhiali protettivi.
«Curioso lo stile…», disse Daniel agitando la mano davanti al mento.
«Gli è esploso in faccia un fucile, per questo la barba gli cresce un po’ qua e un po’ là», disse Alan andando alla rastrelliera.
Daniel lo guardò con gli occhi sgranati afferrando cuffie insonorizzanti e occhiali protettivi con lenti in policarbonato.
«È uno che sperimenta… nuovi tipi di armi, munizioni esplosive e beh… alcune munizioni si sono rivelate troppo esplosive», Alan fece spallucce. «O perlomeno questo è quanto mi ha detto Taìssa».
Daniel scosse la testa.
«Vista la gente che popola le file della SIGMA mi sembra una storia credibile».
Oltrepassarono la doppia porta dall’altra parte della stanza ed entrarono nella cabina di controllo, una specie di anticamera di passaggio, che aveva sulla sinistra delle porte che conducevano a un ufficio, un magazzino e ai servizi igienici e sulla destra due che conducevano all’area di tiro. Decine di postazioni, divise da separé, erano allineate ad altrettante corsie di tiro. Una serie di bersagli di carta, sagomati a forma di persone, era disposta sul lato opposto della stanza a circa venticinque metri dalle postazioni. Saltuari spari denotavano la presenza di altri agenti, anche se non erano visibili dietro i separé, e un sentore di polvere da sparo gli pizzicò la lingua.
Daniel estrasse la Beretta e la soppesò, carezzandone le asperità metalliche con il pollice, lasciando che il freddo penetrasse attraverso il polpastrello. Decise che non aveva senso allontanarsi dalla porta: che avesse ritrovato lo smalto di un tempo, o fatto schifo, non sarebbe dipeso dalla corsia di tiro. Entrò nella postazione libera più vicina.
«Ricordi la posizione?», chiese Alan.
«Una rinfrescata non mi farebbe male», disse Daniel stringendo la pistola con la mano destra e avvolgendo la sinistra attorno all’impugnatura, incrociando i pollici uno sull’altro.
«L’impugnatura è buona, lode alla memoria muscolare. Per quanto riguarda la posizione: girati leggermente di taglio rispetto al bersaglio, i piedi dovrebbero poggiare più o meno alla stessa distanza delle spalle».
Daniel portò indietro la spalla destra e allargò le gambe.
«Il braccio destro teso e quello sinistro un po’ piegato», continuò Alan girandogli intorno e spingendogli il gomito. «Così, verso il basso, non portarlo all’esterno. Ora il tocco finale, un piccolo trucco per tenere la pistola più stabile: spingi piano in avanti con la mano destra e allo stesso tempo tira verso di te con la sinistra. In questo modo si genera una tensione che ti aiuta a tenere l’arma salda e in posizione».
«Questa mi è nuova», disse Daniel. «Un trucco dei marines?».
«No… questa è la posizione Weaver, un classico! Jack Weaver era uno sceriffo negli anni Cinquanta, questa posizione gli ha permesso di vincere una gran quantità di competizio…».
BOOM
Il bersaglio non ondeggiò neppure.
«Beh…», disse Alan dandogli una pacca sulla spalla. «Nemmeno Weaver fece centro al primo colpo, credo…».
Daniel prese un respiro profondo e cercò di sgombrare la mente. Concentrò l’attenzione sul bersaglio, allineando il mirino col centro.
Premette il grilletto.
Il colpo risuonò nella sala e la sagoma si sollevò all’indietro. Quando tornò a distendersi, rivelò un buco a un paio di centimetri dal margine esterno della sagoma.
«Beh è comunque un miglioramento», mormorò tra sé e sé.
«Trattieni il respiro prima di sparare», disse Alan.
«Come in Call of Duty».
«Esatto, ti aiuterà a stabilizzare il tiro».
Daniel tornò in posizione e questa volta trattenne il respiro prima di sparare. L’immobilità dei polmoni gli permise di evitare il costante ondeggiare che l’atto di respirare imponeva al corpo, come onde che si infrangevano sul bagnasciuga.
La sagoma volteggiò come impazzita, il colpo era più centrato ma ancora fuori dal tabellone.
«Beh… ho detto che aiuta», disse Alan. «Non che fa miracoli».
Daniel rise suo malgrado.
«Ehi ragazzi», risuonò una voce cristallina alle loro spalle.
Daniel si voltò e vide Taìssa che tornava da una postazione di tiro più in fondo, Lake era al suo fianco, lo sguardo gli si fece torvo non appena scorse Alan.
«Sono felice di vedere che ti eserciti, Daniel», disse il soldato. «Almeno la prossima volta ci sarà qualcuno in grado di colpire un alieno in fuga».
«Sei fortunato di pesare troppo per appenderti al gancio dei bersagli», disse il marine. «Altrimenti userei te per fare pratica».
«Come sta andando?», chiese Taìssa senza badare ai due litiganti.
Daniel guardò la sagoma, era bucherellata dappertutto tranne che sul bersaglio.
«Sono decisamente più bravo a risolvere i conflitti a parole».
«Non ne dubito», disse Lake, beccandosi un’occhiataccia da Taìssa. «Non intendevo in quel senso, per una volta che dico qualcosa senza sarcasmo… ha una laurea in psicologia e colpire un bersaglio a venticinque metri con una pistola non è affatto semplice per un principiante».
«Ah tranquillo», disse Daniel scrollando le braccia per sciogliere i muscoli. «Sarcasmo o no: è la verità».
«La tensione alle braccia è normale all’inizio», disse Taìssa. «Migliorerà quando riuscirai a tenere la posizione senza irrigidirti, è una questione di abitudine».
«Oppure fatti mozzare una mano e sostituiscila con un arto meccanico e l’intorpidimento non sarà mai più un problema», disse Lake mostrando il prodigio tecnologico che aveva al posto del braccio sinistro. «Ne avrai molti altri in compenso… ma ehi, non si può avere tutto…».
Daniel emise un suono come di una risata strozzata e la faccia gli si accartocciò in un misto di emozioni. Osservò ancora una volta il braccio di Lake e la gamba di Taìssa, era incredibile che avessero ancora l’ardore di tornare sul campo. Non poteva fare altro che ammirare la loro determinazione.
I telefoni di tutti e quattro vibrarono all’unisono.
Daniel lo estrasse dalla tasca.
«Un messaggio di Mitsuko», disse, leggendolo. «Roy vuole parlarci nel suo ufficio».
Riposero l’attrezzatura e si avviarono alle scale, salirono fino a raggiungere l’ufficio e trovarono la porta aperta. L’esobiologa fece loro segno di entrare.
«Chiudete la porta, grazie», disse Roy.
Avevano lo sguardo incollato al monitor e dai suoni e il luccicare della luce riflessa negli occhi probabilmente stavano guardando un video. Daniel entrò per ultimo e chiuse la porta dietro di sé. Fece per andare a sedersi sulle poltrone ma Roy lo anticipò.
«Venite a vedere», disse facendo un gesto come a invitarli dall’altra parte della scrivania, il browser era aperto su YouTube. «È di ieri».
Una coppia camminava nell’erba e, d’un tratto, i cespugli di fianco al sentiero vennero scossi da qualcosa, L’inquadratura vorticò e si sentirono delle grida. Una creatura scura, troppo sfocata per distinguerla, passò loro tra le gambe. Il video titolava “Attaccati da un alieno!”, era stato postato da un canale con meno di cento iscritti ma aveva già diverse migliaia di visualizzazioni.
«Sarà gente che cerca lo Yeti», disse Alan. «Avranno buttato una parrucca nelle frasche trascinandola con un filo…».
«Abbiamo pensato a qualcosa di simile anche noi, ma non è l’unico», disse Mitsuko. «Negli ultimi tre giorni hanno iniziato a circolare decine di video simili, tutti provenienti dal Colorado, nelle zone urbane limitrofe al Parco Nazionale delle Montagne Rocciose o nel parco stesso, filmati da abitanti del luogo e turisti».
«Quindi sono troppe e troppo localizzate per essere false», disse Daniel passandosi una mano sul volto.
«E allo stesso tempo vengono da troppi luoghi diversi per essere imputati a qualche evento fuorviante che abbia causato un’isteria di massa».
«Volete dire che il Parco Nazionale delle Montagne Rocciose pullula di creature aliene?».
«Da qualche giorno a questa parte, sì…», disse Roy. «O perlomeno, ci sono abbastanza segnalazioni da spingermi a pensare che sia meglio andare a controllare di persona».
«Potrebbe essere arrivato da lì l’alieno che abbiamo trovato allo zoo di Central Park?», chiese Alan.
«Da così lontano?».
«Magari trasportato involontariamente», il marine fece spallucce. «Nel retro di un furgone o qualcosa del genere, capita…».
«Tra tutti i posti, proprio un parco naturale…», sospirò Mitsuko. «Dobbiamo trovare un modo per contenerli!».
«Se l’alieno di Central Park arriva dal Colorado…», disse Daniel. «Ormai potrebbero esserci esemplari sparsi per tutti gli Stati Uniti».
«Non saltiamo a conclusioni affrettate», disse Roy. «Non sappiamo da dove venisse quell’alieno, potrebbe essere arrivato a New York in mille modi diversi. Però una cosa è sicura: dobbiamo radunare una squadra e partire per il Colorado».
«Ma dove esattamente?», chiese Alan. «Il Parco Nazionale delle Montagne Rocciose è immenso».
Roy passò da una scheda all’altra di YouTube e si soffermò su un video che mostrava delle creature dalla pelle squamata che imperversavano seminando il panico.
«La maggior parte delle segnalazioni arriva da una cittadina proprio al confine col parco, quasi un passaggio obbligato per buona parte dei turisti, direi di iniziare da lì».
Daniel osservò la mappa, sul versante occidentale delle Montagne Rocciose sorgeva una coppia di laghi e, sulle sponde del più piccolo dei due sorgeva una città che portava il medesimo nome dello specchio d’acqua: Grand Lake.
«Colazione?», disse Daniel.
«C’è bisogno di chiederlo?».
Scesero le scale e raggiunsero la mensa dove alcuni agenti stavano già mangiando.
«Nessun commento su quanto sia strano trovare una mensa nella sede di un’agenzia segreta?», disse Daniel prendendo un piatto piano.
«Scherzi?», disse Alan imitandolo. «Adoro questa cosa della SIGMA», andò dritto verso il buffet. «E poi ha senso che abbiano camere e mensa per dare appoggio agli agenti di passaggio».
«In effetti è molto più comodo essere qui piuttosto di quella camera d’albergo che avevamo la prima volta che siamo arrivati in città».
Presero delle fette di pane tostato e tutto ciò di spalmabile che trovarono.
«Hai mai insegnato a qualcuno a sparare?», chiese Daniel prendendo posto a un tavolo.
«No, non più di un paio di consigli a delle reclute sbadate», Alan affondò il coltello nel burro salato per stenderlo su una fetta di pane. «Vuoi che ti dia qualche dritta?».
«Non mi dispiacerebbe».
«Dov’è finito quel “da bambino ti battevo sempre”», disse Alan puntandolo col coltello imburrato. «Ti stai rimangiando tutto?».
«Col cavolo!», disse Daniel aprendo una monoporzione di Nutella. «È che sono fuori allenamento… saranno passati vent’anni dall’ultima volta».
«Certo…», Alan annuì sornione addentando la fetta di pane e inforchettando una striscia di bacon allo stesso momento. «È quello senza dubbio».
«Tra i kaiju e l’alieno del parco…», continuò Daniel. «Stando alla SIGMA credo convenga scrollarmi di dosso un po’ di ruggine o rischio di rimanerci secco».
«Non potrei essere più d’accordo!», disse Alan deglutendo. «Taìssa mi ha mostrato un poligono nei piani sotterranei, dopo ti ci porto e vediamo di sistemare il tuo pacifismo e chiuderlo in una scatola».
«Non voglio diventare uno stragista…».
«Una scatola piccola piccola, di acciaio inossidabile», ghignò Alan avvicinando pollice e indice all’altezza degli occhi. «Che poi butteremo in mare per mai più ritrovarla!».
«Come vuoi…».
«Poi mi pregherai…», fece volteggiare una striscia di bacon e la riprese al volo. «Mi pregherai di accompagnarti a prendere un bazooka!».
«Ne dubito molto».
Una volta sfamati, si avviarono alle macchinette per chiudere la colazione con un caffè che li attivasse per affrontare la giornata quando, da dietro l’angolo, sentirono una voce ormai familiare.
«…la tempesta infuriava e l’acqua si aprì sotto di noi, come a volerci inghiottire», Sawyer stava facendo un gesto circolare con le mani. «Il vortice si allargò e la corrente afferrò la nave come avessimo fatto un torto a Poseidone in persona! Ah! La fregata che ci inseguiva ha pensato bene di colpirci con un impulso elettromagnetico, per disattivare i nostri sistemi e lasciare che fosse l’oceano a fare il lavoro sporco…».
Fece una pausa, sorseggiando il caffè dalla tazza, come se la sua presenza in quella stanza non rivelasse, almeno in parte, l’esito della vicenda.
«Ma non sapevano che il mio amico è un pazzo paranoico! Il Capitano Earl è di quelli che pensano che i volatili non esistano e siano dei droni del governo…».
Alan proruppe in una grassa risata.
«È vero!», disse l’omone voltandosi. «Cioè, non il complotto degli uccelli, ma dovete vedere come reagisce Earl ogni volta che un albatros osa avvicinarsi alla sua nave: tiene sempre un fucile a pallettoni a portata di mano».
«Ha un che di poetico», sussurrò Daniel all’amico mentre prendeva delle monete dalla tasca.
«Insomma, Earl è un bizzarro complottista, l’ho visto personalmente foderare il suo cappello con lamine di stagnola e vi starete chiedendo cosa c’entri tutto ciò…», continuò Sawyer facendo il giro del perimetro che si era creato attorno a lui, come un gladiatore nell’arena. «I nostri inseguitori non sapevano che un Capitano paranoico che solca il Mar dei Caraibi col berretto foderato di stagnola aveva schermato i sistemi stessi della nave con tanto piombo da rendere quasi impossibile al suo stesso equipaggio di comunicare con l’esterno».
Alan emise un sospiro e Daniel premette due volte il tasto “uno” sulla macchinetta, componendo il numero associato al caffè espresso.
«L’impulso elettromagnetico ci sorvolò come fossimo roccia», disse Sawyer ridacchiando con un ghigno obliquo. «Demmo una spinta ai motori e curvammo, sfruttando la potenza del vortice. Come una murena famelica ci fiondammo sull’ignara preda, schizzando oltre la corrente, perché c’era altro che i nostri inseguitori ignoravano…».
La macchinetta emise un ronzio nel consegnargli il bicchiere e, nel silenzio, tutti si voltarono a osservarlo. Daniel abbozzò un sorriso, sperando che bastasse a placare il cipiglio del cercatore di tesori, e gli fece segno di continuare.
«Portare artiglieria su una nave di recupero relitti non è esattamente legale… per questo Earl ha fatto dipingere il nome della nave, Oceanina, su entrambe le fiancate, facendo in modo che la “O” andasse a mascherare i bocchettoni che, costruiti con grande maestria, si allineano perfettamente al resto dello scafo, confondendosi con il contorno della lettera», continuò Sawyer passando un dito sulla circonferenza della tazza. «Immaginate la loro sorpresa quando gli abbiamo sparato addosso un siluro Stingray! Ah! Quando le acque si sono calmate c’era una sola nave rimasta a galla e compiere il recupero è stato un gioco da ragazzi!».
Daniel e Alan lasciarono il cercatore di tesori ai suoi applausi e uscirono dalla stanza, camminando nel corridoio mentre sorseggiavano il caffè. La parete di vetro permetteva di far scorrere lo sguardo sulla piazza di fronte all’edificio della SIGMA, dove gli alberi di ginkgo che ne abbellivano il perimetro stormivano al vento mattutino. Le foglie a ventaglio brillavano alla luce del sole e un sentore di vaniglia arrivava in qualche modo fin dentro l’edificio. Daniel alzò lo sguardo, cercando una finestra aperta ma si accorse solo in quel momento che il profumo non arrivava dall’esterno. Mitsuko era ferma davanti alla vetrata con gli occhi fissi sulla fontana al centro della piazza, l’espressione neutra, come rapita dal tremolare del getto d’acqua che zampillava nell’aria.
«Ciao, Mitsuko», la salutò quando furono vicini.
L’esobiologa si riscosse dai suoi pensieri e un lieve sorriso le apparve sulle labbra.
«Ciao ragazzi, già fatto colazione?», disse, voltandosi.
«Mangiato, preso il caffè e ascoltato il racconto di Sawyer».
«Quindi il rituale mattutino è concluso, si può dire. Com’era la storia?».
«Avvincente», disse Alan. «Come al solito».
«Sarebbe pronto a buttarsi in pasto ai cannibali pur di seguirlo nelle sue avventure», disse Daniel dando una pacca sulle spalle all’amico.
«Il caffè…», disse Alan cercando di tenere il bicchiere in equilibrio senza rovesciare la bevanda.
«Al ritmo con cui vi trovate in situazioni di pericolo», disse Mitsuko. «Non tarderete nell’avere storie da raccontare a vostra volta».
«Non vedo l’ora!», disse il marine.
Daniel trattenne il respiro e inarcò le sopracciglia.
«Preferisco le storie in cui gli alieni si mettono fuori combattimento da soli».
«Maledetto mostriciattolo… ci ha sottratto tutta la gloria!».
«Scommetto che era proprio questo il suo pensiero: “mi suiciderò contro il vetro pur di non darti la soddisfazione di vantartene con gli amici!”», disse Mitsuko facendo una vocina rauca.
Daniel sghignazzò.
«Sembra di sentire lui…», disse Alan rivolgendole uno sguardo di sottecchi.
«Non ha mai parlato», disse Daniel corrucciandosi. «Non ha mai parlato, lo sai vero?», guardò Mitsuko. «O sono pazzo io?».
Lo sguardo assassino del marine cambiò bersaglio.
«È come se l’avesse fatto, Mitsuko ha ragione!», disse. «Sapeva che avrei raccontato la storia alle macchinette del caffè e ha preferito sacrificarsi pur di tarparmi le ali!».
«Non credo sia saggio mettersi in competizione con Sawyer», disse l’esobiologa.
«Perché?», chiese Alan. «L’ultimo che ci ha provato è stato trovato a concimare i ginkgo qui fuori?».
«No… per la follia intrinseca delle cose che devi fare per poter rivaleggiare con le pazzie che fa lui, che possono portarti a morti molto più brutte dello sfamare dei favolosi alberi di ginkgo».
«Tipo sfamare dei cannibali», disse Daniel.
Mitsuko annuì.
«E perché non c’è possibilità di vittoria!», disse il cercatore di tesori attraversando il corridoio come se gli appartenesse. «Lake mi ha raccontato del tuo alieno suicida… un finale mediocre!».
Se i cervelli avessero potuto fumare, su quello di Alan avrebbero potuto affumicarci un salmone.
«Ti ha anche detto che lui stava facendo un picnic nel frattempo?».
«Poco importa, ragazzo», disse Sawyer. «Ma non demordere, credo tu abbia una certa stoffa», gli diede una pacca sulla schiena che fece ondeggiare il caffè e se ne andò com’era venuto.
Alan fece un mezzo sorriso osservando le spalle del cercatore di tesori allontanarsi.
«Parlando di cose serie», disse Daniel. «Ci sono novità sull’alieno?».
«Non molte», Mitsuko scosse la testa. «Stiamo conducendo dei test ma la biologia aliena è ancora un grosso mistero, se contate che la maggior parte delle creature che abbiamo potuto esaminare finora provenivano da una moltitudine di sistemi diversi…».
Daniel e Alan continuarono a fissarla.
«Questo vuol dire differenti origini della vita sui rispettivi mondi. Una biologia completamente diversa, a parte alcuni sistemi fondamentali che pare non abbiano molti modi per essere concepiti e risultare in forme di vita complesse: una struttura modulare di acidi nucleici che porti l’informazione, come il DNA, un sistema proteico che ne gestisca la struttura e la trascrizione, un’impalcatura che sostenga le cellule e organelli che svolgano le più disparate funzioni… oltre a questo, le strutture e le interazioni chimico-fisiche variano enormemente».
«Questo in particolare, però, sembrava cavarsela bene nel nostro ambiente», disse Alan. «Era svelto come un furetto!».
«Sì», convenne Mitsuko. «A livello macroscopico la sua muscolatura somiglia molto a quella di un piccolo mammifero e la sua biologia era, come la nostra, atta a sfruttare l’ossigeno per produrre energia. Dai test preliminari sembra fosse adattato a un’atmosfera più azotata e povera d’ossigeno rispetto alla nostra».
«Questo può spiegare la frenesia di cui era preda?», chiese Daniel. «Era… sovraccarico?».
«Può essere, ti è mai capitato di respirare da una bombola d’ossigeno?».
Daniel scosse la testa.
«È un po’ come andare in iperventilazione», disse lei. «La testa ti si fa leggera, ti senti come sospeso nell’aria. Questa sensazione mista alla fame e alla paura del trovarsi in un ambiente sconosciuto possono averlo reso iperattivo».
«Credi che trovarsi su un pianeta con un’atmosfera più ricca d’ossigeno l’abbia reso più… performante?».
«È presto per dirlo», Mitsuko fece spallucce. «L’ossigeno è un reagente molto aggressivo, una concentrazione superiore all’ambiente che ha guidato l’evoluzione di quella creatura potrebbe rivelarsi dannosa sul lungo periodo, addirittura tossica. Ma sì, c’è la possibilità che lo rendesse semplicemente più energetico, il che sarebbe l’eventualità peggiore, ecologicamente parlando… anche solo poche decine di esemplari potrebbero perturbare l’ecosistema, destabilizzandolo, fino a farlo collassare. È difficile prevedere le conseguenze. Succede con specie trasportate da un continente all’altro, figurarsi con specie aliene…».
«Le specie invasive non vengono già definite aliene?», chiese Alan.
Mitsuko contrasse le labbra per un momento.
«Quindi queste sono… aliene aliene!», continuò il marine.
«Esatto», disse Mitsuko che sembrò più inquietata che divertita dalla battuta. «Un problema al quadrato!».
«Sarebbero addirittura in grado di distruggere l’ecosistema?», chiese Daniel. «Non dovrebbe stabilizzarsi dopo l’introduzione di una specie… aliena aliena?».
«Gli ecosistemi sono resilienti, sì, ma non sono a prova di bomba», disse Mitsuko. «Guarda quanti problemi sta causando il granchio blu in tutto il mondo… ed è bastato trasportarne qualche esemplare dall’oceano Atlantico al Mare del Nord e al Mediterraneo».
«E sei preoccupata che questi alieni sovraccarichi di ossigeno sottraggano le prede agli animali autoctoni?».
«Non è solo una questione di competizione», disse Mitsuko. «Le specie invasive hanno impatto sull’intero ambiente e rappresentano una delle maggiori minacce per la biodiversità. Lo scoiattolo grigio, per esempio, nativo del Nord America, sta causando molti problemi in Italia. Compete con lo scoiattolo rosso, la specie autoctona europea. È più grosso, più abile a procurarsi il cibo ed è immune alla sifilide degli scoiattoli. Lo scoiattolo rosso è destinato all’estinzione, ma non è tutto: lo scoiattolo grigio ha impatto sulle foreste perché scortecciando gli alberi li indebolisce e li rende più vulnerabili a insetti e funghi. La nutria, originaria del Sud America, si è diffusa in mezzo mondo. Nelle zone densamente popolate può portare a una drastica riduzione delle piante acquatiche. Inoltre, la sua attività di scavo delle tane indebolisce gli argini dei corsi d’acqua aumentando il rischio di esondazioni. Per non parlare di malattie e parassiti!».
«Ma non dovrebbero poter infettare organismi appartenenti a mondi diversi», disse Alan. «Sono… troppo diversi, no?».
«Potrebbero fare un salto di specie, per quanto improbabile non è impossibile, ne abbiamo avuto un assaggio con il Covid», Mitsuko sospirò. «Anche se queste creature non dovessero rivelarsi una competizione soverchiante per le risorse, anche se non fossero predatori temibili, anche se non dovessero mettere in atto comportamenti che distruggono gli habitat, basterebbe un’epidemia per decimare gli altri animali».
«Il che avrebbe un effetto a cascata sulla catena alimentare», disse Daniel.
«Esatto, i danni sarebbero incalcolabili. In termini economici e sociali oltre che ambientali», continuò l’esobiologa. «Causerebbero danni alle coltivazioni, agli allevamenti… e non conoscendo le creature con cui abbiamo a che fare sarebbe ancora più difficile del solito porvi rimedio».
Daniel si grattò la testa, iniziava a capire l’ansia di cui era preda l’esobiologa.
«Scusate, non volevo rovinarvi l’umore già di primo mattino», disse Mitsuko tornando a volgere la sua attenzione ai Ginkgo che agitavano le fronde nel vento. «È che questa situazione mi stressa, chissà quante specie aliene arrivano sulla terra ogni anno…».
Daniel le pose una mano sulla spalla.
«Per affrontare un problema immane, spesso è utile scomporlo in parti più piccole», disse. «Occupiamoci di un’invasione aliena per volta».
«Hai ragione», disse lei sorridendogli. «Possiamo solo fare del nostro meglio per contenere questa situazione».
«Per quanto riguarda il resto», Daniel prese un sorso. «Ci penseremo a tempo debito».
Mitsuko sospirò ancora, questa volta piano, come ritrovando l’equilibrio. Rimasero in silenzio a guardare il getto della fontana fuori dalla finestra finché non ebbero finito il caffè.
«Poligono?», disse infine Alan.
Mitsuko lo guardò sollevando un sopracciglio.
«Parlavo con Billie the Kid qui, ha deciso che preferisce sopravvivere alle prossime avventure».
«Mi sembra una decisione saggia», disse lei annuendo.
Tornarono alle loro camere dove presero le pistole. Daniel soppesò tra le mani la Beretta M9 che Alan gli aveva regalato qualche tempo addietro, appena prima di scoprire l’esistenza della SIGMA. Erano tempi più semplici quelli, ormai l’idea di pedinare qualcuno gli sembrava quasi normale rispetto al dare la caccia agli alieni.
Raggiunsero l’ascensore, Alan premette uno dei pulsanti dei piani sotterranei e, pian piano, discesero. Daniel seguì l’amico attraverso i corridoi fino a giungere in una piccola anticamera con due porte, una delle quali era aperta e conduceva in una stanza attigua dalla quale risuonava un sommesso borbottare. Un omone era seduto su una sedia girevole, curvo nel suo compito. Oltre alle sue spalle spuntava la canna di un fucile e la mano andava su e giù, lucidandola con un panno.
«Ehi Bill», disse Alan agitando un braccio per farsi notare.
L’omone si voltò, rivelando un viso grassoccio con una stempiatura che arrivava a metà calotta cranica e una barba rossiccia che cresceva a chiazze sul mento e sulle guance.
«Ho portato un amico a esplodere qualche colpo, prendo due di tutto».
Bill emise un grugnito e tornò alle sue faccende.
Alan aprì la seconda porta, dietro la quale vi era una stanza con decine di pistole e fucili disposti su una rastrelliera lunga quanto la parete mentre, dall’altro lato, poggiati su un tavolo, vi erano cuffie e occhiali protettivi.
«Curioso lo stile…», disse Daniel agitando la mano davanti al mento.
«Gli è esploso in faccia un fucile, per questo la barba gli cresce un po’ qua e un po’ là», disse Alan andando alla rastrelliera.
Daniel lo guardò con gli occhi sgranati afferrando cuffie insonorizzanti e occhiali protettivi con lenti in policarbonato.
«È uno che sperimenta… nuovi tipi di armi, munizioni esplosive e beh… alcune munizioni si sono rivelate troppo esplosive», Alan fece spallucce. «O perlomeno questo è quanto mi ha detto Taìssa».
Daniel scosse la testa.
«Vista la gente che popola le file della SIGMA mi sembra una storia credibile».
Oltrepassarono la doppia porta dall’altra parte della stanza ed entrarono nella cabina di controllo, una specie di anticamera di passaggio, che aveva sulla sinistra delle porte che conducevano a un ufficio, un magazzino e ai servizi igienici e sulla destra due che conducevano all’area di tiro. Decine di postazioni, divise da separé, erano allineate ad altrettante corsie di tiro. Una serie di bersagli di carta, sagomati a forma di persone, era disposta sul lato opposto della stanza a circa venticinque metri dalle postazioni. Saltuari spari denotavano la presenza di altri agenti, anche se non erano visibili dietro i separé, e un sentore di polvere da sparo gli pizzicò la lingua.
Daniel estrasse la Beretta e la soppesò, carezzandone le asperità metalliche con il pollice, lasciando che il freddo penetrasse attraverso il polpastrello. Decise che non aveva senso allontanarsi dalla porta: che avesse ritrovato lo smalto di un tempo, o fatto schifo, non sarebbe dipeso dalla corsia di tiro. Entrò nella postazione libera più vicina.
«Ricordi la posizione?», chiese Alan.
«Una rinfrescata non mi farebbe male», disse Daniel stringendo la pistola con la mano destra e avvolgendo la sinistra attorno all’impugnatura, incrociando i pollici uno sull’altro.
«L’impugnatura è buona, lode alla memoria muscolare. Per quanto riguarda la posizione: girati leggermente di taglio rispetto al bersaglio, i piedi dovrebbero poggiare più o meno alla stessa distanza delle spalle».
Daniel portò indietro la spalla destra e allargò le gambe.
«Il braccio destro teso e quello sinistro un po’ piegato», continuò Alan girandogli intorno e spingendogli il gomito. «Così, verso il basso, non portarlo all’esterno. Ora il tocco finale, un piccolo trucco per tenere la pistola più stabile: spingi piano in avanti con la mano destra e allo stesso tempo tira verso di te con la sinistra. In questo modo si genera una tensione che ti aiuta a tenere l’arma salda e in posizione».
«Questa mi è nuova», disse Daniel. «Un trucco dei marines?».
«No… questa è la posizione Weaver, un classico! Jack Weaver era uno sceriffo negli anni Cinquanta, questa posizione gli ha permesso di vincere una gran quantità di competizio…».
BOOM
Il bersaglio non ondeggiò neppure.
«Beh…», disse Alan dandogli una pacca sulla spalla. «Nemmeno Weaver fece centro al primo colpo, credo…».
Daniel prese un respiro profondo e cercò di sgombrare la mente. Concentrò l’attenzione sul bersaglio, allineando il mirino col centro.
Premette il grilletto.
Il colpo risuonò nella sala e la sagoma si sollevò all’indietro. Quando tornò a distendersi, rivelò un buco a un paio di centimetri dal margine esterno della sagoma.
«Beh è comunque un miglioramento», mormorò tra sé e sé.
«Trattieni il respiro prima di sparare», disse Alan.
«Come in Call of Duty».
«Esatto, ti aiuterà a stabilizzare il tiro».
Daniel tornò in posizione e questa volta trattenne il respiro prima di sparare. L’immobilità dei polmoni gli permise di evitare il costante ondeggiare che l’atto di respirare imponeva al corpo, come onde che si infrangevano sul bagnasciuga.
La sagoma volteggiò come impazzita, il colpo era più centrato ma ancora fuori dal tabellone.
«Beh… ho detto che aiuta», disse Alan. «Non che fa miracoli».
Daniel rise suo malgrado.
«Ehi ragazzi», risuonò una voce cristallina alle loro spalle.
Daniel si voltò e vide Taìssa che tornava da una postazione di tiro più in fondo, Lake era al suo fianco, lo sguardo gli si fece torvo non appena scorse Alan.
«Sono felice di vedere che ti eserciti, Daniel», disse il soldato. «Almeno la prossima volta ci sarà qualcuno in grado di colpire un alieno in fuga».
«Sei fortunato di pesare troppo per appenderti al gancio dei bersagli», disse il marine. «Altrimenti userei te per fare pratica».
«Come sta andando?», chiese Taìssa senza badare ai due litiganti.
Daniel guardò la sagoma, era bucherellata dappertutto tranne che sul bersaglio.
«Sono decisamente più bravo a risolvere i conflitti a parole».
«Non ne dubito», disse Lake, beccandosi un’occhiataccia da Taìssa. «Non intendevo in quel senso, per una volta che dico qualcosa senza sarcasmo… ha una laurea in psicologia e colpire un bersaglio a venticinque metri con una pistola non è affatto semplice per un principiante».
«Ah tranquillo», disse Daniel scrollando le braccia per sciogliere i muscoli. «Sarcasmo o no: è la verità».
«La tensione alle braccia è normale all’inizio», disse Taìssa. «Migliorerà quando riuscirai a tenere la posizione senza irrigidirti, è una questione di abitudine».
«Oppure fatti mozzare una mano e sostituiscila con un arto meccanico e l’intorpidimento non sarà mai più un problema», disse Lake mostrando il prodigio tecnologico che aveva al posto del braccio sinistro. «Ne avrai molti altri in compenso… ma ehi, non si può avere tutto…».
Daniel emise un suono come di una risata strozzata e la faccia gli si accartocciò in un misto di emozioni. Osservò ancora una volta il braccio di Lake e la gamba di Taìssa, era incredibile che avessero ancora l’ardore di tornare sul campo. Non poteva fare altro che ammirare la loro determinazione.
I telefoni di tutti e quattro vibrarono all’unisono.
Daniel lo estrasse dalla tasca.
«Un messaggio di Mitsuko», disse, leggendolo. «Roy vuole parlarci nel suo ufficio».
Riposero l’attrezzatura e si avviarono alle scale, salirono fino a raggiungere l’ufficio e trovarono la porta aperta. L’esobiologa fece loro segno di entrare.
«Chiudete la porta, grazie», disse Roy.
Avevano lo sguardo incollato al monitor e dai suoni e il luccicare della luce riflessa negli occhi probabilmente stavano guardando un video. Daniel entrò per ultimo e chiuse la porta dietro di sé. Fece per andare a sedersi sulle poltrone ma Roy lo anticipò.
«Venite a vedere», disse facendo un gesto come a invitarli dall’altra parte della scrivania, il browser era aperto su YouTube. «È di ieri».
Una coppia camminava nell’erba e, d’un tratto, i cespugli di fianco al sentiero vennero scossi da qualcosa, L’inquadratura vorticò e si sentirono delle grida. Una creatura scura, troppo sfocata per distinguerla, passò loro tra le gambe. Il video titolava “Attaccati da un alieno!”, era stato postato da un canale con meno di cento iscritti ma aveva già diverse migliaia di visualizzazioni.
«Sarà gente che cerca lo Yeti», disse Alan. «Avranno buttato una parrucca nelle frasche trascinandola con un filo…».
«Abbiamo pensato a qualcosa di simile anche noi, ma non è l’unico», disse Mitsuko. «Negli ultimi tre giorni hanno iniziato a circolare decine di video simili, tutti provenienti dal Colorado, nelle zone urbane limitrofe al Parco Nazionale delle Montagne Rocciose o nel parco stesso, filmati da abitanti del luogo e turisti».
«Quindi sono troppe e troppo localizzate per essere false», disse Daniel passandosi una mano sul volto.
«E allo stesso tempo vengono da troppi luoghi diversi per essere imputati a qualche evento fuorviante che abbia causato un’isteria di massa».
«Volete dire che il Parco Nazionale delle Montagne Rocciose pullula di creature aliene?».
«Da qualche giorno a questa parte, sì…», disse Roy. «O perlomeno, ci sono abbastanza segnalazioni da spingermi a pensare che sia meglio andare a controllare di persona».
«Potrebbe essere arrivato da lì l’alieno che abbiamo trovato allo zoo di Central Park?», chiese Alan.
«Da così lontano?».
«Magari trasportato involontariamente», il marine fece spallucce. «Nel retro di un furgone o qualcosa del genere, capita…».
«Tra tutti i posti, proprio un parco naturale…», sospirò Mitsuko. «Dobbiamo trovare un modo per contenerli!».
«Se l’alieno di Central Park arriva dal Colorado…», disse Daniel. «Ormai potrebbero esserci esemplari sparsi per tutti gli Stati Uniti».
«Non saltiamo a conclusioni affrettate», disse Roy. «Non sappiamo da dove venisse quell’alieno, potrebbe essere arrivato a New York in mille modi diversi. Però una cosa è sicura: dobbiamo radunare una squadra e partire per il Colorado».
«Ma dove esattamente?», chiese Alan. «Il Parco Nazionale delle Montagne Rocciose è immenso».
Roy passò da una scheda all’altra di YouTube e si soffermò su un video che mostrava delle creature dalla pelle squamata che imperversavano seminando il panico.
«La maggior parte delle segnalazioni arriva da una cittadina proprio al confine col parco, quasi un passaggio obbligato per buona parte dei turisti, direi di iniziare da lì».
Daniel osservò la mappa, sul versante occidentale delle Montagne Rocciose sorgeva una coppia di laghi e, sulle sponde del più piccolo dei due sorgeva una città che portava il medesimo nome dello specchio d’acqua: Grand Lake.
Defender
«Continui a rifiutarti di prendere l’Apache», disse Alan muovendosi sul sedile dell’aereo per cercare una posizione comoda. «Dovresti aver imparato ad ascoltarmi!».
«Tu dovresti aver capito che andare in giro su un elicottero da guerra attira troppa attenzione», disse Roy. «A dirla tutta, non è nemmeno legale senza chiedere le dovute autorizzazioni…».
«Con il kaiju alla centrale elettrica però è arrivato non appena hai chiamato…».
«Stavamo per morire… e non sai che lavata di capo ho poi ricevuto per aver schierato un velivolo militare in un centro abitato. Mentre tu festeggiavi il fatto di essere ancora vivo, io ero in videoconferenza col segretario della difesa e un generale a quattro stelle, cercando di spiegargli come mai sembrava fosse scoppiata una guerra».
«Beh… mi pare te la sia cavata bene», disse Alan. «Non sei finito alla corte marziale e ti hanno lasciato tenere l’Apache».
«Sì…», grugnì Roy. «Liscio come l’olio…».
Daniel aggrottò la fronte e cambiò posizione sul sedile, erano in volo da quattro ore e gli dolevano schiena e natiche da altrettanto tempo. La sola idea di compiere il medesimo viaggio in elicottero lo faceva rabbrividire, sarebbe arrivato a destinazione a pezzi e non sarebbe mai più riuscito a levarsi dal cervello il rumore delle pale che vorticavano né dalle mani il tremore delle vibrazioni del mezzo. Alan e il suo amore per l’Apache potevano andare a farsi fottere.
Distolse l’attenzione dal litigio e osservò fuori dal finestrino: stavano sorvolando le Montagne Rocciose ed erano ormai giunti sul versante occidentale della catena. Il territorio andava abbassandosi mentre i dirupi scoscesi delle montagne lasciavano posto a una foresta di conifere che dipingeva di verde il panorama roccioso. Più a valle, la foresta veniva screziata da alberi decidui le cui foglie verde brillante delineavano il corso dei fiumi e finivano col prevalere man mano che la quota diminuiva. Poi, come se qualcuno avesse cancellato i colori con un colpo di spugna, il panorama si fece grigio. Una miriade di alberi secchi, grigio cenere, si stagliavano come braccia scheletriche che spuntavano dal suolo, le mani protese in alto alla ricerca di un aiuto che non era giunto in tempo, graffiando il cielo e tagliandone i venti. Per ettari ed ettari si estendeva la morte, come una cicatrice nella foresta.
Il pilota virò verso sud, sorvolando Grand Lake, e le foglie tornarono ad adornare gli alberi con verdi criniere. Daniel tirò un sospiro di sollievo, per fortuna non avrebbe dovuto passare i prossimi giorni immerso in un panorama apocalittico. Il lago era calmo e la superficie azzurra rifletteva la luce del sole pomeridiano, Grand Lake sembrava piccola vista dall’alto, come potesse ospitare solo una manciata di persone. La maggior parte delle strade non erano asfaltate e le rade abitazioni di legno distavano l’una dall’altra come se lo spazio non fosse un problema. Tutto il contrario del caos di New York.
L’aeroporto più vicino a Grand Lake era il Grand County Airport di Granby e distava venti chilometri in linea d’aria e trenta su strada. Dopo quattro ore di volo, l’aereo scese di quota.
«La pista esiste davvero?», chiese Alan. «O le torri di controllo sono un optional nel Colorado?».
«Su google maps l’ho vista…», disse Roy, attirando su di sé gli sguardi preoccupati dell’intera squadra. «Ma considerando che ho dovuto chiamare l’ufficio dello sceriffo per fargliela aprire, dubito che la usino spesso…».
«Questo sì che mi tranquillizza…», grugnì Alan. «Google maps dice che vivrò… diceva anche che avrei trovato un ristorante italiano a China Town…».
«E l’hai trovato?», chiese Taìssa.
«No».
«Cos’hai mangiato, allora?».
«Ma ti pare il momento…».
«Ho fame!».
«Cinese, ho mangiato cinese!».
«Ha senso, anche se è un po’ vago…».
Sballottato dalle turbolenze, Daniel represse un conato di vomito nel sentir parlare di cibo. Preferiva consumare i pasti, o contemplare l’idea di consumarli, coi piedi ben piantati a terra.
L’aereo poggiò le ruote e impose una brusca frenata. La superficie della pista, tutt’altro che liscia, lo fece traballare mandando vibrazioni che si propagarono direttamente nel loro scheletro facendo battere i denti. Daniel realizzò di essersi morso la lingua solo quando un sentore ferroso gli si propagò in bocca.
Recuperarono gli zaini dagli appositi scomparti sopra i sedili e si misero in coda per scendere, Daniel si trovò dietro Misuko e venne inebriato dal profumo alla vaniglia. Quando giunse alla porta, venne assalito da un’aria arida ma fredda al tempo stesso. Il panorama era quasi desertico, terra e sassi circondavano la pista e steli d’erba secca crescevano a perdita d’occhio sull’altopiano.
«Ottimo consiglio quello di portare gli occhiali da sole», disse a Taìssa che era dietro di lui. «E anche per quanto riguarda il giubbotto…».
«Siamo quasi a duemilacinquecento metri», disse lei sollevando le spalle.
«E per Grand Lake dovremo salirne un altro centinaio», disse Roy guardandosi intorno. «Ma prima cerchiamo di capire dove siamo finiti, vedo solo un capanno degli attrezzi e due container… forse saremmo dovuti atterrare a Denver e fare il resto del viaggio in macchina».
«Oppure…», iniziò Alan.
«Se una qualsiasi delle parole che stanno per uscirti di bocca contiene un riferimento a una tribù di nativi americani, ti faccio legare sulla prua dell’aereo per il viaggio di ritorno».
Alan ammutolì.
«Finalmente un po’ di silenzio», commentò Lake ma un’occhiataccia del direttore zittì anche lui.
Uno sferragliare proveniente dalla strada che costeggiava la pista di atterraggio attirò la loro attenzione. Un uomo dal ventre prominente con un’uniforme ocra stava aprendo un cancello nella recinzione di maglie d’acciaio. Alle sue spalle, una macchina della polizia locale era parcheggiata nel mezzo della carreggiata.
«Dev’essere lo sceriffo che ho chiamato», disse Roy facendogli un cenno.
L’omone ricambiò il gesto e, bloccato il cancello, andò loro incontro.
«Non si vedono molti jet privati a Granby», ridacchiò stringendo la mano del direttore. «Ma ogni tanto capita che qualche riccone voglia visitare il parco nazionale viaggiando comodo», tossì e aggrottò la fronte. «Anche se di solito atterrano a Denver e passano da Estes Park, dall’altro lato delle Montagne Rocciose, come buona parte della gente normale».
«La gente normale?», chiese Daniel.
«Beh il versante occidentale delle Montagne Rocciose è quello più… civilizzato», lo sceriffo emise una grassa risata. «Le entrate a ovest, Beaver Meadows e Fall River, sono turistiche. Grand Lake è più… avventurosa».
Daniel annuì piano.
«Voi cosa siete?», li incalzò l’omone. «Turisti o avventurieri?».
«Nessuno dei due», disse Roy mostrando il distintivo con una sigma dorata in sovrimpressione su uno scudo e l’acronimo SIGMA inciso sotto di esso. «Strategic Iintelligence Governative Military Agency».
«Mai sentita…».
«È nuova… più o meno».
«Nuova o no, non andrei troppo in giro a sbandierare quell’affare», disse lo sceriffo. «Da queste parti c’è gente che non ha simpatie per tutto ciò che porta il termine “governativo” nel nome. Non che sia il mio caso», si affrettò ad aggiungere mettendo avanti le mani.
«Lo terrò a mente», disse Roy. «Dove possiamo affittare una macchina per raggiungere Grand Lake?».
«All’autofficina “Da Bill” spesso hanno automobili e furgoni in affitto».
«È lontana?».
«Un paio di minuti in macchina, un quarto d’ora a piedi».
Roy annuì e si girò verso il jet dove il pilota era emerso dalla cabina e li osservava appoggiato a un lato dell’apertura della scaletta.
«Vai al Rocky Mountain International Airport di Denver, lì potrai fare rifornimento e metterti comodo per un po’», disse. «Ma non troppo comodo, trova un elicottero che possa arrivare a Grand Lake e tieniti pronto, non sappiamo cosa troveremo e potrebbe servirci un intervento tempestivo».
Il pilota annuì e li salutò con un cenno della mano, tirò su la scaletta e sparì nel jet.
«Puoi darmi un passaggio all’autofficina?», disse Roy tornando a rivolgersi allo sceriffo.
«Nessun problema, ci passo davanti per tornare in centrale», li squadrò. «Ma tutti e sei non ci entrate in macchina».
«Ragazze, con me», disse Roy. «Voialtri raggiungeteci a piedi».
Roy, Mitsuko e Taìssa salirono in macchina con lo sceriffo, il quale sgasò alzando un polverone indegno. Daniel tossì e si stropicciò gli occhi. Qualche metro dopo, la strada si faceva asfaltata.
«Si fosse concesso una decina di passi in più, non ci avrebbe riempiti di polvere con quella partenza sportiva», borbottò tra sé e sé.
Squadrò Alan, poi Lake e fece spallucce, incamminandosi per il sentiero prima che i due ricominciassero a punzecchiarsi. In lontananza erano visibili le mura bianche delle abitazioni di Granby e, quando raggiunsero la cittadina, il terreno si era fatto meno arido e vi erano cespugli verdi e alberi che donavano una certa armonia alla semplicità delle strutture.
Percorsero la strada centrale con i tralicci del telefono sulla sinistra e superarono una chiesa battista in assi di legno portante una croce bianca sul tetto alta quasi quanto l’edificio stesso. A destra, tre vie si diramavano perpendicolari con case su entrambi i lati, alcune costruite in legno, con porticati dal sapore rustico, altre sembravano dei prefabbricati e ogni tanto si scorgevano anche camper e casette mobili con fili del bucato tesi tra una e l’altra e biciclette appoggiate alle pareti.
Macchine e furgoni parcheggiati su entrambi i lati della strada aumentarono man mano di numero e si trovarono in uno spiazzo asfaltato gremito dei veicoli più disparati: vi erano automobili, SUV, furgoni, jeep e addirittura un paio di camion a rimorchio, tutti a un diverso stadio di arrugginimento. Alcuni veicoli sembravano nuovi, altri residuati bellici talmente malmessi che Daniel dubitava fossero in grado di muoversi se non trainati da un carro attrezzi.
Roy era nel mezzo della rimessa, davanti alla serranda dell’officina, con un uomo dalle mani annerite dal grasso lubrificante. Stava firmando delle carte mentre Taìssa esaminava un Land Rover Defender dell’ottantatre e Mitsuko la osservava sbadigliando.
«…sono un po’ consumati ma non potevamo aspettarci altro», stava dicendo la soldatessa. «Tutto sommato, mi sembra in buono stato».
Daniel sollevò un sopracciglio e squadrò il mezzo con la vernice verde mezza scrostata.
«Lo so, a vedersi fa schifo», disse lei voltandosi con una giravolta sui talloni. «Ma ti garantisco che sotto al cofano è una bellezza».
«Non si giudica un libro dalla copertina», commentò Daniel. «Anche se in questo caso toccare la copertina potrebbe trasmetterti il tetano…».
«Non essere così negativo», disse Alan con un sorriso a trentadue denti dandogli una pacca sulle spalle. «È un gran bel mezzo ed è perfetto per i sentieri di montagna!».
Daniel fece spallucce.
«Molto bene, squadra», disse Roy, raggiungendoli. «Pare che in zona non abbiano molta domanda per quanto riguarda l’affitto di veicoli. Quindi, possiamo tenere il Defender finché ne abbiamo bisogno, ho dato un anticipo di tre giorni e poi nel caso si sfori gli possiamo pagare il resto. Cerchiamo di riconsegnarlo intero…».
Roy prese il posto alla guida, Mitsuko gli si sedette di fianco, i due soldati si misero nei sedili intermedi e Daniel salì in coda di fianco all’amico. Roy girò la chiave e il motore si accese con un rombo. Taìssa aveva ragione, dal suono sembrava che sotto al cofano fosse in buona salute. Uscirono dall’autofficina e fecero rotta verso nord, alla volta di Grand Lake.
«Defender!», proruppe Alan con voce tonante. «Ride like the wind», cantò dando una manata sul sedile dove stava seduto Lake. «Fight proud, my son!».
Daniel si passò una mano sul volto ma, invece di insultare il marine, Lake si girò con un ghigno stampato in volto.
«You’re the defender», cantò. «God has sent!».
Alan scoppiò a ridere e i due batterono il cinque.
Daniel scosse la testa senza badare alle espressioni interrogative degli altri passeggeri.
Non poté fare a meno di unirsi al coro.
«Tu dovresti aver capito che andare in giro su un elicottero da guerra attira troppa attenzione», disse Roy. «A dirla tutta, non è nemmeno legale senza chiedere le dovute autorizzazioni…».
«Con il kaiju alla centrale elettrica però è arrivato non appena hai chiamato…».
«Stavamo per morire… e non sai che lavata di capo ho poi ricevuto per aver schierato un velivolo militare in un centro abitato. Mentre tu festeggiavi il fatto di essere ancora vivo, io ero in videoconferenza col segretario della difesa e un generale a quattro stelle, cercando di spiegargli come mai sembrava fosse scoppiata una guerra».
«Beh… mi pare te la sia cavata bene», disse Alan. «Non sei finito alla corte marziale e ti hanno lasciato tenere l’Apache».
«Sì…», grugnì Roy. «Liscio come l’olio…».
Daniel aggrottò la fronte e cambiò posizione sul sedile, erano in volo da quattro ore e gli dolevano schiena e natiche da altrettanto tempo. La sola idea di compiere il medesimo viaggio in elicottero lo faceva rabbrividire, sarebbe arrivato a destinazione a pezzi e non sarebbe mai più riuscito a levarsi dal cervello il rumore delle pale che vorticavano né dalle mani il tremore delle vibrazioni del mezzo. Alan e il suo amore per l’Apache potevano andare a farsi fottere.
Distolse l’attenzione dal litigio e osservò fuori dal finestrino: stavano sorvolando le Montagne Rocciose ed erano ormai giunti sul versante occidentale della catena. Il territorio andava abbassandosi mentre i dirupi scoscesi delle montagne lasciavano posto a una foresta di conifere che dipingeva di verde il panorama roccioso. Più a valle, la foresta veniva screziata da alberi decidui le cui foglie verde brillante delineavano il corso dei fiumi e finivano col prevalere man mano che la quota diminuiva. Poi, come se qualcuno avesse cancellato i colori con un colpo di spugna, il panorama si fece grigio. Una miriade di alberi secchi, grigio cenere, si stagliavano come braccia scheletriche che spuntavano dal suolo, le mani protese in alto alla ricerca di un aiuto che non era giunto in tempo, graffiando il cielo e tagliandone i venti. Per ettari ed ettari si estendeva la morte, come una cicatrice nella foresta.
Il pilota virò verso sud, sorvolando Grand Lake, e le foglie tornarono ad adornare gli alberi con verdi criniere. Daniel tirò un sospiro di sollievo, per fortuna non avrebbe dovuto passare i prossimi giorni immerso in un panorama apocalittico. Il lago era calmo e la superficie azzurra rifletteva la luce del sole pomeridiano, Grand Lake sembrava piccola vista dall’alto, come potesse ospitare solo una manciata di persone. La maggior parte delle strade non erano asfaltate e le rade abitazioni di legno distavano l’una dall’altra come se lo spazio non fosse un problema. Tutto il contrario del caos di New York.
L’aeroporto più vicino a Grand Lake era il Grand County Airport di Granby e distava venti chilometri in linea d’aria e trenta su strada. Dopo quattro ore di volo, l’aereo scese di quota.
«La pista esiste davvero?», chiese Alan. «O le torri di controllo sono un optional nel Colorado?».
«Su google maps l’ho vista…», disse Roy, attirando su di sé gli sguardi preoccupati dell’intera squadra. «Ma considerando che ho dovuto chiamare l’ufficio dello sceriffo per fargliela aprire, dubito che la usino spesso…».
«Questo sì che mi tranquillizza…», grugnì Alan. «Google maps dice che vivrò… diceva anche che avrei trovato un ristorante italiano a China Town…».
«E l’hai trovato?», chiese Taìssa.
«No».
«Cos’hai mangiato, allora?».
«Ma ti pare il momento…».
«Ho fame!».
«Cinese, ho mangiato cinese!».
«Ha senso, anche se è un po’ vago…».
Sballottato dalle turbolenze, Daniel represse un conato di vomito nel sentir parlare di cibo. Preferiva consumare i pasti, o contemplare l’idea di consumarli, coi piedi ben piantati a terra.
L’aereo poggiò le ruote e impose una brusca frenata. La superficie della pista, tutt’altro che liscia, lo fece traballare mandando vibrazioni che si propagarono direttamente nel loro scheletro facendo battere i denti. Daniel realizzò di essersi morso la lingua solo quando un sentore ferroso gli si propagò in bocca.
Recuperarono gli zaini dagli appositi scomparti sopra i sedili e si misero in coda per scendere, Daniel si trovò dietro Misuko e venne inebriato dal profumo alla vaniglia. Quando giunse alla porta, venne assalito da un’aria arida ma fredda al tempo stesso. Il panorama era quasi desertico, terra e sassi circondavano la pista e steli d’erba secca crescevano a perdita d’occhio sull’altopiano.
«Ottimo consiglio quello di portare gli occhiali da sole», disse a Taìssa che era dietro di lui. «E anche per quanto riguarda il giubbotto…».
«Siamo quasi a duemilacinquecento metri», disse lei sollevando le spalle.
«E per Grand Lake dovremo salirne un altro centinaio», disse Roy guardandosi intorno. «Ma prima cerchiamo di capire dove siamo finiti, vedo solo un capanno degli attrezzi e due container… forse saremmo dovuti atterrare a Denver e fare il resto del viaggio in macchina».
«Oppure…», iniziò Alan.
«Se una qualsiasi delle parole che stanno per uscirti di bocca contiene un riferimento a una tribù di nativi americani, ti faccio legare sulla prua dell’aereo per il viaggio di ritorno».
Alan ammutolì.
«Finalmente un po’ di silenzio», commentò Lake ma un’occhiataccia del direttore zittì anche lui.
Uno sferragliare proveniente dalla strada che costeggiava la pista di atterraggio attirò la loro attenzione. Un uomo dal ventre prominente con un’uniforme ocra stava aprendo un cancello nella recinzione di maglie d’acciaio. Alle sue spalle, una macchina della polizia locale era parcheggiata nel mezzo della carreggiata.
«Dev’essere lo sceriffo che ho chiamato», disse Roy facendogli un cenno.
L’omone ricambiò il gesto e, bloccato il cancello, andò loro incontro.
«Non si vedono molti jet privati a Granby», ridacchiò stringendo la mano del direttore. «Ma ogni tanto capita che qualche riccone voglia visitare il parco nazionale viaggiando comodo», tossì e aggrottò la fronte. «Anche se di solito atterrano a Denver e passano da Estes Park, dall’altro lato delle Montagne Rocciose, come buona parte della gente normale».
«La gente normale?», chiese Daniel.
«Beh il versante occidentale delle Montagne Rocciose è quello più… civilizzato», lo sceriffo emise una grassa risata. «Le entrate a ovest, Beaver Meadows e Fall River, sono turistiche. Grand Lake è più… avventurosa».
Daniel annuì piano.
«Voi cosa siete?», li incalzò l’omone. «Turisti o avventurieri?».
«Nessuno dei due», disse Roy mostrando il distintivo con una sigma dorata in sovrimpressione su uno scudo e l’acronimo SIGMA inciso sotto di esso. «Strategic Iintelligence Governative Military Agency».
«Mai sentita…».
«È nuova… più o meno».
«Nuova o no, non andrei troppo in giro a sbandierare quell’affare», disse lo sceriffo. «Da queste parti c’è gente che non ha simpatie per tutto ciò che porta il termine “governativo” nel nome. Non che sia il mio caso», si affrettò ad aggiungere mettendo avanti le mani.
«Lo terrò a mente», disse Roy. «Dove possiamo affittare una macchina per raggiungere Grand Lake?».
«All’autofficina “Da Bill” spesso hanno automobili e furgoni in affitto».
«È lontana?».
«Un paio di minuti in macchina, un quarto d’ora a piedi».
Roy annuì e si girò verso il jet dove il pilota era emerso dalla cabina e li osservava appoggiato a un lato dell’apertura della scaletta.
«Vai al Rocky Mountain International Airport di Denver, lì potrai fare rifornimento e metterti comodo per un po’», disse. «Ma non troppo comodo, trova un elicottero che possa arrivare a Grand Lake e tieniti pronto, non sappiamo cosa troveremo e potrebbe servirci un intervento tempestivo».
Il pilota annuì e li salutò con un cenno della mano, tirò su la scaletta e sparì nel jet.
«Puoi darmi un passaggio all’autofficina?», disse Roy tornando a rivolgersi allo sceriffo.
«Nessun problema, ci passo davanti per tornare in centrale», li squadrò. «Ma tutti e sei non ci entrate in macchina».
«Ragazze, con me», disse Roy. «Voialtri raggiungeteci a piedi».
Roy, Mitsuko e Taìssa salirono in macchina con lo sceriffo, il quale sgasò alzando un polverone indegno. Daniel tossì e si stropicciò gli occhi. Qualche metro dopo, la strada si faceva asfaltata.
«Si fosse concesso una decina di passi in più, non ci avrebbe riempiti di polvere con quella partenza sportiva», borbottò tra sé e sé.
Squadrò Alan, poi Lake e fece spallucce, incamminandosi per il sentiero prima che i due ricominciassero a punzecchiarsi. In lontananza erano visibili le mura bianche delle abitazioni di Granby e, quando raggiunsero la cittadina, il terreno si era fatto meno arido e vi erano cespugli verdi e alberi che donavano una certa armonia alla semplicità delle strutture.
Percorsero la strada centrale con i tralicci del telefono sulla sinistra e superarono una chiesa battista in assi di legno portante una croce bianca sul tetto alta quasi quanto l’edificio stesso. A destra, tre vie si diramavano perpendicolari con case su entrambi i lati, alcune costruite in legno, con porticati dal sapore rustico, altre sembravano dei prefabbricati e ogni tanto si scorgevano anche camper e casette mobili con fili del bucato tesi tra una e l’altra e biciclette appoggiate alle pareti.
Macchine e furgoni parcheggiati su entrambi i lati della strada aumentarono man mano di numero e si trovarono in uno spiazzo asfaltato gremito dei veicoli più disparati: vi erano automobili, SUV, furgoni, jeep e addirittura un paio di camion a rimorchio, tutti a un diverso stadio di arrugginimento. Alcuni veicoli sembravano nuovi, altri residuati bellici talmente malmessi che Daniel dubitava fossero in grado di muoversi se non trainati da un carro attrezzi.
Roy era nel mezzo della rimessa, davanti alla serranda dell’officina, con un uomo dalle mani annerite dal grasso lubrificante. Stava firmando delle carte mentre Taìssa esaminava un Land Rover Defender dell’ottantatre e Mitsuko la osservava sbadigliando.
«…sono un po’ consumati ma non potevamo aspettarci altro», stava dicendo la soldatessa. «Tutto sommato, mi sembra in buono stato».
Daniel sollevò un sopracciglio e squadrò il mezzo con la vernice verde mezza scrostata.
«Lo so, a vedersi fa schifo», disse lei voltandosi con una giravolta sui talloni. «Ma ti garantisco che sotto al cofano è una bellezza».
«Non si giudica un libro dalla copertina», commentò Daniel. «Anche se in questo caso toccare la copertina potrebbe trasmetterti il tetano…».
«Non essere così negativo», disse Alan con un sorriso a trentadue denti dandogli una pacca sulle spalle. «È un gran bel mezzo ed è perfetto per i sentieri di montagna!».
Daniel fece spallucce.
«Molto bene, squadra», disse Roy, raggiungendoli. «Pare che in zona non abbiano molta domanda per quanto riguarda l’affitto di veicoli. Quindi, possiamo tenere il Defender finché ne abbiamo bisogno, ho dato un anticipo di tre giorni e poi nel caso si sfori gli possiamo pagare il resto. Cerchiamo di riconsegnarlo intero…».
Roy prese il posto alla guida, Mitsuko gli si sedette di fianco, i due soldati si misero nei sedili intermedi e Daniel salì in coda di fianco all’amico. Roy girò la chiave e il motore si accese con un rombo. Taìssa aveva ragione, dal suono sembrava che sotto al cofano fosse in buona salute. Uscirono dall’autofficina e fecero rotta verso nord, alla volta di Grand Lake.
«Defender!», proruppe Alan con voce tonante. «Ride like the wind», cantò dando una manata sul sedile dove stava seduto Lake. «Fight proud, my son!».
Daniel si passò una mano sul volto ma, invece di insultare il marine, Lake si girò con un ghigno stampato in volto.
«You’re the defender», cantò. «God has sent!».
Alan scoppiò a ridere e i due batterono il cinque.
Daniel scosse la testa senza badare alle espressioni interrogative degli altri passeggeri.
Non poté fare a meno di unirsi al coro.