FRANCESCO GOZZO
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progetto odissea

Genere:   fantascienza.

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Lawrence Fishbone era un giovane astronauta ma poteva già vantare due missioni spaziali sul suo curriculum. Per questo motivo era stato scelto come vice comandante della Ulisse, la nave spaziale posta sotto il comando di Fitzgerald Chovy, il più esperto tra gli astronauti che rimanevano all’agenzia, non molti, bisognava dire.

La NASA non era più quella che era stata un centinaio d’anni prima, quando un’infinità di persone lavoravano per risolvere gli enigmi del cosmo e le missioni erano all’ordine del giorno, rifletté Lawrence camminando per i corridoi del complesso che risuonavano vuoti all’eco dei suoi passi. Ormai gli scienziati erano rimasti in pochi e si erano radunati tutti all’interno di un solo stabile. Gli astronauti si contavano sulle dita di una mano. Lawrence era molto fiero di essere uno di essi, ma non poteva fare a meno di rimpiangere i tempi passati di cui suo nonno gli raccontava, si perdevano in un’epoca che a lui sembrava talmente lontana da costituire un mito. Dopotutto, pensò sospirando, la NASA era solo un esempio di quanto fosse successo al mondo intero.

Ormai da oltre cento anni il pianeta versava in condizioni critiche. Il “punto di non ritorno” climatico causato dai gas serra era stato raggiunto. L’umanità, sorda agli avvertimenti, si era diretta a testa alta verso la sua stessa fine e quando fu chiaro che la situazione era disperata, nessuno sforzo avrebbe più potuto invertire la tendenza e le conseguenze erano state disastrose. Il processo di desertificazione era diventato man mano sempre più veloce e a causa del discioglimento dei ghiacciai molte zone fertili erano state sommerse dall’acqua. Il problema del “punto di non ritorno” era appunto che, una volta superato, la fine non si poteva più evitare a prescindere dall’entità dagli sforzi messi in atto.

In un mondo in cui la popolazione cresceva a dismisura e la richiesta di materie prime aumentava, era inevitabile che a un certo punto si giungesse al conflitto. La tanta paventata terza guerra mondiale era scoppiata senza che ce ne si rendesse conto. Il gioco delle alleanze unito agli interessi personali delle nazioni aveva condotto il mondo nel caos e quando le nazioni più bellicose avevano rotto il divieto dell’uso di armi nucleari, fu come se avessero dato un colpo di spugna a tutte le regole di guerra. L’apocalisse nucleare così com’era stata rappresentata nei film venne scongiurata grazie ai rifugi di ultima generazione e alle zone schermate dalle radiazioni e, seppur enormemente provata, l’umanità era sopravvissuta in piccole sacche che avevano ormai perso ogni voglia di combattere.

La tendenza era irreversibile: la terra stava morendo. O meglio, pensò Lawrence, la versione abitabile della terra stava morendo.

Nei tempi disperati del dopoguerra, l’umanità aveva guardato alle stelle con la speranza nata dalla disperazione. Gli scienziati di tutto il mondo si riunirono alla NASA e tutti i progetti di ricerca di pianeti abitabili e viaggi spaziali vennero riaperti e ampliati, fu così che nacque il Progetto Odissea, la più grande delle sfide che l’umanità si fosse mai posta: colonizzare un nuovo pianeta.

Nel corso del ventunesimo secolo l’agenzia aveva stilato una lista impressionante di eso-pianeti, decine di migliaia in migliaia di sistemi, alcuni di questi si trovavano in fasce abitabili orbitanti intorno a stelle simili al sole. Tuttavia, il fatto che un pianeta si trovasse in una fascia abitabile, quindi né troppo vicino, né troppo lontano dalla sua stella, non voleva dire che la sua atmosfera fosse compatibile con la vita né che presentasse tracce d’acqua liquida in superficie. Una grande quantità di sonde era stata mandata su pianeti simili in passato senza mai trovarne uno adatto, ma la strumentazione era notevolmente migliorata e circa un decennio prima era stata fatta una scoperta che aveva riacceso le speranze e dato nuovo impulso al Progetto Odissea. Grazie ai telescopi spaziali che scandagliavano i cieli senza sosta, era stato individuato un pianeta alla strabiliante distanza di due milioni e cinquecentomila anni luce dalla terra, all’interno della Galassia di Andromeda, la più grande galassia del Gruppo Locale di cui fa parte anche la Via Lattea. Questo pianeta aveva tutte le caratteristiche per essere considerato abitabile secondo le più sofisticate analisi odierne. Sembrava possedere un’atmosfera né troppo densa né troppo rarefatta e presentava tracce di oceani. Inoltre, possedeva un campo magnetico in grado di schermare la superficie dalle radiazioni della stella.

Non c’erano garanzie, ma in fondo, pensò Lawrence, cos’avevano da perdere? La situazione era tale sulla terra che se fossero rimasti sarebbero comunque morti entro un paio di decenni. L’acqua potabile scarseggiava e il suolo era diventato talmente acido da rendere impossibile l’agricoltura. Tutto ciò di cui si nutrivano era nato in una serra o uscito da diversi cicli in un depuratore. Lawrence al tempo della scoperta era poco più di un ragazzino, ma trascinato dal rinnovato entusiasmo aveva deciso che avrebbe dovuto fare la sua parte e aveva deciso di seguire le orme di suo padre, uno degli scienziati che lavoravano al Progetto Odissea, solo in modo leggermente diverso ed era riuscito a diventare un astronauta.

Mentre tutti gli sforzi degli ingegneri furono diretti alla costruzione di una nave spaziale gigantesca che potesse trasportare il maggior numero di persone possibile, gli scienziati si concentrarono sul trovare un modo per raggiungere il pianeta “CoRoT-M31-320 b” che era stato ribattezzato con ottimismo “Elpis”, personificazione greca della speranza. Era noto, da poco prima che scoppiasse la guerra nucleare, che lo spazio-tempo era composto da più delle tre dimensioni che noi sperimentiamo tutti i giorni ed era possibile sfruttare le pieghe del tessuto spazio-temporale appartenenti ad altre dimensioni per percorrere notevoli distanze in una frazione di secondo. La teoria era quella dell’iperspazio, e questi luoghi venivano chiamati “punti di salto”. Il motore quantistico in grado di spostare un’astronave attraverso queste molteplici dimensioni e sfruttare i punti di salto era una delle ultime conquiste dell’umanità prima che questa rischiasse di autodistruggersi.

Lawrence era rimasto elettrizzato quando i suoi colleghi gli avevano detto di aver trovato una serie di salti che avrebbe permesso di raggiungere Elpis in tempi ragionevoli. Il viaggio avrebbe richiesto solamente trent’anni, un’inezia per percorrere due milioni e mezzo di anni luce. La colonia sulla nave avrebbe avuto cibo, acqua e ossigeno a sufficienza per sopravvivere e avrebbero potuto stivare abbastanza carburante per la traversata.

Non fu facile allestire i preparativi finali del Progetto Odissea: la nave, per quanto fosse grande, non poteva portare che una piccola frazione dell’umanità superstite. Non tutti coloro che non furono scelti seppero accettare il fatto di essere lasciati indietro. Ci furono rivolte, violenza, tentativi di sabotaggio. Diversi membri dell’equipaggio dovettero dire addio ai loro cari e per quanto cercassero di imbarcare intere giovani famiglie, tutti avevano parenti che venivano lasciati sulla terra. Condannati a morte certa.

Messa a punto la nave e definita la rotta, al momento del lancio Lawrence sedette al fianco del comandante Fitzgerald cercando di non pensare all’ultimo saluto dato ai suoi nonni. Era consapevole di essere stato fortunato, c’era chi aveva dovuto salutare fratelli o genitori. Poi il rombo dei motori e in pochi minuti si trovarono in orbita, così distanti dai loro cari e dal loro mondo. Nonostante fosse stato nello spazio già due volte, Lawrence sentì subito che questa era diversa: stavano partendo per non ritornare.

Il primo punto di salto si trovava a pochi mesi di navigazione e, all’approssimarsi del momento cruciale in cui sarebbe entrato in funzione il motore quantistico, la tensione poteva tagliarsi col coltello. I collaudi erano andati bene ma questa sarebbe stata la prima volta nella storia che una nave spaziale, piena di esseri viventi, avrebbe attraversato l’iperspazio. L’intera plancia trattenne il fiato quando Fitzgerald diede ordine di iniziare l’operazione di salto.

La realtà iniziò a vibrare di fronte ai loro occhi e da un punto imprecisato scaturirono delle increspature concentriche come quando si getta un sasso in uno stagno, solo che lo stagno era la nave con tutti i suoi occupanti. Lawrence osservò le sue mani ondulare al ritmo delle increspature spazio-temporali ma non percepì dolore, poi tutto terminò com’era iniziato. Il passaggio attraverso le dimensioni si era rivelato così armonico e veloce che se non ci avessero fatto particolare attenzione l’avrebbero notato con difficoltà. Si guardò intorno, incredulo che fosse già tutto finito. Dal vetro della plancia non si vedeva altro che lo spazio, i puntini luminosi delle stelle, ovviamente, avevano cambiato posizione dal momento che si erano spostati nello spazio di oltre cinquantamila anni luce. Ridacchiò suo malgrado, dopotutto cosa si era aspettato? Effetti speciali come nei film? Fulmini e scariche di energia? Porte luminose che si aprivano nel bel mezzo dello spazio?

Quando la nave ruotò su sé stessa poterono vedere la Via Lattea in tutto il suo splendore. Lawrence rimase a bocca aperta, erano poco oltre i confini della galassia ma sufficientemente lontani da poterne ammirare la spirale barrata e le due braccia che si avvolgevano intorno al nucleo con grazia logaritmica. Grida di esultanza si levarono dalla plancia e il comandante prese immediatamente l’interfono per dare la bella notizia ai passeggeri. Il motore quantistico funzionava e i punti di salto erano stati calcolati correttamente: potevano farcela.

Lawrence venne colto da un moto di nostalgia mista a tristezza quando vide gli strumenti puntati sulla terra, a cinquantamila anni luce di distanza sembrava così bella, verde e azzurra, così diversa dai deserti acidi che era abituato a conoscere.

«Non era bella?», chiese al comandante.

«Si», rispose Fitzgerald nonostante la domanda fosse retorica.

«Cinquantamila anni vuol dire che la stiamo guardando com’era nel pleistocene».

«Si, verso la fine del pleistocene. Homo sapiens aveva già iniziato a colonizzare il globo», rispose Fitzgerald, poi rise. «C’erano ancora gli stramaledetti mammuth!».

Lawrence sorrise, quanto avrebbe voluto poter ripristinare le antiche condizioni della terra… ma seppur dallo spazio fosse possibile vedere il passato a causa della luce riflessa che impiegava cinquantamila anni a raggiungere la loro attuale posizione, non era possibile cambiare il passato. Si volse verso gli strumenti puntati su Elpis chiedendosi quali sorprese la loro meta avrebbe riservato.

I punti di salto si susseguirono l’un l’altro permettendo loro di percorrere decine di migliaia di anni luce alla volta. Il motore quantistico venne azionato abbastanza da smettere di rappresentare un’attrattiva per il personale di bordo e si destreggiò meravigliosamente tra le molte dimensioni attraverso le quali li fece passare per sfruttare l’iperspazio e il viaggio scorse tranquillo. Lawrence si sposò ed ebbe due figli e, nonostante la vita a bordo fosse abbastanza claustrofobica, iniziò ad abituarsi. Era in ogni caso una vita migliore di quella che avrebbe avuto sulla terra e poteva sperare in un futuro migliore per i suoi figli. Dopo venticinque anni di navigazione giunse il momento in cui subentrò a Fitzegerald. L’anziano astronauta gli lasciò il comando per problemi di salute e quando finalmente mancavano solo un paio d’anni di viaggio, l’ennesimo punto di salto lo portò a poco meno di duemila anni luce da Elpis.

Era da una vita che aspettava di trovarsi in un punto abbastanza vicino da poter studiare la storia più recente del pianeta e quello che vide lo sorprese non poco: c’erano segni di civiltà sulla superficie di Elpis. Immense città, muraglie e strade ne testimoniavano l’esistenza. Fece mente locale, sulla terra duemila anni prima del suo tempo c’erano diverse grandi civiltà, bastava pensare all’impero romano. Che la civiltà si fosse sviluppata su Elpis nello stesso periodo in cui si era sviluppata sulla terra? Quest’ipotesi aveva dell’incredibile, tuttavia non era da escludere e seppure non avesse idea della velocità a cui la cultura su Elpis avrebbe proseguito, dovevano aspettarsi di atterrare su un pianeta popolato da una razza senziente che aveva raggiunto un grado tecnologico.

L’ultimo punto di salto li portò a pochi giorni di viaggio da Elpis e non appena varcarono la piega spazio-temporale furono in grado di vedere il pianeta a occhio nudo oltre lo spesso vetro della plancia. Notarono subito una trasformazione importante del paesaggio: il pianeta non appariva più verde come in precedenza ma sembrava che i deserti fossero aumentati d’estensione e i mari si fossero gonfiati. Metropoli gargantuesche erano ben visibili sulla superficie del pianeta e Lawrence fece far rotta verso uno dei poli dove veniva registrata la maggiore attività termica. Ben presto individuarono quello che sembrava uno spazioporto. A quanto pareva anche questa civiltà aveva scoperto le meraviglie dello spazio. Stando così le cose gli sembrò il punto più adatto dove atterrare.

Poche ore dopo ricevettero un segnale da parte degli autoctoni e una creatura bipede con simmetria bilaterale apparve sullo schermo della plancia. Aveva due gambe e due braccia, una testa comprendente una bocca e un naso, due occhi e due orecchie. Lawrence si sorprese di come la selezione naturale convergente potesse plasmare in modo simile due creature completamente diverse se venivano a trovarsi in un ambiente molto simile. Probabilmente, sotto quelle caratteristiche esterne così simili agli esseri umani, all’interno erano completamente diversi. Sarebbe stato un argomento di studio interessante ma al momento erano tutti tesi per vedere come queste creature si sarebbero approcciate.

La creatura iniziò a parlare in una lingua incomprensibile ma con movenze calme e ampie, sembrava sicuramente più un benvenuto che una minaccia. Poi proiettò una mappa topografica della zona dello spazioporto con una grande area libera evidenziata in verde e la indicò. Lawrence lo interpretò come un invito ad atterrare e replicò con una trasmissione ringraziandoli con i medesimi toni pacati che avevano usato loro per primi e concludendo con un inchino accennato. Diede disposizioni di atterrare sull’area che era stata loro indicata. Le mani gli tremavano all’idea di incontrare una razza aliena. Sarebbe stato il primo uomo nella storia a presentarsi a una creatura di un altro pianeta!

Passati i due giorni di navigazione, la Ulisse iniziò a rallentare preparandosi a entrare nell’atmosfera di Elpis. Lawrence si appuntò mentalmente di scoprire come gli autoctoni si riferissero al loro pianeta, essendo la sede di un popolo intelligente gli sembrava inappropriato che fossero i terrestri a dare un nome al loro mondo. Durante i trenta anni di viaggio, Lawrence da giovane uomo si era fatto maturo e quando, dopo gli ultimi scossoni di assestamento, la Ulisse si fu adagiata al suolo, si passò una mano tra i capelli brizzolati preparandosi mentalmente all’incontro più importante della sua vita.

Il comitato di benvenuto lo attendeva fuori dalla rampa d’uscita della nave, in qualche modo erano riusciti a prevedere l’esatta angolazione con la quale sarebbero atterrati, perché si trovò l’alieno che era apparso in video direttamente di fronte a sé. Fece segno al primo ufficiale di accompagnarlo. La delegazione aliena procedette su un tappeto rosso fino a giungerne il limite dove si fermarono ad aspettare. Quando furono di fronte, l’alieno si pose una mano sul petto.

«Karsim», disse.

Lawrence immaginò fosse il suo nome, allora fece la stessa cosa e pronunciò il proprio. A quel punto l’alieno annuì e fece un gesto allargando le braccia.

«Tarsoom», disse.

Lawrence questa volta non seppe dire se poteva significare qualcosa come “benvenuti” o se fosse il nome del pianeta o altro, ma per ora non aveva importanza. L’alieno vide che non stava replicando quindi fece una cosa che Lawrence non si aspettava: gli porse una mano dotata di quattro dita.

Si diceva che la stretta di mano fosse nata sulla terra in epoca cavalleresca, quando era uso impugnare la spada con la mano destra, per cui era considerato un simbolo di pace. Se questa cultura aliena aveva attraversato una fase della storia in cui si usava combattere all’arma bianca, ed era estremamente probabile, era forse possibile che si fosse sviluppato lo stesso tipo di saluto? Le galassie erano veramente piccole pensò Lawrence con un sorriso. Vide che l’alieno alla destra di quello che aveva parlato prese una specie di tablet e stava facendo partire un filmato. Lawrence decise di agire in anticipo e diede un’energica stretta di mano a Karsim il quale rimase di sasso nel constatare che lo strano uomo venuto dalle stelle avesse riconosciuto il saluto.

Subito dopo essersi riscosso, Karsim sorrise e grida di giubilo si alzarono dalle schiere aliene alle sue spalle. Lawrence sorrise di rimando. Erano stati fortunati a trovare una popolazione di nativi così amichevole.

Il capo degli alieni fece loro cenno di seguirlo e mentre camminava al fianco della delegazione di alieni attraverso lo spazioporto, Lawrence si guardò intorno: stavano lavorando sulla stessa tecnologia che aveva portato loro attraverso l’universo grazie al Progetto Odissea. Prototipi di motori quantistici erano visibili ovunque ed era chiaro che stessero costruendo una nave spaziale di notevoli dimensioni. Ricordando l’aspetto del pianeta dopo essere usciti dall’ultimo punto di salto gli venne una sensazione di déjà-vu che gli fece vacillare le ginocchia. Poteva essere che su questo pianeta, Tarsoom o quale diavolo fosse il suo nome, si stesse ripetendo la stessa storia della terra?

Che fossero semplicemente qualche decennio più indietro?

Quando entrarono nelle prime strutture tutto gli fu chiaro. Vide inquadrato sugli schermi un pianeta. Due milioni e mezzo di anni non erano molti se si parlava di tempi geologici e Lawrence non ebbe difficoltà a riconoscere la forma dei continenti. Erano verdi e floridi com’erano all’inizio del pleistocene quando Homo erectus e Homo habilis avevano appena iniziato a solcare le praterie e mancavano ancora due milioni e trecentomila anni per la comparsa di Homo sapiens. Le immagini arrivavano da quell’epoca, due milioni e mezzo di anni prima, quando la luce riflessa dalla terra era partita in direzione di Elpis e veniva ora captata dai telescopi alieni.

Lawrence si sentì d’un tratto svuotato.
​
Erano tutti condannati.
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