«Incrociatore in ΣC4», disse Calahari con un sorrisetto beffardo. «Scacco Matto!».
L’immenso vixide dall’altra parte del quadrante mulinò le ali emettendo un ronzio come fosse un drone poi si alzò e lasciò la stanza con una serie di fischi e schiocchi.
«Proprio non sa perdere…», commentò Sakeri che aveva assistito alla partita dal divano sorseggiando un infuso. «Dove l’hai rimediato?».
«Allo spazioporto di Etermatos, sul sistema Otipa», disse lei resettando il quadrante di gioco. «Era appena fuggito dalla colonia madre da quanto ho capito, non parla bene la nostra lingua».
«Come si chiama?».
«Kalixy credo, Xakixy», Si umettò le labbra. «Kasixy? Una roba con sonorità molto schioccanti come è solito per i vixidi, me l’ha detto più volte ma non riesco mai a ricordarlo, ormai è diventato troppo imbarazzante per chiederglielo di nuovo…».
Sakeri fece spallucce.
«La cosa importante è che faccia quel che deve».
«Era un guerriero nella colonia madre, sa il fatto suo. Poi, non prevedo scontri per questa missione».
«Quindi… l’hai imbarcato per la sua simpatia?», chiese lui inarcando un sopracciglio, poi sollevò un tentacolo accarezzandosi il mento. «O perché volevi qualcuno che potessi battere a scacchi 3D?».
Calahari sbuffò.
«Non darti troppe arie», si alzò e versò dell’infuso di radice di bruja in due tazze.
«Non me ne do affatto».
«Vedi di sistemare il collettore del secondo motore invece di fare lo spiritoso».
«Agli ordini capitano!», disse Sakeri con un ghigno dirigendosi in sala motori.
Calahari aggiunse dello zucchero alla bevanda verde scuro e mescolò, poi gettò il cucchiaino nel lavandino e prese le tazze con i tentacoli dirigendosi in plancia. Tamiri era di spalle intenta a controllare la strumentazione di bordo.
«Ti riconosco dal passo», disse.
Calahari l’abbracciò da dietro stampandole un bacio sul collo, i loro tentacoli si intrecciarono.
«Ti ho portato la bruja», disse passandola di tentacolo in tentacolo.
«Grazie», disse lei sorseggiando il liquido. «Ho sentito Kalixos che a momenti ribaltava il tavolo».
«Quel gioco non fa per lui».
«È vero… ma ammiro la sua determinazione».
«Non è cero uno che si abbatte di fronte alla sconfitta».
«In compenso si lamenta parecchio».
«È tutta scena, in realtà è tenero dentro quanto il suo esoscheletro è duro fuori», disse passandole le dita tra i capelli. «Come procede la navigazione, abbiamo raggiunto il Grande Mare?».
«Da qualche ora, la radiazione del Vento Galattico sta aumentando».
«Lo scudo reggerà?».
«Non ho ragioni di credere il contrario, ma potremmo subire piccoli guasti».
Quello era inevitabile, Calahari l’aveva messo in conto quando aveva accettato la missione ma non poteva fare a meno di preoccuparsi tutte le volte che doveva portare la Star Flyer a navigare nel Grande Mare.
«Quanto per Galtimor Quattro?».
«Non appena il secondo motore tornerà operativo sarà una questione di poche ore per raggiungere il sistema».
Calahari annuì e bevve l’ultimo sorso d’infuso di bruja assaporandone l’aroma avvolgente e si sedette in braccio alla compagna. La colorazione della loro pelle virò dal consueto blu a sfumature rosa passando da un violetto dissolvendosi in quadri. Adorava il modo in cui Tamiri emetteva delle sfumature verde mare quando cambiava colore, tipico dei nati alla luce della stella Valerion Tar. Le poggiò le mani sulle spalle e le stampò un bacio sulle labbra.
«Capitano», giunse la voce di Sakeri dall’interfono. «Il secondo motore è funzionante».
«Grazie Sakeri», disse lei.
«Interviene sempre nel momento meno opportuno», sussurrò Tamiri sciogliendo l’abbraccio di tentacoli.
«Ogni tanto mi vien voglia di lasciarlo a terra… ma dove lo trovi un altro tuttofare?», disse lei arricciando le labbra, poi prese l’interfono. «A tutto l’equipaggio: allacciate le cinture!».
Partirono a massima potenza inoltrandosi nell’antica galassia da cui la loro specie proveniva e con l’aumentare del sentimento di nostalgia aumentavano anche le radiazioni dovute all’interazione di una serie di buchi neri supermassivi che generavano il vento galattico. Calahari poteva solo sperare che lo scudo che aveva fatto installare riuscisse a prevenire la maggior parte dei danni.
Il pallido sole del sistema verso cui viaggiavano si presentò loro sbucando da un’infinità nera e li irradiò di una luce giallo paglierino.
«Prepararsi all’atterraggio».
L’impatto con l’atmosfera di Galtimor Quattro fece tremare la Star Flyer. Calahari afferrò i braccioli e serrò la mascella ma ben presto la discesa si stabilizzò e la nave tornò a muoversi fluidamente.
«Le coordinate indicano di raggiungere una città più a nord», disse Tamiri. «Ci vorranno pochi minuti».
Calahari osservò il terreno bruno-arancione mentre lo sorvolavano, probabilmente secoli addietro doveva essere stata una pianura verdeggiante striata da fiumi e costellata di alberi, ma i secoli, molti secoli di esposizione alle radiazioni del Vento Galattico non erano stati clementi e il suolo era talmente secco che si spaccava e non c’era traccia di vita a perdita d’occhio.
Un enorme complesso di palazzi apparve all’orizzonte e iniziarono a scorgere edifici diroccati ingrigiti dal tempo, l’intonaco non era nemmeno più visibile e l’erosione del vento aveva smussato gli angoli della muratura e trasformato in sabbia qualsiasi cosa fosse stata lasciata all’aperto.
Atterrarono in una delle piazze principali della città e, una volta che ebbero indossato le tute protettive, Tamari abbassò il ponte della nave.
Calahari solcò la rampa a passo sicuro guidando il gruppo. Una folata di vento l’avvolse portando con sé granelli finissimi di sabbia ocra. Il sole paglierino batteva sulle rovine disabitate e poté sentirne il calore attraverso la tuta antiradiazioni. Diede un’occhiata al radar che portava sull’avambraccio e vide che la loro destinazione era letteralmente dinnanzi a loro: ciò che cercavano doveva trovarsi nell’immenso edificio che, da solo, occupava un intero lato della piazza.
«Doveva essere stato un museo durante l’Era del Grande Mare», disse incamminandosi sulla scalinata.
Gli altri la seguirono scandagliando il territorio circostante con la fronte corrucciata e i fucili spianati ma intorno a loro v’era solo cemento, niente oltre alla sabbia e al vento osava alzarsi nella calma pomeridiana.
«Galtimor Quattro è uno dei pianeti su cui hanno riportato presenza di creature?», chiese Sakeri.
«Non ho trovato dati a riguardo», rispose Calahari. «Il sistema Otipa non è frequentato da molti recuperatori, potremmo essere i primi a mettere piede su questo pianeta».
«Non è un no…».
«Nemmeno un sì».
«Cosa mi frega se non è un sì? Non è un no!».
«Beh perlomeno non è un sì».
«Che è anche peggio! Odio rimanere nel dubbio».
«Per questo ho portato Kasisox».
«Per delucidare i dubbi?».
«No. Nel caso fosse un sì».
Le pareti del museo erano abbellite da numerosi bassorilievi ormai indecifrabili e le vetrate erano graffiate e opache di polvere. L’ingresso era abbastanza ampio da permettere a tutti e quattro di entrare agevolmente uno in fianco all’altro e alto tre volte tanto. Calahari si sentì piccolissima osservandolo dal basso e le sembrò di mettere piede in un posto riservato a un popolo di giganti.
L’atrio era spoglio, abbandonato come il resto del pianeta. C’erano scalinate che salivano sia sulla sinistra che sulla destra. Calahari fece spallucce e prese una direzione a caso salendo quelle di destra. Una grande quantità di polvere si era accumulata sui gradini nel corso dei secoli e lievi sbuffi si alzavano ad ogni passo. Giunsero in una sala dalle molte teche, il legno che le componeva era consunto tanto che alcune giacevano a terra spezzate e il vetro era infranto al suolo, quelle ancora integre contenevano delle statuine in marmo, rame e bronzo ma le scritte sulle targhe erano troppo sbiadite per essere leggibili e i pezzi d’arte rimanevano avvolti dal mistero.
Sakeri infranse i vetri col calcio del fucile spezzando il silenzio e iniziò a mettere tutte le piccole opere in una borsa.
A ogni angolo, su ampi piedistalli, riposavano sculture in marmo dai molti colori e dalle forme sinuose che Calahari non avrebbe saputo dire cosa potessero rappresentare, l’unica cosa che contava era che erano troppo pesanti da portare via. Oltrepassarono la sala ed entrarono nella successiva.
«Ora sì che ci siamo!», esclamò Tamiri.
Circondati da cornici dorate, una serie di quadri adornava le pareti distanziati l’uno dall’altro quanto bastava per valorizzare la loro unicità in modo che la contemplazione di ciascuno non fosse turbata dagli altri.
I dipinti avevano perso parecchio del loro antico splendore, la superficie della tempera era opaca quando andava bene e scrostata nei casi peggiori, soprattutto quando la tela si trovava di fronte alle finestre ed era esposta direttamente al vento galattico.
Le immagini ritraevano uomini e donne intenti nelle normali attività quotidiane di un tempo ormai dimenticato. Calahari si avvicinò al primo: raffigurava un giorno di mercato, una moltitudine di persone camminavano ammirando le bancarelle di vestiti e pigmenti, un uomo stava contrattando sul prezzo col mercante di spezie ed entrambi avevano una colorazione purpurea che ne accentuava la veemenza della discussione. In quello successivo era ritratta una madre con suo figlio nell’atto di lavarlo in un catino d’acqua, il colorito della pelle di lei era un misto d’azzurro e rosa esaltandone le pose morbide e rilassate. Il terzo era il ritratto di un condottiero del passato, era parzialmente scrostato ma si poteva intuire che era stato rappresentato con l’armatura, teneva l’elmo sotto al braccio e con l’altra mano impugnava la spada. I tentacoli scendevano dritti dal mento per poi attorcigliarsi a mo’ di boccoli sul finale richiamando i capelli bruni e ognuno era impreziosito con un anello d’oro o d’argento. La pelle di un colorito blu profondo era screziata d’arancione ma la trama precisa era andata persa a causa dell’erosione.
«Prendiamoli tutti», disse Calahari staccandolo dalla parete. «Anche quelli più danneggiati».
Lo rivoltò, ruotò i dentelli della cornice e sfilò il dipinto dal suo interno avvolgendolo su sé stesso e infilandolo in un tubo portadisegni.
I tre lavorarono in fretta con movimenti precisi mentre l’imponente insettoide scrutava le porte con il fucile pronto a ogni evenienza. Si spostarono così di stanza in stanza finché non ebbero preso tutti i dipinti, avevano completato il giro del museo e si stavano preparando a partire quando l’insettoide scattò portando il fucile in posizione.
«Minaccia…», riuscì a dire. «Atrio…».
Sentirono come un fruscio di qualcosa che si trascinava sulle piastrelle e una creatura apparve alla loro vista, sembrava un camaride ma era più grosso di loro e muoveva gli arti come fosse ingombrato da qualcosa al di sotto dei vestiti. Dove la pelle era visibile la carne si presentava come rimescolata e ricca di pustole rossastre.
«Carne…», gorgogliò.
«Stai indietro», intimò Calahari imbracciando il fucile.
«Non sembrano gli abomini descritti su altri pianeti del Grande Mare», disse Tamiri.
La creatura avanzò gobba sotto il peso di una struttura metallica che copriva l’intera schiena e affondava nella carne con tubi e circuiti, la superficie era piatta e scura come fossero dei pannelli solari.
«Non è possibile…», mormorò Sakeri. «Non possono esserci sopravvissuti».
«Carne…», una seconda creatura apparve in cima alle scale.
«Credi che siano camaridi?», chiese Calahari.
«I pannelli innestati sono rivelatori, i nostri avi avevano adottato un sistema del tutto simile per sopravvivere all’Era del Vento Galattico».
«Ma come? Come hanno fatto a sopravvivere finora nel Grande Mare?».
«Carne…», disse una terza creatura affacciandosi.
A differenza delle altre puntava loro una pistola ma l’insettoide fu più veloce. Con un frastuono che rimbombò nelle sale del museo il colpo spezzò in due la creatura schizzando sangue nerastro sulle pareti bianche.
«Basta parlare…», disse l’insettoide e sparò anche agli altri due abomini riempiendo il pavimento di sangue. Le pustole esplosero schizzando in aria un fluido rosa-arancione. «Andiamo».
Calahari represse un conato cercando di ignorare il fluido limaccioso che scorreva sulle piastrelle diffondendo un tanfo mefitico e annuì. Diversi abomini si erano radunati nella piazza e tentavano con mosse goffe di salire le scale del museo.
«Qualcosa deve averli attirati», disse Tamiri. «Forse l’energia della Star Flyer».
«O forse il nostro odore», disse Sakeri. «Volevano mangiarci…».
«Chissenefrega…», li zittì l’insettoide. «Andiamo!».
Si mossero più in fretta che poterono, ingombrati dai tubi portadisegni e dal peso dei dipinti, abbattendo a colpi di fucile tutti gli abomini che si avvicinavano troppo o che si dimostravano armati.
Quando arrivarono in prossimità della nave, Calahari premette un comando sul bracciale e la rampa si adagiò a terra.
«Temevo peggio», disse salendo seguita dagli altri. «Abbandoniamo questo pianeta».
Tamiri annuì e senza farselo ripetere due volte si lanciò verso la plancia.
In meno di un minuto stavano lasciando l’orbita dirigendosi verso il confine della galassia.
Quello che avevano scoperto avrebbe fatto scalpore, molto più dei pezzi d’arte recuperati.
L’immenso vixide dall’altra parte del quadrante mulinò le ali emettendo un ronzio come fosse un drone poi si alzò e lasciò la stanza con una serie di fischi e schiocchi.
«Proprio non sa perdere…», commentò Sakeri che aveva assistito alla partita dal divano sorseggiando un infuso. «Dove l’hai rimediato?».
«Allo spazioporto di Etermatos, sul sistema Otipa», disse lei resettando il quadrante di gioco. «Era appena fuggito dalla colonia madre da quanto ho capito, non parla bene la nostra lingua».
«Come si chiama?».
«Kalixy credo, Xakixy», Si umettò le labbra. «Kasixy? Una roba con sonorità molto schioccanti come è solito per i vixidi, me l’ha detto più volte ma non riesco mai a ricordarlo, ormai è diventato troppo imbarazzante per chiederglielo di nuovo…».
Sakeri fece spallucce.
«La cosa importante è che faccia quel che deve».
«Era un guerriero nella colonia madre, sa il fatto suo. Poi, non prevedo scontri per questa missione».
«Quindi… l’hai imbarcato per la sua simpatia?», chiese lui inarcando un sopracciglio, poi sollevò un tentacolo accarezzandosi il mento. «O perché volevi qualcuno che potessi battere a scacchi 3D?».
Calahari sbuffò.
«Non darti troppe arie», si alzò e versò dell’infuso di radice di bruja in due tazze.
«Non me ne do affatto».
«Vedi di sistemare il collettore del secondo motore invece di fare lo spiritoso».
«Agli ordini capitano!», disse Sakeri con un ghigno dirigendosi in sala motori.
Calahari aggiunse dello zucchero alla bevanda verde scuro e mescolò, poi gettò il cucchiaino nel lavandino e prese le tazze con i tentacoli dirigendosi in plancia. Tamiri era di spalle intenta a controllare la strumentazione di bordo.
«Ti riconosco dal passo», disse.
Calahari l’abbracciò da dietro stampandole un bacio sul collo, i loro tentacoli si intrecciarono.
«Ti ho portato la bruja», disse passandola di tentacolo in tentacolo.
«Grazie», disse lei sorseggiando il liquido. «Ho sentito Kalixos che a momenti ribaltava il tavolo».
«Quel gioco non fa per lui».
«È vero… ma ammiro la sua determinazione».
«Non è cero uno che si abbatte di fronte alla sconfitta».
«In compenso si lamenta parecchio».
«È tutta scena, in realtà è tenero dentro quanto il suo esoscheletro è duro fuori», disse passandole le dita tra i capelli. «Come procede la navigazione, abbiamo raggiunto il Grande Mare?».
«Da qualche ora, la radiazione del Vento Galattico sta aumentando».
«Lo scudo reggerà?».
«Non ho ragioni di credere il contrario, ma potremmo subire piccoli guasti».
Quello era inevitabile, Calahari l’aveva messo in conto quando aveva accettato la missione ma non poteva fare a meno di preoccuparsi tutte le volte che doveva portare la Star Flyer a navigare nel Grande Mare.
«Quanto per Galtimor Quattro?».
«Non appena il secondo motore tornerà operativo sarà una questione di poche ore per raggiungere il sistema».
Calahari annuì e bevve l’ultimo sorso d’infuso di bruja assaporandone l’aroma avvolgente e si sedette in braccio alla compagna. La colorazione della loro pelle virò dal consueto blu a sfumature rosa passando da un violetto dissolvendosi in quadri. Adorava il modo in cui Tamiri emetteva delle sfumature verde mare quando cambiava colore, tipico dei nati alla luce della stella Valerion Tar. Le poggiò le mani sulle spalle e le stampò un bacio sulle labbra.
«Capitano», giunse la voce di Sakeri dall’interfono. «Il secondo motore è funzionante».
«Grazie Sakeri», disse lei.
«Interviene sempre nel momento meno opportuno», sussurrò Tamiri sciogliendo l’abbraccio di tentacoli.
«Ogni tanto mi vien voglia di lasciarlo a terra… ma dove lo trovi un altro tuttofare?», disse lei arricciando le labbra, poi prese l’interfono. «A tutto l’equipaggio: allacciate le cinture!».
Partirono a massima potenza inoltrandosi nell’antica galassia da cui la loro specie proveniva e con l’aumentare del sentimento di nostalgia aumentavano anche le radiazioni dovute all’interazione di una serie di buchi neri supermassivi che generavano il vento galattico. Calahari poteva solo sperare che lo scudo che aveva fatto installare riuscisse a prevenire la maggior parte dei danni.
Il pallido sole del sistema verso cui viaggiavano si presentò loro sbucando da un’infinità nera e li irradiò di una luce giallo paglierino.
«Prepararsi all’atterraggio».
L’impatto con l’atmosfera di Galtimor Quattro fece tremare la Star Flyer. Calahari afferrò i braccioli e serrò la mascella ma ben presto la discesa si stabilizzò e la nave tornò a muoversi fluidamente.
«Le coordinate indicano di raggiungere una città più a nord», disse Tamiri. «Ci vorranno pochi minuti».
Calahari osservò il terreno bruno-arancione mentre lo sorvolavano, probabilmente secoli addietro doveva essere stata una pianura verdeggiante striata da fiumi e costellata di alberi, ma i secoli, molti secoli di esposizione alle radiazioni del Vento Galattico non erano stati clementi e il suolo era talmente secco che si spaccava e non c’era traccia di vita a perdita d’occhio.
Un enorme complesso di palazzi apparve all’orizzonte e iniziarono a scorgere edifici diroccati ingrigiti dal tempo, l’intonaco non era nemmeno più visibile e l’erosione del vento aveva smussato gli angoli della muratura e trasformato in sabbia qualsiasi cosa fosse stata lasciata all’aperto.
Atterrarono in una delle piazze principali della città e, una volta che ebbero indossato le tute protettive, Tamari abbassò il ponte della nave.
Calahari solcò la rampa a passo sicuro guidando il gruppo. Una folata di vento l’avvolse portando con sé granelli finissimi di sabbia ocra. Il sole paglierino batteva sulle rovine disabitate e poté sentirne il calore attraverso la tuta antiradiazioni. Diede un’occhiata al radar che portava sull’avambraccio e vide che la loro destinazione era letteralmente dinnanzi a loro: ciò che cercavano doveva trovarsi nell’immenso edificio che, da solo, occupava un intero lato della piazza.
«Doveva essere stato un museo durante l’Era del Grande Mare», disse incamminandosi sulla scalinata.
Gli altri la seguirono scandagliando il territorio circostante con la fronte corrucciata e i fucili spianati ma intorno a loro v’era solo cemento, niente oltre alla sabbia e al vento osava alzarsi nella calma pomeridiana.
«Galtimor Quattro è uno dei pianeti su cui hanno riportato presenza di creature?», chiese Sakeri.
«Non ho trovato dati a riguardo», rispose Calahari. «Il sistema Otipa non è frequentato da molti recuperatori, potremmo essere i primi a mettere piede su questo pianeta».
«Non è un no…».
«Nemmeno un sì».
«Cosa mi frega se non è un sì? Non è un no!».
«Beh perlomeno non è un sì».
«Che è anche peggio! Odio rimanere nel dubbio».
«Per questo ho portato Kasisox».
«Per delucidare i dubbi?».
«No. Nel caso fosse un sì».
Le pareti del museo erano abbellite da numerosi bassorilievi ormai indecifrabili e le vetrate erano graffiate e opache di polvere. L’ingresso era abbastanza ampio da permettere a tutti e quattro di entrare agevolmente uno in fianco all’altro e alto tre volte tanto. Calahari si sentì piccolissima osservandolo dal basso e le sembrò di mettere piede in un posto riservato a un popolo di giganti.
L’atrio era spoglio, abbandonato come il resto del pianeta. C’erano scalinate che salivano sia sulla sinistra che sulla destra. Calahari fece spallucce e prese una direzione a caso salendo quelle di destra. Una grande quantità di polvere si era accumulata sui gradini nel corso dei secoli e lievi sbuffi si alzavano ad ogni passo. Giunsero in una sala dalle molte teche, il legno che le componeva era consunto tanto che alcune giacevano a terra spezzate e il vetro era infranto al suolo, quelle ancora integre contenevano delle statuine in marmo, rame e bronzo ma le scritte sulle targhe erano troppo sbiadite per essere leggibili e i pezzi d’arte rimanevano avvolti dal mistero.
Sakeri infranse i vetri col calcio del fucile spezzando il silenzio e iniziò a mettere tutte le piccole opere in una borsa.
A ogni angolo, su ampi piedistalli, riposavano sculture in marmo dai molti colori e dalle forme sinuose che Calahari non avrebbe saputo dire cosa potessero rappresentare, l’unica cosa che contava era che erano troppo pesanti da portare via. Oltrepassarono la sala ed entrarono nella successiva.
«Ora sì che ci siamo!», esclamò Tamiri.
Circondati da cornici dorate, una serie di quadri adornava le pareti distanziati l’uno dall’altro quanto bastava per valorizzare la loro unicità in modo che la contemplazione di ciascuno non fosse turbata dagli altri.
I dipinti avevano perso parecchio del loro antico splendore, la superficie della tempera era opaca quando andava bene e scrostata nei casi peggiori, soprattutto quando la tela si trovava di fronte alle finestre ed era esposta direttamente al vento galattico.
Le immagini ritraevano uomini e donne intenti nelle normali attività quotidiane di un tempo ormai dimenticato. Calahari si avvicinò al primo: raffigurava un giorno di mercato, una moltitudine di persone camminavano ammirando le bancarelle di vestiti e pigmenti, un uomo stava contrattando sul prezzo col mercante di spezie ed entrambi avevano una colorazione purpurea che ne accentuava la veemenza della discussione. In quello successivo era ritratta una madre con suo figlio nell’atto di lavarlo in un catino d’acqua, il colorito della pelle di lei era un misto d’azzurro e rosa esaltandone le pose morbide e rilassate. Il terzo era il ritratto di un condottiero del passato, era parzialmente scrostato ma si poteva intuire che era stato rappresentato con l’armatura, teneva l’elmo sotto al braccio e con l’altra mano impugnava la spada. I tentacoli scendevano dritti dal mento per poi attorcigliarsi a mo’ di boccoli sul finale richiamando i capelli bruni e ognuno era impreziosito con un anello d’oro o d’argento. La pelle di un colorito blu profondo era screziata d’arancione ma la trama precisa era andata persa a causa dell’erosione.
«Prendiamoli tutti», disse Calahari staccandolo dalla parete. «Anche quelli più danneggiati».
Lo rivoltò, ruotò i dentelli della cornice e sfilò il dipinto dal suo interno avvolgendolo su sé stesso e infilandolo in un tubo portadisegni.
I tre lavorarono in fretta con movimenti precisi mentre l’imponente insettoide scrutava le porte con il fucile pronto a ogni evenienza. Si spostarono così di stanza in stanza finché non ebbero preso tutti i dipinti, avevano completato il giro del museo e si stavano preparando a partire quando l’insettoide scattò portando il fucile in posizione.
«Minaccia…», riuscì a dire. «Atrio…».
Sentirono come un fruscio di qualcosa che si trascinava sulle piastrelle e una creatura apparve alla loro vista, sembrava un camaride ma era più grosso di loro e muoveva gli arti come fosse ingombrato da qualcosa al di sotto dei vestiti. Dove la pelle era visibile la carne si presentava come rimescolata e ricca di pustole rossastre.
«Carne…», gorgogliò.
«Stai indietro», intimò Calahari imbracciando il fucile.
«Non sembrano gli abomini descritti su altri pianeti del Grande Mare», disse Tamiri.
La creatura avanzò gobba sotto il peso di una struttura metallica che copriva l’intera schiena e affondava nella carne con tubi e circuiti, la superficie era piatta e scura come fossero dei pannelli solari.
«Non è possibile…», mormorò Sakeri. «Non possono esserci sopravvissuti».
«Carne…», una seconda creatura apparve in cima alle scale.
«Credi che siano camaridi?», chiese Calahari.
«I pannelli innestati sono rivelatori, i nostri avi avevano adottato un sistema del tutto simile per sopravvivere all’Era del Vento Galattico».
«Ma come? Come hanno fatto a sopravvivere finora nel Grande Mare?».
«Carne…», disse una terza creatura affacciandosi.
A differenza delle altre puntava loro una pistola ma l’insettoide fu più veloce. Con un frastuono che rimbombò nelle sale del museo il colpo spezzò in due la creatura schizzando sangue nerastro sulle pareti bianche.
«Basta parlare…», disse l’insettoide e sparò anche agli altri due abomini riempiendo il pavimento di sangue. Le pustole esplosero schizzando in aria un fluido rosa-arancione. «Andiamo».
Calahari represse un conato cercando di ignorare il fluido limaccioso che scorreva sulle piastrelle diffondendo un tanfo mefitico e annuì. Diversi abomini si erano radunati nella piazza e tentavano con mosse goffe di salire le scale del museo.
«Qualcosa deve averli attirati», disse Tamiri. «Forse l’energia della Star Flyer».
«O forse il nostro odore», disse Sakeri. «Volevano mangiarci…».
«Chissenefrega…», li zittì l’insettoide. «Andiamo!».
Si mossero più in fretta che poterono, ingombrati dai tubi portadisegni e dal peso dei dipinti, abbattendo a colpi di fucile tutti gli abomini che si avvicinavano troppo o che si dimostravano armati.
Quando arrivarono in prossimità della nave, Calahari premette un comando sul bracciale e la rampa si adagiò a terra.
«Temevo peggio», disse salendo seguita dagli altri. «Abbandoniamo questo pianeta».
Tamiri annuì e senza farselo ripetere due volte si lanciò verso la plancia.
In meno di un minuto stavano lasciando l’orbita dirigendosi verso il confine della galassia.
Quello che avevano scoperto avrebbe fatto scalpore, molto più dei pezzi d’arte recuperati.