Genere: Fantascienza, Distopico, Drammatico, Introspettivo.
1° libro della serie antologica Il Viaggio dell'Endeavour
Premiato in Concorsi Letterari Internazionali
Giovane Holden 15° Edizione – Premio Speciale della Giuria Vinceremo le Malattie Gravi 8° Edizione – 3° Classificato InediTO - Colline di Torino 20° Edizione – Finalista “Con l’onore del comando arriva anche l’onere delle scelte difficili."
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"Un viaggio di millecentosettantun anni e trentanove anni luce. Un viaggio che non avremmo dovuto percorrere da svegli."
La nave spaziale Endeavour e il suo equipaggio sono stati inviati in un viaggio millenario per terraformare e colonizzare un pianeta del sistema TRAPPIST-1. Tuttavia, un guasto ha provocato il risveglio dal sonno criogenico di metà dei passeggeri dopo soli pochi decenni dalla partenza. Andrew prende il comando nella nave per gli ultimi trent’anni del tragitto, sentendo il dovere di testimoniare, per le generazioni future, le condizioni di vita che l’equipaggio ha dovuto affrontare, una generazione dopo l’altra, per sopravvivere a questa odissea.
Trigger Warnings: violenza, riferimenti al suicidio.
leggi i primi 4 capitoli
30 dicembre 3609
Endeavour
Diario del Capitano Cook
Diario del Capitano Cook
Scrive il Capitano Andrew Barclay Cook.
Ho preso il comando dell’Endeavour ricevendo il testimone dalle mani del mio predecessore, il Capitano Dylan Edwards, ora avviato al riciclo come previsto dalla legge. Durante la cerimonia sono state stappate due bottiglie di vino e si è vista addirittura della carne. Nemmeno ricordo l’ultima volta che l’avevo gustata.
Ho raggiunto il sogno di una vita. Eppure, è trascorsa solo una notte e già sento il peso della responsabilità gravarmi sulle spalle. Con l’onore del comando arriva l’onere delle scelte difficili. Come tutti i precedenti capitani, fin dal Risveglio, sarò chiamato a farne. Alcune saranno terribili, ne sono consapevole. Arriveranno come spettri a distruggere anche il più bello dei sogni. Tuttavia, sono deciso a farmi carico di questa incombenza per il bene dell’equipaggio e dell’umanità intera. La missione è più importante di ciascuno di noi e ha priorità su tutto.
Mi vengono i brividi nel pensare che Elpis dista ormai solo trent’anni. Ne avrò cinquantotto quando l’avremo raggiunta e, con un po’ di fortuna, sarò ancora vivo e in grado di comandare l’atterraggio. Un momento storico che attendiamo da oltre un millennio. Un momento che i più vivono come un traguardo e di certo hanno ragione, ma allo stesso tempo determinerà una nuova grande sfida per l’umanità, nonché l’inizio della vera missione: terraformare Elpis.
Questo ci porta alla ragione principale del diario che stringete tra le mani. Se la storia ci ha insegnato qualcosa è che le persone hanno la memoria corta e tendono a dimenticare in fretta il passato e le ragioni che li hanno condotti dove ora si trovano. Essendo l’ultimo Capitano a condurre l’Endeavour attraverso la nera vastità dello spazio, sento un dovere ulteriore rispetto ai miei predecessori: testimoniare ciò che è stata questa odissea per TRAPPIST-1 e fare in modo che le generazioni future non dimentichino quelle passate che hanno versato sangue, sudore e lacrime per realizzare quest’impresa.
Una silenziosa testimonianza di memorie.
Ho preso il comando dell’Endeavour ricevendo il testimone dalle mani del mio predecessore, il Capitano Dylan Edwards, ora avviato al riciclo come previsto dalla legge. Durante la cerimonia sono state stappate due bottiglie di vino e si è vista addirittura della carne. Nemmeno ricordo l’ultima volta che l’avevo gustata.
Ho raggiunto il sogno di una vita. Eppure, è trascorsa solo una notte e già sento il peso della responsabilità gravarmi sulle spalle. Con l’onore del comando arriva l’onere delle scelte difficili. Come tutti i precedenti capitani, fin dal Risveglio, sarò chiamato a farne. Alcune saranno terribili, ne sono consapevole. Arriveranno come spettri a distruggere anche il più bello dei sogni. Tuttavia, sono deciso a farmi carico di questa incombenza per il bene dell’equipaggio e dell’umanità intera. La missione è più importante di ciascuno di noi e ha priorità su tutto.
Mi vengono i brividi nel pensare che Elpis dista ormai solo trent’anni. Ne avrò cinquantotto quando l’avremo raggiunta e, con un po’ di fortuna, sarò ancora vivo e in grado di comandare l’atterraggio. Un momento storico che attendiamo da oltre un millennio. Un momento che i più vivono come un traguardo e di certo hanno ragione, ma allo stesso tempo determinerà una nuova grande sfida per l’umanità, nonché l’inizio della vera missione: terraformare Elpis.
Questo ci porta alla ragione principale del diario che stringete tra le mani. Se la storia ci ha insegnato qualcosa è che le persone hanno la memoria corta e tendono a dimenticare in fretta il passato e le ragioni che li hanno condotti dove ora si trovano. Essendo l’ultimo Capitano a condurre l’Endeavour attraverso la nera vastità dello spazio, sento un dovere ulteriore rispetto ai miei predecessori: testimoniare ciò che è stata questa odissea per TRAPPIST-1 e fare in modo che le generazioni future non dimentichino quelle passate che hanno versato sangue, sudore e lacrime per realizzare quest’impresa.
Una silenziosa testimonianza di memorie.
6 gennaio 3610
Endeavour
Diario del Capitano Cook
Diario del Capitano Cook
Mi rendo conto solo ora di non aver scritto di come tutto ebbe inizio. Sono certo che sarà materia di studio su Elpis come lo è sull’Endeavour e molti concetti saranno noti anche ai lettori più giovani. Tuttavia, non è possibile raccontare questa storia senza partire dall’inizio: è fondamentale conoscere la catena di eventi che ci ha portati a questo punto per evitare di commettere gli stessi errori in futuro.
Il viaggio dell’Endeavour ebbe inizio nell’anno 2468, una data che noi tutti ricordiamo con un misto di invidia, amarezza e allo stesso tempo, indifferenza. A voi che vivete su Elpis potrebbe sembrare strano un tale misto di emozioni ma dovete capire che nessuno di noi ha mai calpestato il suolo di un pianeta né ha mai conosciuto il tocco dell’erba, il soffio del vento, il profumo dei fiori e della resina. Sappiamo solo cosa significa il freddo stridio del metallo e l’infinita vacuità dello spazio. In definitiva, anche se non ci piace ammetterlo, disprezziamo coloro che vissero sulla Terra invidiandoli al tempo stesso.
Tutto ciò che so del Pianeta Azzurro l’ho letto sull’enciclopedia virtuale della nave, fonte dell’unico sapere che ci è concesso apprendere e coltivare durante la grama esistenza a cui siamo costretti. Libri e documentari hanno il loro fascino ma sono un sistema troppo distaccato per scoprire il proprio pianeta natale. Voi che leggete questo diario, a seconda di quanto nel futuro vi troviate, potreste conoscere la Terra meglio di me: il programma Endeavour prevedeva il lancio di una nave ogni cinquanta anni dopo la nostra partenza. Le prime missioni, come la nostra, porteranno prevalentemente materiali necessari al processo di terraformazione ma più avanti ci sarà spazio per altro. Chissà cosa trasporteranno dalla Terra… piante? Animali? Chissà quali meraviglie sono in viaggio mentre scrivo. Meraviglie che per sessanta generazioni ci sono state negate. Non posso che provare rabbia nel pensare al motivo che ci ha costretti sull’Endeavour. Anche scrivendo queste poche righe stringo la penna con forza tale da far sbiancare le nocche. È giusto per chi studia la storia col senno di poi condannare gli antenati per i loro errori? Saremmo riusciti a prevenire il disastro se fossimo stati al loro posto? Forse, pensare che saremmo stati migliori vorrebbe dire peccare di presunzione… non siamo forse migliori proprio grazie al fatto di aver potuto imparare dai loro sbagli?
Diversa però è la negazione delle responsabilità. Se da centinaia di anni il pianeta versava in condizioni critiche a livello ecologico e climatico, poteva l’umanità davvero dirsi senza colpe? Poteva una specie tecnologicamente avanzata come lo eravamo noi, in grado di fare previsioni di un futuro anche lontano, essere colta alla sprovvista da un mutamento tanto lento? O forse è proprio a causa di questa impercettibile gradualità che è passato inosservato?
Fatto sta che il punto di non ritorno climatico, causato dai gas serra, venne raggiunto. L’umanità, sorda agli avvertimenti, si diresse a testa alta verso la catastrofe… per poi rinsavire, com’è tipico, quand’era ormai troppo tardi e la tendenza non poteva più essere invertita.
“Prevenire è meglio che curare” dice un antico adagio… e allora per quale motivo l’umanità sembra non riuscire a imparare la lezione? È così difficile per le persone comprendere ciò che esula dal quotidiano? Rendersi conto degli effetti a lungo termine delle proprie azioni? Eppure i segnali c’erano e vennero colti dai più attenti. Gli scienziati lo fecero notare, ce n’è chiara traccia nei documenti a noi pervenuti: il problema era sentito già negli anni duemila. La scienza produceva forse un sentimento di diffidenza nella gente comune a quei tempi? O forse, una dolce bugia era preferita a una scomoda verità? Troppo accecati dalla ricerca del benessere, non si accorsero o non vollero accorgersi di star consumando le risorse naturali della Terra come un incendio consuma una foresta…
A noi non rimane molta voce in capitolo, quel che è fatto è fatto. Possiamo solo disporre del tempo che ci rimane e prendere le decisioni che ci spettano nella maniera più saggia possibile, imparando dalle dure lezioni della storia in modo da evitare di commettere nel futuro gli stessi errori del passato.
Quando leggerete questo diario io sarò morto o perlomeno sarò vecchio e malato, prossimo al riciclo. Vi esorto fin da ora, non potendolo fare di persona, a ricordare i sacrifici fatti dall’equipaggio dell’Endeavour per portarvi su Elpis.
Il viaggio dell’Endeavour ebbe inizio nell’anno 2468, una data che noi tutti ricordiamo con un misto di invidia, amarezza e allo stesso tempo, indifferenza. A voi che vivete su Elpis potrebbe sembrare strano un tale misto di emozioni ma dovete capire che nessuno di noi ha mai calpestato il suolo di un pianeta né ha mai conosciuto il tocco dell’erba, il soffio del vento, il profumo dei fiori e della resina. Sappiamo solo cosa significa il freddo stridio del metallo e l’infinita vacuità dello spazio. In definitiva, anche se non ci piace ammetterlo, disprezziamo coloro che vissero sulla Terra invidiandoli al tempo stesso.
Tutto ciò che so del Pianeta Azzurro l’ho letto sull’enciclopedia virtuale della nave, fonte dell’unico sapere che ci è concesso apprendere e coltivare durante la grama esistenza a cui siamo costretti. Libri e documentari hanno il loro fascino ma sono un sistema troppo distaccato per scoprire il proprio pianeta natale. Voi che leggete questo diario, a seconda di quanto nel futuro vi troviate, potreste conoscere la Terra meglio di me: il programma Endeavour prevedeva il lancio di una nave ogni cinquanta anni dopo la nostra partenza. Le prime missioni, come la nostra, porteranno prevalentemente materiali necessari al processo di terraformazione ma più avanti ci sarà spazio per altro. Chissà cosa trasporteranno dalla Terra… piante? Animali? Chissà quali meraviglie sono in viaggio mentre scrivo. Meraviglie che per sessanta generazioni ci sono state negate. Non posso che provare rabbia nel pensare al motivo che ci ha costretti sull’Endeavour. Anche scrivendo queste poche righe stringo la penna con forza tale da far sbiancare le nocche. È giusto per chi studia la storia col senno di poi condannare gli antenati per i loro errori? Saremmo riusciti a prevenire il disastro se fossimo stati al loro posto? Forse, pensare che saremmo stati migliori vorrebbe dire peccare di presunzione… non siamo forse migliori proprio grazie al fatto di aver potuto imparare dai loro sbagli?
Diversa però è la negazione delle responsabilità. Se da centinaia di anni il pianeta versava in condizioni critiche a livello ecologico e climatico, poteva l’umanità davvero dirsi senza colpe? Poteva una specie tecnologicamente avanzata come lo eravamo noi, in grado di fare previsioni di un futuro anche lontano, essere colta alla sprovvista da un mutamento tanto lento? O forse è proprio a causa di questa impercettibile gradualità che è passato inosservato?
Fatto sta che il punto di non ritorno climatico, causato dai gas serra, venne raggiunto. L’umanità, sorda agli avvertimenti, si diresse a testa alta verso la catastrofe… per poi rinsavire, com’è tipico, quand’era ormai troppo tardi e la tendenza non poteva più essere invertita.
“Prevenire è meglio che curare” dice un antico adagio… e allora per quale motivo l’umanità sembra non riuscire a imparare la lezione? È così difficile per le persone comprendere ciò che esula dal quotidiano? Rendersi conto degli effetti a lungo termine delle proprie azioni? Eppure i segnali c’erano e vennero colti dai più attenti. Gli scienziati lo fecero notare, ce n’è chiara traccia nei documenti a noi pervenuti: il problema era sentito già negli anni duemila. La scienza produceva forse un sentimento di diffidenza nella gente comune a quei tempi? O forse, una dolce bugia era preferita a una scomoda verità? Troppo accecati dalla ricerca del benessere, non si accorsero o non vollero accorgersi di star consumando le risorse naturali della Terra come un incendio consuma una foresta…
A noi non rimane molta voce in capitolo, quel che è fatto è fatto. Possiamo solo disporre del tempo che ci rimane e prendere le decisioni che ci spettano nella maniera più saggia possibile, imparando dalle dure lezioni della storia in modo da evitare di commettere nel futuro gli stessi errori del passato.
Quando leggerete questo diario io sarò morto o perlomeno sarò vecchio e malato, prossimo al riciclo. Vi esorto fin da ora, non potendolo fare di persona, a ricordare i sacrifici fatti dall’equipaggio dell’Endeavour per portarvi su Elpis.
* * *
Andrew chiuse il diario e appoggiò la penna.
Prese un lungo respiro.
Tamburellò con le dita sulla scrivania.
In duecento erano partiti, tra astronauti, equipaggio e passeggeri delle più svariate professioni. Duecento persone accuratamente scelte per compiere la traversata fino al sistema TRAPPIST-1 e dare inizio al processo di terraformazione del pianeta “e”, rinominato Elpis come la Dea greca della speranza, nonché costituire la prima società umana extraterrestre.
Duecento persone, duecento pionieri.
Duecento eroi.
Li conosceva tutti, i loro file erano presenti nel database dell’Endeavour. Tutti li conoscevano, alcuni addirittura li veneravano. Soprattutto i cento che erano ancora in vita, in animazione sospesa nelle loro celle criogeniche, perfetti in ogni dettaglio. Pelle liscia, senza macchie, privi di qualsiasi deformità, malattia genetica o tumore.
Genomi incontaminati.
Pestò le nocche sul tavolo.
Spesso si fermava a osservarli. Trasmettevano una sensazione di pace, tranquillità, come se tutto non potesse andare che bene. Erano così serafici nella criostasi. Erano così… ignari. Si morse un labbro. Aveva sognato spesso come sarebbe stato se i loro posti fossero stati scambiati. Erano in grado di sognare durante il criosonno? Chissà com’era sognare per millecentosettantun anni… e anche fossero stati anni d’oblio, avrebbe fatto volentieri a cambio.
Scosse la testa, destandosi da quella spirale negativa di pensieri. Tirò un lungo sospiro osservando la foto senza cornice di Haruko e Taki che stava su un angolo della scrivania, appoggiata alla base della lampada spenta. I lineamenti orientali della donna erano lievi e quasi non trasparivano nel figlio. Dopo sessanta generazioni passate in viaggio, le diversità etniche si erano man mano appianate rimanendo appena percettibili.
La foto era stata scattata un paio d’anni prima, quando Taki ne aveva solo due. Andrew sorrise, ricordava bene i tempi in cui era un neonato. Ogni volta che osservava la foto si stupiva di quanto fosse piccolo tra le braccia di Haruko. Un padre vorrebbe sempre il meglio per suo figlio, vorrebbe vederlo correre libero per i prati, non rinchiuso tra mura d’acciaio alle prese con la fibrosi cistica e doversi pure definire fortunato.
Tirò un nuovo sospiro e si grattò la barba guardandosi intorno per cercare di distrarsi. L’ufficio era piccolo. Dopotutto, la nave non era stata concepita per averne e con cinquecento persone a bordo si poteva dire che lo spazio fosse diventato un problema. Si prese un momento per studiarlo: dopo anni passati dalla parte opposta della scrivania, bastava questo cambio di prospettiva per percepire tutta la responsabilità che pesava sulle sue spalle. L’umanità si aspettava da lui che fosse in grado di condurre l’Endeavour e tutti i suoi passeggeri su Elpis. Un compito che sarebbe spettato agli astronauti selezionati con grande cura a inizio viaggio ma che ora avrebbero dovuto portare a termine lui e pochi altri che, pur essendo nati e cresciuti nello spazio, non erano stati scelti tra migliaia di individui, bensì tra i pochi disponibili. Sarebbero stati all’altezza del compito? Era una domanda che tutto l’equipaggio si poneva fin dal Risveglio e che, in fondo, lasciava un po’ il tempo che trovava: non si poteva fare altrimenti.
Ripose il diario nel primo cassetto della scrivania e si alzò. Era tempo di fare il consueto giro d’ispezione, solo che questa volta sarebbe stata la prima nelle vesti di Capitano. Chiuse la porta della cabina alle sue spalle e si incamminò per i corridoi che aveva percorso migliaia di volte.
L’Endeavour era composta da un’ampia sezione cilindrica centrale dove si trovavano i due motori ad antimateria e dove veniva conservato il carburante e le attrezzature più voluminose. A questa struttura erano connessi dieci grandi anelli, dal diametro venti volte superiore, che la circondavano da un estremo all’altro, ognuno assicurato alla struttura centrale tramite tre massicci ponti. Gli anelli erano collegati ognuno al seguente tramite sei ponti più piccoli. Infine, l’astronave ruotava sul suo asse per simulare, al livello degli anelli, una forza gravitazionale simile a quella terrestre. Essendo una nave concepita per il viaggio criogenico ed essendo stata studiata per fungere da base solo per i primi mesi su Elpis, non era molto spaziosa e in mezza giornata la si poteva girare da cima a fondo, percorrendo i tre piani di cui ogni anello era composto.
Non ebbe fatto che pochi passi quando si scontrò con Karl, il quale giungeva spedito dalla plancia ed era solito svoltare gli angoli senza badare a chi arrivasse dalla direzione opposta.
«Ah! Capitano!», esclamò il ragazzo afferrando gli occhiali al volo e rinforcandoli. «Cercavo proprio te».
Andrew sorrise scuotendo la testa.
«Ciao Karl», disse facendo un passo indietro. «A cosa devo il piacere?».
«Mi manda Elsa, per il rapporto mattutino».
Elsa aveva un’età intermedia tra i due e lavorava da qualche anno come addetta alle telecomunicazioni dalla plancia. Non esisteva qualcosa come il rapporto mattutino e se ci fosse stato un qualsiasi valore fuori norma, lei avrebbe potuto comunicarglielo in tempo reale tramite l’auricolare che il Capitano era tenuto a indossare sempre.
«Dimmi tutto», nascose il ghigno che gli stava deformando le labbra con un colpo di tosse.
«La velocità è stabile a dieci milioni di metri al secondo e siamo usciti dalla nube di pulviscolo spaziale senza riportare danni allo scafo. I motori ad antimateria non evidenziano nessun malfunzionamento e così pure i pannelli solari. Tutti i sistemi della nave sono operativi. Infine, l’aria mantiene una buona qualità, i gas nocivi sono sotto i livelli d’allarme».
«Molto bene! Completo il giro d’ispezione dei primi anelli e vi raggiungo alla plancia dopo pranzo. Salutami Elsa…».
Karl fece un cenno d’assenso col capo e ruotò su sé stesso. Andrew sorrise nel guardarlo tornare da dove era venuto. Certo, era un po’ maldestro… ma quando sarebbe stato il momento era sicuro che quel ragazzo sarebbe divenuto un ottimo Primo Ufficiale.
Riprese il giro a passi lenti, salutando con un cenno del capo tutte le persone che incrociava le quali gli offrivano grandi sorrisi e parole concitate. Non succedevano molte cose sull’Endeavour e il passaggio da un Capitano all’altro rappresentava un evento più che raro, era naturale che fosse l’argomento più chiacchierato del momento e che la gente fosse ancora elettrizzata. Doveva ammettere che gli piaceva essere al centro dell’attenzione e faceva bene all’umore dell’equipaggio avere qualcosa di nuovo da discutere di tanto in tanto.
Come prima tappa si recò all’armeria che non era molto distante dalla plancia e dai suoi alloggi. Scannerizzò il tesserino sul sensore e le porte si spalancarono rientrando nelle pareti. All’interno, una serie di rastrelliere ospitavano decine di fucili laser. Gli scaffali erano pieni di granate al plasma e ogni altro tipo di arma che avrebbe potuto essere utile su Elpis a seconda di che forme di vita vi avrebbero trovato. Andrew diede una rapida occhiata e constatò che era tutto a posto.
Continuò il giro passando davanti al magazzino dove erano custodite le tende-casa che sarebbero state fondamentali per costruire i primi insediamenti su Elpis. Parte dei materiali erano già stati utilizzati all’interno della nave e il magazzino era vuoto per metà. Un uso millenario non era certo quello che gli ingegneri avevano previsto quando avevano stivato il carico, ma che altro potevano fare? Fin dal Risveglio, il popolo dell’Endeavour aveva dovuto trovare il modo di sopravvivere all’interno di una nave che non era stata studiata per ospitarli. Con l’aumento della popolazione, gli alloggi erano stati ricavati in modi creativi ed era stato necessario potenziare i sistemi di supporto vitale. Tutta la strumentazione non fondamentale era stata spostata, accumulandola nei corridoi, per liberare i numerosi magazzini della nave che erano stati riconvertiti in cabine.
Mentre girava per i corridoi iniziò a battere con le nocche sulle apparecchiature allineate al muro. Aveva memorizzato il suono di ogni scaffale, di ogni lastra di metallo e strumento di misurazione. Avrebbe potuto creare della musica se solo avesse spostato vicini quelli più orecchiabili ma fortunatamente c’erano diversi strumenti musicali sulla nave se veniva voglia di suonare qualcosa.
Rallentò il passo fino a fermarsi quando arrivò alla sezione delle serre, una delle più importanti e delicate di tutta la nave. Erano indispensabili per produrre cibo e ossigeno. Ogni volta che ci passava davanti ringraziava che, dal momento che sarebbero servite come scorta di cibo e aria finché non fosse stato possibile coltivare su suolo alieno, fossero state studiate per sostentare una popolazione di diverse centinaia di individui. Se non fossero state concepite in quel modo, sarebbero tutti morti da tempo. Anzi, sarebbero morti i Primi Cinquanta poco dopo il Risveglio, le generazioni successive non sarebbero mai nate.
Forse, sarebbe stato meglio così…
A molte persone sarebbero stati risparmiati tanti tormenti. Dopotutto, era possibile che i sistemi di controllo delle celle criogeniche fossero ancora attivi e in grado di risvegliare i restanti cento membri dell’equipaggio originale in tempo, affinché tutte le manovre d’atterraggio venissero eseguite in maniera corretta… ma non era accettabile riporre il futuro dell’umanità in un “forse” e visti i danni subiti dall’Endeavour nell’incidente che aveva provocato il Risveglio, probabilmente era un bene che metà della popolazione fosse stata erroneamente scongelata.
Riprese il suo giro e pochi minuti dopo raggiunse un’altra zona della nave che, seppur non fosse altrettanto legata alla sopravvivenza, era ugualmente importante. Lì vide Silvia, lo sguardo perso oltre la vetrata. Era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse di lui.
«Come va il giorno di riposo?», chiese prendendola per mano.
Lei ebbe un tremito e si voltò.
«Andrew!», esclamò mettendosi a ridere. «Mi hai spaventata».
Andrew ridacchiò stringendola in un caloroso abbraccio, le loro labbra si toccarono in un bacio.
Se Haruko era la donna scelta dal sistema Match Mate con cui doveva procreare, Silvia era la donna che amava.
«Vuoi vederli più da vicino?».
«Sì», rispose lei. «È da molto che non entro».
Andrew si mise di fronte al sensore ottico e lasciò che gli venisse scansionata la retina. La porta si spalancò scorrendo lateralmente all’interno del muro. Quando entrarono, una luce bianca si accese riflettendosi su pareti del medesimo colore. Una moltitudine di torri criogeniche si ergevano disposte a scacchiera, a distanza di un metro l’una dall’altra. All’interno riposava il carico più prezioso dell’Endeavour: centinaia di embrioni umani.
Prese un lungo respiro.
Tamburellò con le dita sulla scrivania.
In duecento erano partiti, tra astronauti, equipaggio e passeggeri delle più svariate professioni. Duecento persone accuratamente scelte per compiere la traversata fino al sistema TRAPPIST-1 e dare inizio al processo di terraformazione del pianeta “e”, rinominato Elpis come la Dea greca della speranza, nonché costituire la prima società umana extraterrestre.
Duecento persone, duecento pionieri.
Duecento eroi.
Li conosceva tutti, i loro file erano presenti nel database dell’Endeavour. Tutti li conoscevano, alcuni addirittura li veneravano. Soprattutto i cento che erano ancora in vita, in animazione sospesa nelle loro celle criogeniche, perfetti in ogni dettaglio. Pelle liscia, senza macchie, privi di qualsiasi deformità, malattia genetica o tumore.
Genomi incontaminati.
Pestò le nocche sul tavolo.
Spesso si fermava a osservarli. Trasmettevano una sensazione di pace, tranquillità, come se tutto non potesse andare che bene. Erano così serafici nella criostasi. Erano così… ignari. Si morse un labbro. Aveva sognato spesso come sarebbe stato se i loro posti fossero stati scambiati. Erano in grado di sognare durante il criosonno? Chissà com’era sognare per millecentosettantun anni… e anche fossero stati anni d’oblio, avrebbe fatto volentieri a cambio.
Scosse la testa, destandosi da quella spirale negativa di pensieri. Tirò un lungo sospiro osservando la foto senza cornice di Haruko e Taki che stava su un angolo della scrivania, appoggiata alla base della lampada spenta. I lineamenti orientali della donna erano lievi e quasi non trasparivano nel figlio. Dopo sessanta generazioni passate in viaggio, le diversità etniche si erano man mano appianate rimanendo appena percettibili.
La foto era stata scattata un paio d’anni prima, quando Taki ne aveva solo due. Andrew sorrise, ricordava bene i tempi in cui era un neonato. Ogni volta che osservava la foto si stupiva di quanto fosse piccolo tra le braccia di Haruko. Un padre vorrebbe sempre il meglio per suo figlio, vorrebbe vederlo correre libero per i prati, non rinchiuso tra mura d’acciaio alle prese con la fibrosi cistica e doversi pure definire fortunato.
Tirò un nuovo sospiro e si grattò la barba guardandosi intorno per cercare di distrarsi. L’ufficio era piccolo. Dopotutto, la nave non era stata concepita per averne e con cinquecento persone a bordo si poteva dire che lo spazio fosse diventato un problema. Si prese un momento per studiarlo: dopo anni passati dalla parte opposta della scrivania, bastava questo cambio di prospettiva per percepire tutta la responsabilità che pesava sulle sue spalle. L’umanità si aspettava da lui che fosse in grado di condurre l’Endeavour e tutti i suoi passeggeri su Elpis. Un compito che sarebbe spettato agli astronauti selezionati con grande cura a inizio viaggio ma che ora avrebbero dovuto portare a termine lui e pochi altri che, pur essendo nati e cresciuti nello spazio, non erano stati scelti tra migliaia di individui, bensì tra i pochi disponibili. Sarebbero stati all’altezza del compito? Era una domanda che tutto l’equipaggio si poneva fin dal Risveglio e che, in fondo, lasciava un po’ il tempo che trovava: non si poteva fare altrimenti.
Ripose il diario nel primo cassetto della scrivania e si alzò. Era tempo di fare il consueto giro d’ispezione, solo che questa volta sarebbe stata la prima nelle vesti di Capitano. Chiuse la porta della cabina alle sue spalle e si incamminò per i corridoi che aveva percorso migliaia di volte.
L’Endeavour era composta da un’ampia sezione cilindrica centrale dove si trovavano i due motori ad antimateria e dove veniva conservato il carburante e le attrezzature più voluminose. A questa struttura erano connessi dieci grandi anelli, dal diametro venti volte superiore, che la circondavano da un estremo all’altro, ognuno assicurato alla struttura centrale tramite tre massicci ponti. Gli anelli erano collegati ognuno al seguente tramite sei ponti più piccoli. Infine, l’astronave ruotava sul suo asse per simulare, al livello degli anelli, una forza gravitazionale simile a quella terrestre. Essendo una nave concepita per il viaggio criogenico ed essendo stata studiata per fungere da base solo per i primi mesi su Elpis, non era molto spaziosa e in mezza giornata la si poteva girare da cima a fondo, percorrendo i tre piani di cui ogni anello era composto.
Non ebbe fatto che pochi passi quando si scontrò con Karl, il quale giungeva spedito dalla plancia ed era solito svoltare gli angoli senza badare a chi arrivasse dalla direzione opposta.
«Ah! Capitano!», esclamò il ragazzo afferrando gli occhiali al volo e rinforcandoli. «Cercavo proprio te».
Andrew sorrise scuotendo la testa.
«Ciao Karl», disse facendo un passo indietro. «A cosa devo il piacere?».
«Mi manda Elsa, per il rapporto mattutino».
Elsa aveva un’età intermedia tra i due e lavorava da qualche anno come addetta alle telecomunicazioni dalla plancia. Non esisteva qualcosa come il rapporto mattutino e se ci fosse stato un qualsiasi valore fuori norma, lei avrebbe potuto comunicarglielo in tempo reale tramite l’auricolare che il Capitano era tenuto a indossare sempre.
«Dimmi tutto», nascose il ghigno che gli stava deformando le labbra con un colpo di tosse.
«La velocità è stabile a dieci milioni di metri al secondo e siamo usciti dalla nube di pulviscolo spaziale senza riportare danni allo scafo. I motori ad antimateria non evidenziano nessun malfunzionamento e così pure i pannelli solari. Tutti i sistemi della nave sono operativi. Infine, l’aria mantiene una buona qualità, i gas nocivi sono sotto i livelli d’allarme».
«Molto bene! Completo il giro d’ispezione dei primi anelli e vi raggiungo alla plancia dopo pranzo. Salutami Elsa…».
Karl fece un cenno d’assenso col capo e ruotò su sé stesso. Andrew sorrise nel guardarlo tornare da dove era venuto. Certo, era un po’ maldestro… ma quando sarebbe stato il momento era sicuro che quel ragazzo sarebbe divenuto un ottimo Primo Ufficiale.
Riprese il giro a passi lenti, salutando con un cenno del capo tutte le persone che incrociava le quali gli offrivano grandi sorrisi e parole concitate. Non succedevano molte cose sull’Endeavour e il passaggio da un Capitano all’altro rappresentava un evento più che raro, era naturale che fosse l’argomento più chiacchierato del momento e che la gente fosse ancora elettrizzata. Doveva ammettere che gli piaceva essere al centro dell’attenzione e faceva bene all’umore dell’equipaggio avere qualcosa di nuovo da discutere di tanto in tanto.
Come prima tappa si recò all’armeria che non era molto distante dalla plancia e dai suoi alloggi. Scannerizzò il tesserino sul sensore e le porte si spalancarono rientrando nelle pareti. All’interno, una serie di rastrelliere ospitavano decine di fucili laser. Gli scaffali erano pieni di granate al plasma e ogni altro tipo di arma che avrebbe potuto essere utile su Elpis a seconda di che forme di vita vi avrebbero trovato. Andrew diede una rapida occhiata e constatò che era tutto a posto.
Continuò il giro passando davanti al magazzino dove erano custodite le tende-casa che sarebbero state fondamentali per costruire i primi insediamenti su Elpis. Parte dei materiali erano già stati utilizzati all’interno della nave e il magazzino era vuoto per metà. Un uso millenario non era certo quello che gli ingegneri avevano previsto quando avevano stivato il carico, ma che altro potevano fare? Fin dal Risveglio, il popolo dell’Endeavour aveva dovuto trovare il modo di sopravvivere all’interno di una nave che non era stata studiata per ospitarli. Con l’aumento della popolazione, gli alloggi erano stati ricavati in modi creativi ed era stato necessario potenziare i sistemi di supporto vitale. Tutta la strumentazione non fondamentale era stata spostata, accumulandola nei corridoi, per liberare i numerosi magazzini della nave che erano stati riconvertiti in cabine.
Mentre girava per i corridoi iniziò a battere con le nocche sulle apparecchiature allineate al muro. Aveva memorizzato il suono di ogni scaffale, di ogni lastra di metallo e strumento di misurazione. Avrebbe potuto creare della musica se solo avesse spostato vicini quelli più orecchiabili ma fortunatamente c’erano diversi strumenti musicali sulla nave se veniva voglia di suonare qualcosa.
Rallentò il passo fino a fermarsi quando arrivò alla sezione delle serre, una delle più importanti e delicate di tutta la nave. Erano indispensabili per produrre cibo e ossigeno. Ogni volta che ci passava davanti ringraziava che, dal momento che sarebbero servite come scorta di cibo e aria finché non fosse stato possibile coltivare su suolo alieno, fossero state studiate per sostentare una popolazione di diverse centinaia di individui. Se non fossero state concepite in quel modo, sarebbero tutti morti da tempo. Anzi, sarebbero morti i Primi Cinquanta poco dopo il Risveglio, le generazioni successive non sarebbero mai nate.
Forse, sarebbe stato meglio così…
A molte persone sarebbero stati risparmiati tanti tormenti. Dopotutto, era possibile che i sistemi di controllo delle celle criogeniche fossero ancora attivi e in grado di risvegliare i restanti cento membri dell’equipaggio originale in tempo, affinché tutte le manovre d’atterraggio venissero eseguite in maniera corretta… ma non era accettabile riporre il futuro dell’umanità in un “forse” e visti i danni subiti dall’Endeavour nell’incidente che aveva provocato il Risveglio, probabilmente era un bene che metà della popolazione fosse stata erroneamente scongelata.
Riprese il suo giro e pochi minuti dopo raggiunse un’altra zona della nave che, seppur non fosse altrettanto legata alla sopravvivenza, era ugualmente importante. Lì vide Silvia, lo sguardo perso oltre la vetrata. Era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse di lui.
«Come va il giorno di riposo?», chiese prendendola per mano.
Lei ebbe un tremito e si voltò.
«Andrew!», esclamò mettendosi a ridere. «Mi hai spaventata».
Andrew ridacchiò stringendola in un caloroso abbraccio, le loro labbra si toccarono in un bacio.
Se Haruko era la donna scelta dal sistema Match Mate con cui doveva procreare, Silvia era la donna che amava.
«Vuoi vederli più da vicino?».
«Sì», rispose lei. «È da molto che non entro».
Andrew si mise di fronte al sensore ottico e lasciò che gli venisse scansionata la retina. La porta si spalancò scorrendo lateralmente all’interno del muro. Quando entrarono, una luce bianca si accese riflettendosi su pareti del medesimo colore. Una moltitudine di torri criogeniche si ergevano disposte a scacchiera, a distanza di un metro l’una dall’altra. All’interno riposava il carico più prezioso dell’Endeavour: centinaia di embrioni umani.
* * *
Una volta constatato che la situazione sulla Terra non era destinata a migliorare, è stato naturale per i nostri avi guardare alle stelle per trovare una soluzione. Una frontiera che allora consideravano pressoché inesplorata. Mi chiedo se sapessero com’è affacciarsi a un oblò tutti i giorni per trent’anni e contemplare la vacua vastità dello spazio.
Una claustrofobica immensità.
La missione era stata studiata nei minimi dettagli, ma non potevano prevedere quello che sarebbe successo solo quarantacinque anni dopo la partenza… l’evento che noi conosciamo come il Risveglio. Ho letto più volte le pagine del diario di Felicity Green, il primo Capitano dell’Endeavour, la quale ha annotato in dettaglio l’accaduto. Pare sia stata la collisione con un asteroide a causare la completa distruzione di un terzo del secondo anello e dei sistemi di comunicazione, nonché del calo di potenza che ha determinato lo spegnimento di tutte le celle criogeniche collegate al motore ad antimateria di testa a causa di un guasto che, fortunatamente, non ha avuto conseguenze peggiori.
In cento si risvegliarono ma solo la metà sopravvisse al disastro. Riuscirono a salvare la nave, sistemando molti dei danni che l’impatto aveva causato. Tuttavia, fu impossibile ristabilire le comunicazioni e da allora l’Endeavour rimase isolata dalla Terra. Non che si aspettassero di ricevere trasmissioni prima di millecentosettantun anni ma, essendo all’oscuro dello stato della nave, non poterono fornire alcun tipo di supporto, sia tecnico che psicologico e vista la situazione, ci sarebbe stato bisogno di entrambi… perché le celle criogeniche che si erano spente si rivelarono impossibili da rimettere in funzione.
I paragrafi che trasmettono più inquietudine del diario di Felicity Green sono quelli che ha scritto nel momento in cui si è resa conto che non avrebbero più potuto tornare in animazione sospesa. Giorno per giorno le sue speranze scemavano man mano che ogni tentativo di rimetterle in funzione falliva e si possono percepire dalle sue parole tutta l’ansia, l’incertezza, la disperazione e, infine, la rassegnazione di cui era caduta preda. Non c’erano garanzie che i protocolli di scongelamento avrebbero funzionato a dovere una volta arrivati in prossimità di Elpis e gli astronauti che facevano parte dell’equipaggio si erano tutti risvegliati. Questo poteva voler dire una sola cosa: un gruppo di persone avrebbe dovuto vivere per oltre millecento anni chiuso nella nave.
Ci sarebbe dovuto essere qualcuno a vigilare che non ci fossero altri malfunzionamenti durante il viaggio e che il protocollo di rianimazione risvegliasse i cento passeggeri ancora in animazione sospesa quando sarebbe arrivato il momento. Inoltre, ci sarebbe dovuto essere qualcuno in grado di compiere le manovre d’atterraggio. Il pilota automatico era in grado di impostare la discesa da solo ma per ogni correzione sarebbe stato indispensabile l’intervento umano, soprattutto con la nave danneggiata. Gli astronauti non avrebbero vissuto che per una minima frazione del viaggio. Custodivano del sapere che andava tramandato, così come molti altri passeggeri che detenevano competenze altamente specifiche indispensabili per la missione.
Era necessario che le cinquanta persone risvegliatesi e sopravvissute all’impatto costituissero una società che durasse sulla nave e si mantenesse salda a sufficienza da tramandare le conoscenze che andavano trasmesse e che fosse in grado di svolgere la missione che era stata loro affidata. Quindi, attivarono il protocollo di controllo delle nascite che era stato studiato per i primi tempi che l’umanità avrebbe dovuto vivere su Elpis e istituirono il protocollo di Riciclo.
Iniziò così, con i Primi Cinquanta guidati da Felicity Green.
Ora viaggiamo a una velocità di dieci milioni di metri al secondo verso un sistema scoperto di recente con la speranza che il pianeta su cui atterreremo corrisponda alle analisi fatte dalla NASA e sia possibile viverci e terraformarlo.
Un viaggio di millecentosettantun anni e trentanove anni luce.
Un viaggio che non avremmo dovuto percorrere da svegli.
Una claustrofobica immensità.
La missione era stata studiata nei minimi dettagli, ma non potevano prevedere quello che sarebbe successo solo quarantacinque anni dopo la partenza… l’evento che noi conosciamo come il Risveglio. Ho letto più volte le pagine del diario di Felicity Green, il primo Capitano dell’Endeavour, la quale ha annotato in dettaglio l’accaduto. Pare sia stata la collisione con un asteroide a causare la completa distruzione di un terzo del secondo anello e dei sistemi di comunicazione, nonché del calo di potenza che ha determinato lo spegnimento di tutte le celle criogeniche collegate al motore ad antimateria di testa a causa di un guasto che, fortunatamente, non ha avuto conseguenze peggiori.
In cento si risvegliarono ma solo la metà sopravvisse al disastro. Riuscirono a salvare la nave, sistemando molti dei danni che l’impatto aveva causato. Tuttavia, fu impossibile ristabilire le comunicazioni e da allora l’Endeavour rimase isolata dalla Terra. Non che si aspettassero di ricevere trasmissioni prima di millecentosettantun anni ma, essendo all’oscuro dello stato della nave, non poterono fornire alcun tipo di supporto, sia tecnico che psicologico e vista la situazione, ci sarebbe stato bisogno di entrambi… perché le celle criogeniche che si erano spente si rivelarono impossibili da rimettere in funzione.
I paragrafi che trasmettono più inquietudine del diario di Felicity Green sono quelli che ha scritto nel momento in cui si è resa conto che non avrebbero più potuto tornare in animazione sospesa. Giorno per giorno le sue speranze scemavano man mano che ogni tentativo di rimetterle in funzione falliva e si possono percepire dalle sue parole tutta l’ansia, l’incertezza, la disperazione e, infine, la rassegnazione di cui era caduta preda. Non c’erano garanzie che i protocolli di scongelamento avrebbero funzionato a dovere una volta arrivati in prossimità di Elpis e gli astronauti che facevano parte dell’equipaggio si erano tutti risvegliati. Questo poteva voler dire una sola cosa: un gruppo di persone avrebbe dovuto vivere per oltre millecento anni chiuso nella nave.
Ci sarebbe dovuto essere qualcuno a vigilare che non ci fossero altri malfunzionamenti durante il viaggio e che il protocollo di rianimazione risvegliasse i cento passeggeri ancora in animazione sospesa quando sarebbe arrivato il momento. Inoltre, ci sarebbe dovuto essere qualcuno in grado di compiere le manovre d’atterraggio. Il pilota automatico era in grado di impostare la discesa da solo ma per ogni correzione sarebbe stato indispensabile l’intervento umano, soprattutto con la nave danneggiata. Gli astronauti non avrebbero vissuto che per una minima frazione del viaggio. Custodivano del sapere che andava tramandato, così come molti altri passeggeri che detenevano competenze altamente specifiche indispensabili per la missione.
Era necessario che le cinquanta persone risvegliatesi e sopravvissute all’impatto costituissero una società che durasse sulla nave e si mantenesse salda a sufficienza da tramandare le conoscenze che andavano trasmesse e che fosse in grado di svolgere la missione che era stata loro affidata. Quindi, attivarono il protocollo di controllo delle nascite che era stato studiato per i primi tempi che l’umanità avrebbe dovuto vivere su Elpis e istituirono il protocollo di Riciclo.
Iniziò così, con i Primi Cinquanta guidati da Felicity Green.
Ora viaggiamo a una velocità di dieci milioni di metri al secondo verso un sistema scoperto di recente con la speranza che il pianeta su cui atterreremo corrisponda alle analisi fatte dalla NASA e sia possibile viverci e terraformarlo.
Un viaggio di millecentosettantun anni e trentanove anni luce.
Un viaggio che non avremmo dovuto percorrere da svegli.
17 maggio 3613
Endeavour
Diario del Capitano Cook
Diario del Capitano Cook
Quando i nostri antenati si resero conto che nulla poteva risolvere la situazione sulla Terra, si rivolsero alle stelle per trovare salvezza. Presero in esame tutti gli esopianeti scoperti fino a quel momento, studiarono i rispettivi sistemi e selezionarono quelli che orbitavano intorno alla loro stella nella zona abitabile. Tra tutti questi pianeti, furono scelti per ulteriori analisi quelli con le caratteristiche più simili alla Terra per raggio, massa, densità, composizione dell’atmosfera e temperatura. La risposta che cercavano venne dal sistema TRAPPIST-1, situato nella costellazione dell’acquario, che prendeva il nome dal telescopio TRAPPIST, il quale a sua volta era stato chiamato in modo che l’acronimo rendesse onore ai monaci trappisti del Belgio, produttori della birra di cui il suo ideatore andava ghiotto.
TRAPPIST-1 è una stella nana rossa distante trentanove anni luce e mezzo dalla Terra che misura solo l’otto percento della massa del Sole e il dodici percento del suo raggio. Minuscola per i terrestri, ma per noi, che abbiamo vissuto tutta la nostra esistenza nello spazio profondo, anche solo immaginare la luce di una stella così piccola e fredda risulta abbagliante.
Furono scoperti sette pianeti che, come consuetudine, vennero nominati con delle lettere progressive a partire dalla stella attorno alla quale ruotavano. Di questi sette pianeti il terzo, il quarto e il quinto, rispettivamente chiamati “d”, “e”, “f”, si trovavano nella zona abitabile di TRAPPIST-1. Gli studi si concentrarono su questi tre pianeti per determinare al meglio ogni loro parametro. Il solo pianeta “e”, successivamente rinominato Elpis, risultava avere caratteristiche abbastanza simili alla Terra da poter ospitare acqua liquida sulla superfice e vita sia animale che vegetale.
Trovato il pianeta che garantiva le maggiori probabilità di sopravvivenza, venne studiata una strategia per eseguire la terraformazione: un processo volto a rendere Elpis il più simile possibile alla Terra, modificandone la composizione dell’atmosfera. Venne poi progettata un’astronave in grado di raggiungere una meta tanto lontana, avvalendosi di due motori ad antimateria, e che ospitasse un gran numero di celle criogeniche, una tecnologia di recente sviluppo che permetteva agli esseri viventi di trascorrere anche millenni in animazione sospesa senza invecchiare o subire danni psicofisici permanenti.
A questo punto sorse un altro grande problema che nessuno aveva voluto discutere fino a qual momento. Un problema che tutti avevano taciuto seppur consapevoli: solo una minuscola frazione dell’umanità avrebbe potuto spostarsi. La Terra soffriva di un grave problema di sovrappopolazione. Gli esseri umani erano finiti a vivere come sardine, inscatolati in gigantesche megalopoli. Forse, da quel punto di vista, sapevano come stiamo vivendo noi rinchiusi nell’Endeavour. Anche volendo, non sarebbe stato possibile costruire navi criogeniche per nemmeno un milionesimo della popolazione globale. Inoltre, un’altra cosa che tutti sapevano ma non osavano dire, era che, se anche fosse stato possibile salvare tutti, non sarebbe stata una cosa saggia da fare. Elpis avrebbe subito gli stessi effetti della Terra e sarebbe diventata presto inabitabile allo stesso modo.
La quasi totalità della gente andava lasciata a morire. Forse, era semplicemente il fato che meritavano.
Vennero selezionate persone di alta cultura e sensibilità, sia a livello umano che ambientale, in modo che il popolo di Elpis fosse migliore di quello della Terra. Quindi, per evitare che un ristretto pool genico favorisse l’insorgenza di malattie genetiche recessive, oltre all’equipaggio di duecento passeggeri vennero caricati sull’Endeavour mille embrioni: i primi esseri umani che sarebbero nati su Elpis, la “generazione uno” che avrebbe iniziato il processo di terraformazione vero e proprio.
Il programma prevedeva che ogni cinquant’anni, finché l’umanità sarebbe stata in grado di costruire navi in grado di affrontare il viaggio, sarebbe stata lanciata una nuova nave con altrettanti passeggeri e altrettanti embrioni. Secondo i piani originali, gli embrioni avrebbero dovuto essere incubati in “classi” da dieci ogni anno per i primi cento anni di permanenza su Elpis, costituendo in questo modo una società sana e integrata.
Ovviamente, il Risveglio ha mandato tutto all’aria.
Dei duecento membri dell’equipaggio, la metà sono stati scongelati in seguito alla collisione con l’asteroide, un po’ per il calo di potenza, un po’ per i danni strutturali, e di quei cento solo la metà è sopravvissuta al disastro. Da oltre millecento anni una popolazione di cinquecento individui, partita da quei soli cinquanta, vive sull’Endeavour. Ne consegue che, nonostante il protocollo di controllo delle nascite fosse stato attivato appena dopo il Risveglio, ogni speranza di mantenere sano il corredo genetico è andata perduta molto tempo fa.
Di tutti i flagelli a cui è sottoposto il popolo in viaggio, questo è il peggiore. Seppure al momento della partenza la medicina avesse fatto passi da gigante nella terapia genica, il laboratorio presente sulla nave si trovava sul secondo anello, proprio dove era andato a schiantarsi l’asteroide. Così siamo costretti a vivere senza poter scegliere il nostro partner, afflitti da malattie e mutazioni talvolta terribili e, nonostante il sistema Match Mate calcoli ogni variante genetica del genoma di tutto l’equipaggio, individuando le coppie che minimizzino l’insorgere di forme omozigoti delle malattie genetiche recessive, spesso si è costretti a vederle passare ai propri figli. Così, una persona su dieci a bordo dell’Endeavour soffre di fibrosi cistica mentre una su due è portatrice di un allele mutato e lo stesso vale per una lunga serie di malattie. Il mio stesso figlio è soggetto a un cocktail orrendo di morbi e da mesi giace in ospedale, senza sapere quanto gli rimanga da vivere, nonostante non abbia ancora compiuto sette anni.
Siamo in balia delle mutazioni.
Nessuno è più in grado di definirsi “sano”.
TRAPPIST-1 è una stella nana rossa distante trentanove anni luce e mezzo dalla Terra che misura solo l’otto percento della massa del Sole e il dodici percento del suo raggio. Minuscola per i terrestri, ma per noi, che abbiamo vissuto tutta la nostra esistenza nello spazio profondo, anche solo immaginare la luce di una stella così piccola e fredda risulta abbagliante.
Furono scoperti sette pianeti che, come consuetudine, vennero nominati con delle lettere progressive a partire dalla stella attorno alla quale ruotavano. Di questi sette pianeti il terzo, il quarto e il quinto, rispettivamente chiamati “d”, “e”, “f”, si trovavano nella zona abitabile di TRAPPIST-1. Gli studi si concentrarono su questi tre pianeti per determinare al meglio ogni loro parametro. Il solo pianeta “e”, successivamente rinominato Elpis, risultava avere caratteristiche abbastanza simili alla Terra da poter ospitare acqua liquida sulla superfice e vita sia animale che vegetale.
Trovato il pianeta che garantiva le maggiori probabilità di sopravvivenza, venne studiata una strategia per eseguire la terraformazione: un processo volto a rendere Elpis il più simile possibile alla Terra, modificandone la composizione dell’atmosfera. Venne poi progettata un’astronave in grado di raggiungere una meta tanto lontana, avvalendosi di due motori ad antimateria, e che ospitasse un gran numero di celle criogeniche, una tecnologia di recente sviluppo che permetteva agli esseri viventi di trascorrere anche millenni in animazione sospesa senza invecchiare o subire danni psicofisici permanenti.
A questo punto sorse un altro grande problema che nessuno aveva voluto discutere fino a qual momento. Un problema che tutti avevano taciuto seppur consapevoli: solo una minuscola frazione dell’umanità avrebbe potuto spostarsi. La Terra soffriva di un grave problema di sovrappopolazione. Gli esseri umani erano finiti a vivere come sardine, inscatolati in gigantesche megalopoli. Forse, da quel punto di vista, sapevano come stiamo vivendo noi rinchiusi nell’Endeavour. Anche volendo, non sarebbe stato possibile costruire navi criogeniche per nemmeno un milionesimo della popolazione globale. Inoltre, un’altra cosa che tutti sapevano ma non osavano dire, era che, se anche fosse stato possibile salvare tutti, non sarebbe stata una cosa saggia da fare. Elpis avrebbe subito gli stessi effetti della Terra e sarebbe diventata presto inabitabile allo stesso modo.
La quasi totalità della gente andava lasciata a morire. Forse, era semplicemente il fato che meritavano.
Vennero selezionate persone di alta cultura e sensibilità, sia a livello umano che ambientale, in modo che il popolo di Elpis fosse migliore di quello della Terra. Quindi, per evitare che un ristretto pool genico favorisse l’insorgenza di malattie genetiche recessive, oltre all’equipaggio di duecento passeggeri vennero caricati sull’Endeavour mille embrioni: i primi esseri umani che sarebbero nati su Elpis, la “generazione uno” che avrebbe iniziato il processo di terraformazione vero e proprio.
Il programma prevedeva che ogni cinquant’anni, finché l’umanità sarebbe stata in grado di costruire navi in grado di affrontare il viaggio, sarebbe stata lanciata una nuova nave con altrettanti passeggeri e altrettanti embrioni. Secondo i piani originali, gli embrioni avrebbero dovuto essere incubati in “classi” da dieci ogni anno per i primi cento anni di permanenza su Elpis, costituendo in questo modo una società sana e integrata.
Ovviamente, il Risveglio ha mandato tutto all’aria.
Dei duecento membri dell’equipaggio, la metà sono stati scongelati in seguito alla collisione con l’asteroide, un po’ per il calo di potenza, un po’ per i danni strutturali, e di quei cento solo la metà è sopravvissuta al disastro. Da oltre millecento anni una popolazione di cinquecento individui, partita da quei soli cinquanta, vive sull’Endeavour. Ne consegue che, nonostante il protocollo di controllo delle nascite fosse stato attivato appena dopo il Risveglio, ogni speranza di mantenere sano il corredo genetico è andata perduta molto tempo fa.
Di tutti i flagelli a cui è sottoposto il popolo in viaggio, questo è il peggiore. Seppure al momento della partenza la medicina avesse fatto passi da gigante nella terapia genica, il laboratorio presente sulla nave si trovava sul secondo anello, proprio dove era andato a schiantarsi l’asteroide. Così siamo costretti a vivere senza poter scegliere il nostro partner, afflitti da malattie e mutazioni talvolta terribili e, nonostante il sistema Match Mate calcoli ogni variante genetica del genoma di tutto l’equipaggio, individuando le coppie che minimizzino l’insorgere di forme omozigoti delle malattie genetiche recessive, spesso si è costretti a vederle passare ai propri figli. Così, una persona su dieci a bordo dell’Endeavour soffre di fibrosi cistica mentre una su due è portatrice di un allele mutato e lo stesso vale per una lunga serie di malattie. Il mio stesso figlio è soggetto a un cocktail orrendo di morbi e da mesi giace in ospedale, senza sapere quanto gli rimanga da vivere, nonostante non abbia ancora compiuto sette anni.
Siamo in balia delle mutazioni.
Nessuno è più in grado di definirsi “sano”.
* * *
Andrew posò la penna sulla scrivania rimanendo per un momento a guardare l’inchiostro che si asciugava sulle pagine del diario, striate da sottili linee nere che formavano i righi all’interno dei quali prendevano vita i suoi pensieri.
Non era mai facile parlare di Taki. Oltretutto, sembrava strano scriverne in un diario che sarebbe stato letto da chissà quanti sconosciuti nei decenni a venire… sembrava qualcosa di troppo personale per parlarne a dei perfetti estranei ma allo stesso tempo voleva che fossero chiare le condizioni di vita sull’Endeavour.
Anche se era normale che le persone morissero prematuramente a causa delle più diverse malattie genetiche e fosse comune che i bambini giungessero al riciclo anche molto presto, quando parlava di suo figlio sentiva sempre una fitta al cuore.
Ripose il diario nel primo cassetto e ne accompagnò lo sportello con una mano, chiudendolo, come se questo gesto potesse allo stesso tempo chiudere i pensieri negativi in uno scomparto sigillato della mente.
Non era questo il giorno per i pensieri tristi, anzi, era un giorno di festa a bordo dell’astronave. Si impose un sorriso tirato per esorcizzare il malumore e indossò l’uniforme cerimoniale con le spalline e i bottoni dorati.
Chiuse a chiave la porta alle sue spalle e si incamminò per i corridoi. Il moto rotatorio dell’Endeavour simulava una gravità simile a quella terrestre e dagli oblò si vedeva la volta celeste vorticare, piena di piccole, distanti luci. Ognuno dei dieci anelli era composto da tre piani concentrici. Sia la plancia che la sua abitazione si trovavano sul piano superiore del primo anello, quindi scese di due livelli. I piani inferiori erano quelli più esterni e di conseguenza, dopo la prima rampa di scale iniziò a sentire la forza di gravità che si accentuava, fenomeno dovuto al fatto che più ci si allontanava dal corpo centrale della nave più la rotazione era veloce e ne conseguiva che l’unico piano a disporre di una gravità pari a quella terrestre era quello intermedio.
Quando arrivò in basso si stiracchiò e tese i muscoli, ci voleva sempre un momento per abituarsi alla nuova pressione a cui si veniva sottoposti. Percorse un quadrante dell’anello e arrivò all’ampio spazio che avevano allestito come sala da ballo per gli eventi sociali più importanti.
Spalancò la porta e vide che la sala era gremita. Tutti coloro che non avevano i turni di manutenzione si erano agghindati con i loro migliori vestiti, radunandosi per quelli che erano gli eventi mondani più amati: l’Estrazione e l’Incubazione. Questi eventi si svolgevano nell’anniversario del Risveglio, il primo ogni anno mentre il secondo ogni cinque anni e, per un breve periodo, tutti smettevano di pensare alla gabbia e alla morte e gioivano per la vita. In quanto Capitano, era sua responsabilità dare inizio a entrambi.
Quando le persone vicine alla porta si accorsero che era entrato iniziarono ad applaudire e ben presto l’acclamazione si diffuse in tutta la stanza, crescendo di volume, diventando un boato. Andrew sorrise, erano passati anni da quando aveva visto così tanti visi felici tutti in una volta.
Haruko lo raggiunse e lo strinse in un abbraccio affettuoso.
«In bocca al lupo», gli sussurrò all’orecchio.
Il susseguirsi delle malattie di Taki aveva segnato un brutto periodo per loro ma da quando avevano deciso di provare ad avere un altro figlio si erano molto riavvicinati. Quando la donna si sciolse dall’abbraccio, vide che Silvia li aveva raggiunti.
«Stendili», disse la ragazza stampandogli un bacio sulle labbra.
Andrew sorrise senza trovare le parole per replicare, si limitò a prenderle entrambe per mano e attingere dalla forza che gli trasmettevano. Aveva visto il Capitano Edwards aprire la cerimonia molte volte e anche se si trattava solo di autorizzare due operazioni, sentiva le mani sudate. Era consapevole di avere tutti gli occhi puntati su di lui in questo passo piccolo quanto importante.
Lasciò le mani delle due donne e si immerse nella folla salutando Karl con un cenno della testa. Oltrepassato l’assembramento, raggiunse un piccolo palco sul quale si trovava un terminale da cui si poteva accedere al sistema della nave e un podio da oratore completo di microfono. I discorsi del Capitano Edwards erano sempre stati brevi e aveva deciso di attenersi al suo stile. Dopotutto, non c’era molto da dire.
Inspirò, espirò e accese il microfono.
«Mi scalda il cuore vedervi tutti qui riuniti, in questo giorno così importante», esordì. «Il nostro viaggio è iniziato millecentoquarantacinque anni fa e sono trascorsi esattamente millecento anni dal Risveglio. Da allora ci atteniamo alle leggi di Felicity Green e dei cinquanta antenati che hanno costituito la società in cui viviamo. Per quanto tutto questo sia lontano dalla perfezione, non dobbiamo mai dimenticare quale sia il nostro obiettivo e ciò che ci spinge ad andare avanti: la speranza. La speranza che l’umanità intera ha riposto nella nostra missione. Ogni giorno che passa siamo sempre più vicini alla nostra meta, ormai mancano solo ventisei anni per raggiungere Elpis. Auguro a tutti in questa sala di vedere quel fausto giorno!».
«Ma andiamo con ordine», continuò dopo una breve pausa. «Prima di iniziare i festeggiamenti per questa ricorrenza, ci sono un paio di cose da fare. Come da tradizione, inizierei autorizzando il programma Match Mate a consegnarci il risultato di quest’anno».
«Per la felicità di chi verrà scelto», urlò qualcuno dalla folla provocando una risata generale.
Andrew sogghignò a sua volta. Si voltò, dirigendosi al terminale dove Elsa era già entrata nel programma e aveva predisposto la schermata d’autorizzazione. Accostò il viso al sensore e lasciò che gli venisse scansionata la retina. Il suo profilo comparve sullo schermo seguito dalla scritta verde “Accesso Autorizzato” e poi da quella “Inizializzazione Programma Match Mate”.
Il genoma di ogni passeggero era stato inserito nella banca dati dell’Endeavour prima della partenza e dopo il Risveglio, il genoma di ogni nuovo nato veniva sequenziato e aggiunto all’elenco. Il programma Match Mate era stato studiato per analizzare tutte le varianti dei genomi che aveva in banca dati e restituire la combinazione dei due che era più probabile producessero figli sani, minimizzando il rischio di trasmissione di malattie genetiche recessive alle generazioni future. In questo modo, il pool genetico umano si sarebbe mantenuto sano il più a lungo possibile nell’attesa che giungessero le navi seguenti su Elpis, portando nuovi individui, ampliando in questo modo la variabilità genetica umana di cui duecento persone e mille embrioni non potevano essere rappresentativi. Il fatto che fosse stato necessario attivare il programma dopo soli quarantacinque anni dalla partenza e che fosse stato possibile far lavorare l’algoritmo su sole cinquanta persone l’aveva messo a dura prova. Dopo millecento anni, la salute dell’equipaggio aveva notevolmente risentito del collo di bottiglia da cui era partito tutto, tanto che ormai, senza considerare coppie nate dagli embrioni, era da oltre un secolo che il programma non riusciva a trovare una combinazione che desse una probabilità sopra al dieci percento di generare figli sani.
Elsa trasferì il risultato su un tablet, Andrew lo prese e tornò al podio. Gli bastò una scorsa per notare che eventuali figli sarebbero stati portatori, con una probabilità del cinquanta percento, di anemia falciforme, sindrome di Werner e xeroderma pigmentoso. Fortunatamente, il programma non aveva previsto omozigosi di alcuna sorta e questa si poteva dire già una discreta fortuna per i futuri genitori.
Si avvicinò al microfono e vide la platea in trepidante attesa di scoprire chi fosse la coppia determinata dal programma. Andrew ricordava l’emozione che aveva provato quando, anni prima, il Capitano Edwards aveva chiamato il suo nome e quello di Haruko. Ricordava che dopo un momento di incredulità si era guardato intorno, cercandola con lo sguardo, mentre le persone tra loro si scostavano man mano che capivano in che direzione si trovasse l’altro. L’aveva vista apparire così davanti ai suoi occhi, non si conoscevano bene allora e non era stato facile, come non lo era mai stato per nessuno, scoprire di punto in bianco la persona con cui si sarebbe dovuto concepire dei figli. C’era a chi andava bene e veniva accoppiato con qualcuno per cui provava dell’interesse come c’era chi, per sua sfortuna, doveva unirsi a una persona detestata. La legge era chiara e coloro che venivano scelti dovevano procreare. Tuttavia, il più delle volte non rappresentava un problema: non a tutti era concesso di diventare genitori ed era un’opportunità unica e irrinunciabile. Ricordò quanto gli batteva il cuore quando Edwards concesse a entrambi il diritto alla procreazione. Sorrise nell’avvicinarsi al microfono. Il silenzio era calato nella sala.
«Il programma ha dato anche questa volta il suo verdetto», disse alimentando l’attesa. «I nomi indicati sono Jasmin Kaza e Liang Martinez. Congratulazioni!».
Non disse nulla di ciò che aveva letto sul rapporto dell’algoritmo Match Mate, secondo il protocollo stilato da Felicity Green i dettagli erano confidenziali per il Capitano, in modo da mantenere il più possibile una parvenza di normalità in un processo alienante. Si limitò a osservare la folla spostarsi come accadeva di solito e i due interessati guardarsi l’un l’altro. Erano solo in cinquecento a bordo dell’Endeavour, si conoscevano tutti, ma Andrew non avrebbe saputo dire in che rapporti fossero quei due, poteva solo sperare che trovassero delle note positive in quell’unione.
«Jasmin e Liang», disse con tono solenne. «Avanzate».
Quando la coppia fu giunta dinnanzi a lui, prese uno scanner portatile.
«In accordo con le leggi dell’Endeavour e di fronte all’equipaggio intero», continuò puntando lo scanner prima sul braccialetto di uno e poi su quello dell’altra. «Vi accordo il diritto di procreazione!».
Uno scroscio di applausi seguì la sua dichiarazione e la coppia si ritirò nella folla circondata da un animato chiacchiericcio. Andrew ricordò quanto fossero stati tesi quei primi momenti con Haruko, senza dubbio i più imbarazzanti della relazione. Tuttavia, l’equipaggio dell’Endeavour ci era abituato e le relazioni fuori dal sistema Match Mate non erano proibite, né disapprovate, a patto che non generassero figli.
«Direi di procedere senza indugio con l’Incubazione!», disse alzando le braccia per richiamare il silenzio.
Tornò a passi lenti al terminale dove Elsa era entrata nel programma di incubazione degli embrioni. Era necessario rimpinguare il pool genetico dell’equipaggio di tanto in tanto se si voleva che l’umanità arrivasse su Elpis sufficientemente sana da poter svolgere il suo compito. Quindi, ogni cinque anni venivano incubati due embrioni. Il computer metteva automaticamente in evidenza la coppia che avrebbe portato la maggior variabilità considerato il pool genico attuale di tutta la popolazione. La scelta di quali scongelare almeno era semplice… ma lo stesso non si poteva dire dell’autorizzazione a procedere. Se autorizzare una coppia alla procreazione poteva avere diversi risvolti etici positivi, questa volta si trattava di condannare due persone a trascorrere buona parte della loro vita rinchiusi su un’astronave sovrappopolata, con poche risorse a disposizione e un ambiente altamente malsano in cui vivere a livello psicologico, invece che su un pianeta fertile all’interno di una società più equilibrata dove avrebbero potuto coltivare sogni e ambizioni.
Andrew si umettò le labbra.
Deglutì e sfregò i polpastrelli gli uni sugli altri.
Era la prima decisione difficile che era chiamato ad assumere. Non c’erano alternative, era ben consapevole di quanto servisse un po’ di freschezza al pool genico dell’equipaggio. Allora, perché non riusciva a premere il pulsante? Aveva visto il Capitano Edwards farlo diverse volte ma ora che toccava a lui… faticava ad alzare la mano. Era questo gesto più di qualsiasi altra cosa a determinare la responsabilità che come Capitano aveva sull’equipaggio e sull’umanità intera. Stava decidendo della vita di due persone. Stava imponendo loro una vita che non avrebbero scelto, quale costrizione più grande poteva esistere? Quale torto più grande si poteva fare? Determinare con freddo ragionamento il destino di questi embrioni poteva dirsi un atto etico?
Andrew non avrebbe saputo dirlo. L’unica certezza era che il genere umano ne aveva bisogno ed era necessario agire come avevano fatto i suoi predecessori. Come tutti da millecento anni vivevano facendo il loro dovere, anche questi due piccoli embrioni avrebbero dovuto vivere al servizio della collettività. Questo era il destino toccato loro. Andrew alzò la mano, premette il pulsante e si fece scannerizzare la retina.
Lo fece per l’umanità.
Lo fece per un bene più grande.
Un braccio meccanico prelevò dalle torri criogeniche i due dischi all’interno dei quali alloggiavano gli embrioni e li pose all’interno di altrettante incubatrici che, come uteri accoglienti, avrebbero guidato lo sviluppo delle nuove vite per i successivi otto mesi.
Andrew si voltò verso la folla, sollevò gli angoli della bocca in un sorriso triste.
Era fatta.
La festa poteva iniziare.
Non era mai facile parlare di Taki. Oltretutto, sembrava strano scriverne in un diario che sarebbe stato letto da chissà quanti sconosciuti nei decenni a venire… sembrava qualcosa di troppo personale per parlarne a dei perfetti estranei ma allo stesso tempo voleva che fossero chiare le condizioni di vita sull’Endeavour.
Anche se era normale che le persone morissero prematuramente a causa delle più diverse malattie genetiche e fosse comune che i bambini giungessero al riciclo anche molto presto, quando parlava di suo figlio sentiva sempre una fitta al cuore.
Ripose il diario nel primo cassetto e ne accompagnò lo sportello con una mano, chiudendolo, come se questo gesto potesse allo stesso tempo chiudere i pensieri negativi in uno scomparto sigillato della mente.
Non era questo il giorno per i pensieri tristi, anzi, era un giorno di festa a bordo dell’astronave. Si impose un sorriso tirato per esorcizzare il malumore e indossò l’uniforme cerimoniale con le spalline e i bottoni dorati.
Chiuse a chiave la porta alle sue spalle e si incamminò per i corridoi. Il moto rotatorio dell’Endeavour simulava una gravità simile a quella terrestre e dagli oblò si vedeva la volta celeste vorticare, piena di piccole, distanti luci. Ognuno dei dieci anelli era composto da tre piani concentrici. Sia la plancia che la sua abitazione si trovavano sul piano superiore del primo anello, quindi scese di due livelli. I piani inferiori erano quelli più esterni e di conseguenza, dopo la prima rampa di scale iniziò a sentire la forza di gravità che si accentuava, fenomeno dovuto al fatto che più ci si allontanava dal corpo centrale della nave più la rotazione era veloce e ne conseguiva che l’unico piano a disporre di una gravità pari a quella terrestre era quello intermedio.
Quando arrivò in basso si stiracchiò e tese i muscoli, ci voleva sempre un momento per abituarsi alla nuova pressione a cui si veniva sottoposti. Percorse un quadrante dell’anello e arrivò all’ampio spazio che avevano allestito come sala da ballo per gli eventi sociali più importanti.
Spalancò la porta e vide che la sala era gremita. Tutti coloro che non avevano i turni di manutenzione si erano agghindati con i loro migliori vestiti, radunandosi per quelli che erano gli eventi mondani più amati: l’Estrazione e l’Incubazione. Questi eventi si svolgevano nell’anniversario del Risveglio, il primo ogni anno mentre il secondo ogni cinque anni e, per un breve periodo, tutti smettevano di pensare alla gabbia e alla morte e gioivano per la vita. In quanto Capitano, era sua responsabilità dare inizio a entrambi.
Quando le persone vicine alla porta si accorsero che era entrato iniziarono ad applaudire e ben presto l’acclamazione si diffuse in tutta la stanza, crescendo di volume, diventando un boato. Andrew sorrise, erano passati anni da quando aveva visto così tanti visi felici tutti in una volta.
Haruko lo raggiunse e lo strinse in un abbraccio affettuoso.
«In bocca al lupo», gli sussurrò all’orecchio.
Il susseguirsi delle malattie di Taki aveva segnato un brutto periodo per loro ma da quando avevano deciso di provare ad avere un altro figlio si erano molto riavvicinati. Quando la donna si sciolse dall’abbraccio, vide che Silvia li aveva raggiunti.
«Stendili», disse la ragazza stampandogli un bacio sulle labbra.
Andrew sorrise senza trovare le parole per replicare, si limitò a prenderle entrambe per mano e attingere dalla forza che gli trasmettevano. Aveva visto il Capitano Edwards aprire la cerimonia molte volte e anche se si trattava solo di autorizzare due operazioni, sentiva le mani sudate. Era consapevole di avere tutti gli occhi puntati su di lui in questo passo piccolo quanto importante.
Lasciò le mani delle due donne e si immerse nella folla salutando Karl con un cenno della testa. Oltrepassato l’assembramento, raggiunse un piccolo palco sul quale si trovava un terminale da cui si poteva accedere al sistema della nave e un podio da oratore completo di microfono. I discorsi del Capitano Edwards erano sempre stati brevi e aveva deciso di attenersi al suo stile. Dopotutto, non c’era molto da dire.
Inspirò, espirò e accese il microfono.
«Mi scalda il cuore vedervi tutti qui riuniti, in questo giorno così importante», esordì. «Il nostro viaggio è iniziato millecentoquarantacinque anni fa e sono trascorsi esattamente millecento anni dal Risveglio. Da allora ci atteniamo alle leggi di Felicity Green e dei cinquanta antenati che hanno costituito la società in cui viviamo. Per quanto tutto questo sia lontano dalla perfezione, non dobbiamo mai dimenticare quale sia il nostro obiettivo e ciò che ci spinge ad andare avanti: la speranza. La speranza che l’umanità intera ha riposto nella nostra missione. Ogni giorno che passa siamo sempre più vicini alla nostra meta, ormai mancano solo ventisei anni per raggiungere Elpis. Auguro a tutti in questa sala di vedere quel fausto giorno!».
«Ma andiamo con ordine», continuò dopo una breve pausa. «Prima di iniziare i festeggiamenti per questa ricorrenza, ci sono un paio di cose da fare. Come da tradizione, inizierei autorizzando il programma Match Mate a consegnarci il risultato di quest’anno».
«Per la felicità di chi verrà scelto», urlò qualcuno dalla folla provocando una risata generale.
Andrew sogghignò a sua volta. Si voltò, dirigendosi al terminale dove Elsa era già entrata nel programma e aveva predisposto la schermata d’autorizzazione. Accostò il viso al sensore e lasciò che gli venisse scansionata la retina. Il suo profilo comparve sullo schermo seguito dalla scritta verde “Accesso Autorizzato” e poi da quella “Inizializzazione Programma Match Mate”.
Il genoma di ogni passeggero era stato inserito nella banca dati dell’Endeavour prima della partenza e dopo il Risveglio, il genoma di ogni nuovo nato veniva sequenziato e aggiunto all’elenco. Il programma Match Mate era stato studiato per analizzare tutte le varianti dei genomi che aveva in banca dati e restituire la combinazione dei due che era più probabile producessero figli sani, minimizzando il rischio di trasmissione di malattie genetiche recessive alle generazioni future. In questo modo, il pool genetico umano si sarebbe mantenuto sano il più a lungo possibile nell’attesa che giungessero le navi seguenti su Elpis, portando nuovi individui, ampliando in questo modo la variabilità genetica umana di cui duecento persone e mille embrioni non potevano essere rappresentativi. Il fatto che fosse stato necessario attivare il programma dopo soli quarantacinque anni dalla partenza e che fosse stato possibile far lavorare l’algoritmo su sole cinquanta persone l’aveva messo a dura prova. Dopo millecento anni, la salute dell’equipaggio aveva notevolmente risentito del collo di bottiglia da cui era partito tutto, tanto che ormai, senza considerare coppie nate dagli embrioni, era da oltre un secolo che il programma non riusciva a trovare una combinazione che desse una probabilità sopra al dieci percento di generare figli sani.
Elsa trasferì il risultato su un tablet, Andrew lo prese e tornò al podio. Gli bastò una scorsa per notare che eventuali figli sarebbero stati portatori, con una probabilità del cinquanta percento, di anemia falciforme, sindrome di Werner e xeroderma pigmentoso. Fortunatamente, il programma non aveva previsto omozigosi di alcuna sorta e questa si poteva dire già una discreta fortuna per i futuri genitori.
Si avvicinò al microfono e vide la platea in trepidante attesa di scoprire chi fosse la coppia determinata dal programma. Andrew ricordava l’emozione che aveva provato quando, anni prima, il Capitano Edwards aveva chiamato il suo nome e quello di Haruko. Ricordava che dopo un momento di incredulità si era guardato intorno, cercandola con lo sguardo, mentre le persone tra loro si scostavano man mano che capivano in che direzione si trovasse l’altro. L’aveva vista apparire così davanti ai suoi occhi, non si conoscevano bene allora e non era stato facile, come non lo era mai stato per nessuno, scoprire di punto in bianco la persona con cui si sarebbe dovuto concepire dei figli. C’era a chi andava bene e veniva accoppiato con qualcuno per cui provava dell’interesse come c’era chi, per sua sfortuna, doveva unirsi a una persona detestata. La legge era chiara e coloro che venivano scelti dovevano procreare. Tuttavia, il più delle volte non rappresentava un problema: non a tutti era concesso di diventare genitori ed era un’opportunità unica e irrinunciabile. Ricordò quanto gli batteva il cuore quando Edwards concesse a entrambi il diritto alla procreazione. Sorrise nell’avvicinarsi al microfono. Il silenzio era calato nella sala.
«Il programma ha dato anche questa volta il suo verdetto», disse alimentando l’attesa. «I nomi indicati sono Jasmin Kaza e Liang Martinez. Congratulazioni!».
Non disse nulla di ciò che aveva letto sul rapporto dell’algoritmo Match Mate, secondo il protocollo stilato da Felicity Green i dettagli erano confidenziali per il Capitano, in modo da mantenere il più possibile una parvenza di normalità in un processo alienante. Si limitò a osservare la folla spostarsi come accadeva di solito e i due interessati guardarsi l’un l’altro. Erano solo in cinquecento a bordo dell’Endeavour, si conoscevano tutti, ma Andrew non avrebbe saputo dire in che rapporti fossero quei due, poteva solo sperare che trovassero delle note positive in quell’unione.
«Jasmin e Liang», disse con tono solenne. «Avanzate».
Quando la coppia fu giunta dinnanzi a lui, prese uno scanner portatile.
«In accordo con le leggi dell’Endeavour e di fronte all’equipaggio intero», continuò puntando lo scanner prima sul braccialetto di uno e poi su quello dell’altra. «Vi accordo il diritto di procreazione!».
Uno scroscio di applausi seguì la sua dichiarazione e la coppia si ritirò nella folla circondata da un animato chiacchiericcio. Andrew ricordò quanto fossero stati tesi quei primi momenti con Haruko, senza dubbio i più imbarazzanti della relazione. Tuttavia, l’equipaggio dell’Endeavour ci era abituato e le relazioni fuori dal sistema Match Mate non erano proibite, né disapprovate, a patto che non generassero figli.
«Direi di procedere senza indugio con l’Incubazione!», disse alzando le braccia per richiamare il silenzio.
Tornò a passi lenti al terminale dove Elsa era entrata nel programma di incubazione degli embrioni. Era necessario rimpinguare il pool genetico dell’equipaggio di tanto in tanto se si voleva che l’umanità arrivasse su Elpis sufficientemente sana da poter svolgere il suo compito. Quindi, ogni cinque anni venivano incubati due embrioni. Il computer metteva automaticamente in evidenza la coppia che avrebbe portato la maggior variabilità considerato il pool genico attuale di tutta la popolazione. La scelta di quali scongelare almeno era semplice… ma lo stesso non si poteva dire dell’autorizzazione a procedere. Se autorizzare una coppia alla procreazione poteva avere diversi risvolti etici positivi, questa volta si trattava di condannare due persone a trascorrere buona parte della loro vita rinchiusi su un’astronave sovrappopolata, con poche risorse a disposizione e un ambiente altamente malsano in cui vivere a livello psicologico, invece che su un pianeta fertile all’interno di una società più equilibrata dove avrebbero potuto coltivare sogni e ambizioni.
Andrew si umettò le labbra.
Deglutì e sfregò i polpastrelli gli uni sugli altri.
Era la prima decisione difficile che era chiamato ad assumere. Non c’erano alternative, era ben consapevole di quanto servisse un po’ di freschezza al pool genico dell’equipaggio. Allora, perché non riusciva a premere il pulsante? Aveva visto il Capitano Edwards farlo diverse volte ma ora che toccava a lui… faticava ad alzare la mano. Era questo gesto più di qualsiasi altra cosa a determinare la responsabilità che come Capitano aveva sull’equipaggio e sull’umanità intera. Stava decidendo della vita di due persone. Stava imponendo loro una vita che non avrebbero scelto, quale costrizione più grande poteva esistere? Quale torto più grande si poteva fare? Determinare con freddo ragionamento il destino di questi embrioni poteva dirsi un atto etico?
Andrew non avrebbe saputo dirlo. L’unica certezza era che il genere umano ne aveva bisogno ed era necessario agire come avevano fatto i suoi predecessori. Come tutti da millecento anni vivevano facendo il loro dovere, anche questi due piccoli embrioni avrebbero dovuto vivere al servizio della collettività. Questo era il destino toccato loro. Andrew alzò la mano, premette il pulsante e si fece scannerizzare la retina.
Lo fece per l’umanità.
Lo fece per un bene più grande.
Un braccio meccanico prelevò dalle torri criogeniche i due dischi all’interno dei quali alloggiavano gli embrioni e li pose all’interno di altrettante incubatrici che, come uteri accoglienti, avrebbero guidato lo sviluppo delle nuove vite per i successivi otto mesi.
Andrew si voltò verso la folla, sollevò gli angoli della bocca in un sorriso triste.
Era fatta.
La festa poteva iniziare.
* * *
A causa del numero limitato della popolazione, partita da soli cinquanta individui, quello che in biologia si definisce un “collo di bottiglia”, è stato impossibile evitare l’insorgenza di una grande varietà di malattie genetiche recessive. Per questo motivo era stata stabilita una legge immutabile, articoli sacri che sarebbero stati sciolti solo al momento dell’atterraggio. Nessuno avrebbe dovuto procreare senza autorizzazione. Ogni figlio nato fuori dal sistema Match Mate sarebbe stato considerato fuori legge e destinato al riciclo per evitare un ulteriore deterioramento del pool genico.
Ovviamente, gli esseri umani non sono fatti per vivere sotto tali costrizioni e le relazioni esterne al sistema Match Mate sono all’ordine del giorno. A patto che non generino figli, non sono demonizzate ma incentivate. Non è infatti raro per ciascuno sull’Endeavour avere più amanti. Tuttavia, avendo di fronte oltre un millennio di isolamento occorreva fornire saltuariamente nuova linfa vitale. Sarebbe stato necessario aggiungere qualche nuovo individuo al mix. I cento membri dell’equipaggio rimasti in animazione sospesa sembrarono la scelta più ovvia, sarebbe bastato scongelarne uno ogni tanto. Tuttavia, possedevano competenze che potevano risultare essenziali su Elpis e svegliando loro si sarebbe posto il problema di dover tramandare tali conoscenze. Dunque, l’unica soluzione era di incubare alcuni degli embrioni. Felicity Green decretò che sarebbero stati scongelati due embrioni ogni lustro e millecento anni dopo ci atteniamo ancora a questa legge.
Mi chiedo come sia stato per i cinquanta che hanno dato il via alla civiltà sull’Endeavour.
Mi chiedo come sia stato per loro crescere i primi embrioni, gli unici esseri umani a non aver mai visto la Terra, nati su una nave spaziale. Per noi, ormai, non si pone il problema… siamo tutti nati e cresciuti su un’astronave, tra noi e gli embrioni non ci sono differenze oltre alla modalità di gestazione: nove mesi nel grembo materno invece di otto in una vasca d’incubazione.
Ovviamente, gli esseri umani non sono fatti per vivere sotto tali costrizioni e le relazioni esterne al sistema Match Mate sono all’ordine del giorno. A patto che non generino figli, non sono demonizzate ma incentivate. Non è infatti raro per ciascuno sull’Endeavour avere più amanti. Tuttavia, avendo di fronte oltre un millennio di isolamento occorreva fornire saltuariamente nuova linfa vitale. Sarebbe stato necessario aggiungere qualche nuovo individuo al mix. I cento membri dell’equipaggio rimasti in animazione sospesa sembrarono la scelta più ovvia, sarebbe bastato scongelarne uno ogni tanto. Tuttavia, possedevano competenze che potevano risultare essenziali su Elpis e svegliando loro si sarebbe posto il problema di dover tramandare tali conoscenze. Dunque, l’unica soluzione era di incubare alcuni degli embrioni. Felicity Green decretò che sarebbero stati scongelati due embrioni ogni lustro e millecento anni dopo ci atteniamo ancora a questa legge.
Mi chiedo come sia stato per i cinquanta che hanno dato il via alla civiltà sull’Endeavour.
Mi chiedo come sia stato per loro crescere i primi embrioni, gli unici esseri umani a non aver mai visto la Terra, nati su una nave spaziale. Per noi, ormai, non si pone il problema… siamo tutti nati e cresciuti su un’astronave, tra noi e gli embrioni non ci sono differenze oltre alla modalità di gestazione: nove mesi nel grembo materno invece di otto in una vasca d’incubazione.
20 settembre 3617
Endeavour
Diario del Capitano Cook
Diario del Capitano Cook
Anche se immagino che le astronavi partite dopo di noi dispongano di tecnologie più avanzate, che vantino ulteriori accorgimenti, sistemi più fini e programmi più sofisticati, la nostra rappresenta l’apice della tecnologia dell’epoca in cui è stata costruita. Ogni singolo componente, sia hardware che software, è stato studiato per decenni in modo da garantire la sopravvivenza su Elpis. L’impresa da compiere è pionieristica da molteplici punti di vista, mai nessun veicolo ha portato una comunità attraverso lo spazio per colonizzare un nuovo pianeta e l’Endeavour detiene il record per lunghezza del viaggio, durata dello stesso e numero di esseri umani trasportati. È stata costruita mediante una nuova lega che funge da scudo termico e da pannello solare, l’intera superficie della nave è in grado di assorbire le radiazioni delle stelle trasformandole in energia elettrica per alimentare la strumentazione di bordo. C’è una sola cosa che non è possibile alimentare in questo modo: le celle criogeniche.
La tecnologia delle celle criogeniche utilizzate per mantenere in animazione sospesa sia l’equipaggio che gli embrioni era di recente scoperta e richiedeva una quantità esorbitante d’energia. Serviva la potenza di una centrale elettrica per mantenere in sospensione un pugno di persone, per cui all’inizio non era stata ritenuta una soluzione attuabile. Questo fino alla scoperta della possibilità di utilizzare l’antimateria.
L’Endeavour venne dotata di due motori ad antimateria in grado di produrre una quantità di energia mai vista prima. Energia che fu impiegata per la propulsione iniziale in modo da poter raggiungere una velocità pari a un trentesimo di quella della luce e poi venne dirottata quasi interamente alle celle criogeniche. La poca energia rimanente generata dall’antimateria era destinata alle variazioni di rotta nel caso il pilota automatico avesse ritenuto necessario farne.
Come tutte le prime volte, però, era naturale che ci fosse la possibilità che qualcosa andasse storto. Così, non si è mai capito per quale motivo, il pilota automatico non effettuò alcuna correzione quando entrammo in rotta di collisione con l’asteroide che segnò l’inizio di tutto. Nessuno ha mai capito cosa sia accaduto di preciso, quale sistema non abbia funzionato… fatto sta che l’asteroide ci colpì danneggiando i primi due anelli e il corpo centrale dell’astronave, mandando in tilt i sistemi di comunicazione e di manovra, facendo saltare chissà dove nello spazio dei componenti fondamentali impossibili da ricreare e scalfendo uno dei due motori ad antimateria le cui prestazioni calarono al cinquanta percento.
Questo calo di potenza determinò l’evento che noi chiamiamo “Risveglio”.
Vorrei poterlo definire un “caso isolato”, ma il guaio di un problema di cui non si conosce l’origine è che non è possibile prevedere quando si verificherà di nuovo.
La tecnologia delle celle criogeniche utilizzate per mantenere in animazione sospesa sia l’equipaggio che gli embrioni era di recente scoperta e richiedeva una quantità esorbitante d’energia. Serviva la potenza di una centrale elettrica per mantenere in sospensione un pugno di persone, per cui all’inizio non era stata ritenuta una soluzione attuabile. Questo fino alla scoperta della possibilità di utilizzare l’antimateria.
L’Endeavour venne dotata di due motori ad antimateria in grado di produrre una quantità di energia mai vista prima. Energia che fu impiegata per la propulsione iniziale in modo da poter raggiungere una velocità pari a un trentesimo di quella della luce e poi venne dirottata quasi interamente alle celle criogeniche. La poca energia rimanente generata dall’antimateria era destinata alle variazioni di rotta nel caso il pilota automatico avesse ritenuto necessario farne.
Come tutte le prime volte, però, era naturale che ci fosse la possibilità che qualcosa andasse storto. Così, non si è mai capito per quale motivo, il pilota automatico non effettuò alcuna correzione quando entrammo in rotta di collisione con l’asteroide che segnò l’inizio di tutto. Nessuno ha mai capito cosa sia accaduto di preciso, quale sistema non abbia funzionato… fatto sta che l’asteroide ci colpì danneggiando i primi due anelli e il corpo centrale dell’astronave, mandando in tilt i sistemi di comunicazione e di manovra, facendo saltare chissà dove nello spazio dei componenti fondamentali impossibili da ricreare e scalfendo uno dei due motori ad antimateria le cui prestazioni calarono al cinquanta percento.
Questo calo di potenza determinò l’evento che noi chiamiamo “Risveglio”.
Vorrei poterlo definire un “caso isolato”, ma il guaio di un problema di cui non si conosce l’origine è che non è possibile prevedere quando si verificherà di nuovo.
* * *
Un boato assordante sconquassò la nave. Il mondo roteò e una fitta di dolore gli colpì la schiena. Si trovò a terra senza avere idea di come ci fosse arrivato. Strabuzzò gli occhi, stringeva la coperta in una mano e Silvia l’aveva seguito per metà giù dal letto.
«Che cazzo è stato?!», strillò lei recuperando l’equilibrio e mettendosi a sedere.
Andrew iniziò a sentirsi più leggero.
«Niente di buono», disse mentre la gravità artificiale veniva meno.
«Merda», imprecò Silvia scostandosi i capelli dal viso.
«Qualcosa ha interrotto la rotazione».
Le gambe dei pantaloni si sollevarono da terra frapponendosi tra loro, ancorati al suolo dalla cinta su cui era caduto. Andrew li agguantò e quando fece per spostarsi per liberarli si trovò a galleggiare lui stesso. Una sensazione di vuoto gli afferrò lo stomaco, ma era addestrato a operare in assenza di gravità. Mise i pantaloni con entrambe le gambe in un sol colpo, allacciò le scarpe, prese l’uniforme e infilò l’auricolare.
«Elsa, cosa succede?», chiese senza ottenere risposta. «Elsa? Com’è la situazione?».
Non era mai successo che tardasse a dare riscontro.
«Andiamo al ponte di comando!».
Silvia tirò la felpa fino a far sbucare la testa e annuì.
Andrew appoggiò i piedi alla cassettiera e si diede una spinta che lo proiettò a mezz’aria fino alla porta della cabina. Abbassò la maniglia e poggiò una mano sul muro per evitare di tirare sé stesso contro la porta invece di aprirla. In un attimo furono nel corridoio. L’Endeavour era attrezzata in caso di perdita della rotazione: due corrimani erano fissati a ogni parete garantendo un facile appiglio e consentendo di spostarsi velocemente da una zona all’altra della nave anche in assenza di gravità. Il problema era che, per ricavare spazio abitabile, tutte le attrezzature e le apparecchiature che erano state tolte dalle stanze erano state addossate ai muri e impedivano di raggiungere i corrimani. Aggrappandosi agli spigoli delle casse e dei macchinari si spinsero avanti, fluttuando per i corridoi, fino a raggiungere la sala di comando che distava poco dalla cabina del Capitano.
Cartellette volteggiavano spargendo documenti dappertutto, la sirena emetteva un suono che andava intensificandosi e indebolendosi in una sequenza che non aveva mai sentito mentre le luci d’allarme mandavano bagliori rossi e gli schermi si erano tramutati dal consueto azzurro in una tonalità scura d’arancione. La ciurma era anch’essa per aria che cercava di raccapezzarsi urlando da un estremo all’altro della plancia.
«Capitano!», giunse un grido sopra di loro.
Alzarono lo sguardo e videro Karl che si dava una spinta dal soffitto per arrivare alla loro altezza in mezzo alla stanza.
«Che diavolo sta succedendo?», urlò Andrew per sovrastare il rumore.
«È successo, Capitano! Come al Risveglio», farfugliò lui. «La strumentazione non ha individuato l’asteroide, l’abbiamo visto a occhio nudo quando ormai era troppo tardi. Ha colpito la nave frontalmente».
«Rapporto danni?».
«Primo e secondo anello parzialmente danneggiati, motore ad antimateria frontale compromesso ma ancora non sappiamo in che stato versa».
«Merda… lo scudo termico?».
«Dopo aver impattato sui primi due anelli, l’asteroide è rotolato sul corpo principale della nave. Scudo termico e antiradiazioni assenti nella zona dell’impatto e compromessi al venti percento per il resto dell’astronave».
«Le paratie stagne si sono chiuse?».
«Non lo sappiamo, i sistemi sono in tilt… ma rileviamo una perdita d’ossigeno dai primi due anelli…».
«Merda, quello ha priorità assoluta, non possiamo permetterci di perdere atmosfera. Che fine ha fatto Elsa?».
«Al momento dell’impatto deve aver battuto la testa. Era priva di sensi, l’ho fatta portare in infermeria».
«Merda…», disse ancora Andrew. Sarebbe stata preziosa per gestire quella crisi, ora avrebbero dovuto arrangiarsi da soli. «Raduna due squadre di sigillatori che si occupino degli anelli e una che vada al corpo centra…».
Un rombo echeggiò, seguito dal rumore di metallo che si piegava. Con un secco schiocco, parte della copertura della sala di comando saltò. Alcuni membri dell’equipaggio vennero risucchiati nella breccia, dilaniati dalle lamiere affilate che ne costituivano i lati. L’aria ululava nell’essere risucchiata fuori dalla nave. Andrew afferrò una delle scrivanie più vicine, erano in metallo e fuse col pavimento: un appiglio sicuro. Sentì uno strattone alla gamba e guardandosi alle spalle vide Silvia che era riuscita ad aggrapparsi ai suoi pantaloni ma pian piano scivolava verso il piede.
«Prendi la mia mano!».
Lei allungò il braccio e le loro dita si sfiorarono appena.
«Non ci arrivo!».
Andrew piegò la gamba digrignando i denti e riuscirono ad afferrarsi. Con uno sforzo che gli tolse il fiato la tirò tenendola stretta a sé finché non fu a portata della scrivania d’acciaio.
«Le bombole sigillanti!», urlò Silvia. «Sono nello scomparto inferiore di fianco alla postazione di controllo sistemi interni».
Andrew si guardò intorno: si trovavano a una postazione di distanza rispetto a quella indicata. Non c’era segno di Karl e in mezzo alla confusione e alla gente urlante era impossibile individuarlo. Poteva solo sperare che fosse riuscito a sopravvivere e concentrarsi sul risolvere la situazione.
Raggiunse l’estremità della scrivania a cui era aggrappato e piegò le gambe rannicchiandosi in posizione fetale, puntò i piedi sull’angolo e si preparò a scattare. Come un tuffatore, si diede tutta la spinta che poté e proiettò le braccia in avanti. La forza d’aspirazione non fu sufficiente da portarlo fuori traiettoria e arrivò diretto contro l’altra scrivania, sbattendo il petto contro lo spigolo. Gli si spezzò il respiro ma riuscì a tenersi saldo.
Aspettò qualche secondo cercando di riprendere fiato e si accorse che c’era poco ossigeno nell’aria: dovevano affrettarsi a chiudere la breccia prima di perdere i sensi. Oltrepassò il piano scivolando di pancia e aggrappandosi alle basi degli schermi, anch’esse di metallo, finché giunse sul lato opposto vicino agli armadi. Si sporse ma la maniglia dell’anta sfuggiva alla sua presa per poco più di una spanna. Agganciò la scrivania con le gambe e si sporse col busto. Afferrò la maniglia e spalancò l’anta. Una serie di bombole di schiuma sigillante aleggiava all’interno. Ne prese una e con un colpo d’addominali la lanciò a Silvia, poi ne prese un’altra per sé.
«Come arriviamo alla breccia senza farci risucchiare?», urlò lei.
Andrew non avrebbe saputo dirlo.
«Ho trovato delle suole magnetiche», gridò Karl comparendogli di fianco.
«Allora non sei morto!».
«No, Capitano. Non ancora!», disse lui lanciando un paio di suole magnetiche di fianco a ciascuno di loro.
Andrew dovette piegarsi su sé stesso per raggiungerle e diede uno strattone per staccarle dalla superficie d’acciaio dove s’erano attaccate. Infilò una scarpa nella prima e strinse le cinghie. Appoggiò il piede a terra tirando un sospiro di sollievo sentendolo ancorarsi al pavimento. Infilò anche la seconda e finalmente poté rimettersi in piedi. Si voltò verso Silvia e vide che aveva fatto lo stesso e gli stava rivolgendo un pollice alzato. Passò una bombola al Primo Ufficiale e si incamminarono scalando la parete metallica fino a raggiungere la breccia.
Andrew irrigidì i muscoli man mano che si avvicinavano, sentendo la forza d’aspirazione che minacciava di attirarlo sulle punte frastagliate delle ferraglie. Premette la maniglia della bombola e direzionò il getto della spuma isolante alle estremità delle placche di metallo spezzate, riempiendo l’intera voragine. La spuma solidificò in fretta a contatto con l’aria e si espanse fino a tappare la breccia. L’aspirazione cessò e i tre rimasero in piedi sul soffitto per un lungo momento, inalando respiri affannosi, grati del fatto che l’universo non stesse più risucchiando loro l’ossigeno dai polmoni.
«Mi fa piacere vederti vivo…», disse Andrew appoggiando una mano sulla spalla del ragazzo. «Non avevo davvero voglia di nominare un nuovo Primo Ufficiale».
Karl rise suo malgrado.
«Come procediamo?», chiese Silvia umettandosi le labbra screpolate.
Andrew tirò un respiro profondo.
«Come stavo dicendo… è fondamentale mettere in sicurezza i primi due anelli e il corpo centrale. Abbiamo bisogno di una squadra di sigillatori per ciascuno, che operino sia all’interno che all’esterno. Poi ne serve anche una che sistemi la falla che abbiamo qui, se perdiamo la plancia è tutto inutile dal momento che invece di atterrare su Elpis ci scontreremmo col pianeta a dieci milioni di metri al secondo…».
«Ci mancherebbe solo questo…», mormorò Karl voltandosi per andare a dare disposizioni.
«Karl», disse Andrew prima che il Primo Ufficiale disattivasse le scarpe e si lanciasse verso il basso. «Io e Silvia andiamo al motore ad antimateria che è stato danneggiato, non possiamo permetterci di perderlo. Manda dei tecnici appena possibile».
«Sarà fatto!».
«Portiamo le bombole», disse lei. «Non si sa mai».
Andrew annuì e si incamminarono sul soffitto, scesero dalla parete e continuarono lungo il corridoio. Dover strappare i piedi dal suolo a ogni passo lo faceva ondeggiare come un pendolo e rendeva scomodo procedere per lunghe distanze. Ben presto iniziarono a dolergli dei muscoli di cui non sapeva l’esistenza, ma non c’era altro da fare prima che tutte le brecce venissero chiuse e la rotazione ristabilita. Risalirono il passaggio che portava dal primo anello al corpo centrale dell’Endeavour ed entrarono nell’immenso cilindro dove veniva stivato il carburante, le apparecchiature più ingombranti e che era dimora dei motori. La squadra d’emergenza addetta a quella zona si stava già occupando di chiudere ogni breccia per cui si respirava una buona atmosfera.
Rispettivamente a un quarto e tre quarti della lunghezza del corpo centrale c’erano i due motori che davano energia all’Endeavour. C’erano voluti decenni a produrre l’antimateria necessaria per il viaggio e ormai ne restava solo una piccolissima quantità, sufficiente per mantenere tutti i sistemi attivi fino all’arrivo a Elpis e consentire un graduale rallentamento per l’atterraggio.
«Speriamo che i danni non siano ingenti», disse Andrew incamminandosi verso il motore di testa da cui partivano di tanto in tanto delle scintille.
«Forse dovremmo aspettare i tecnici», obiettò Silvia afferrandolo per un braccio. «Dovrebbero arrivare a momenti…».
«Un po’ me ne intendo», rispose Andrew. «Non possiamo aspettare e la situazione non sembra così perico…».
Il motore esplose in una colonna di fuoco che divelse l’intera parete frontale del corpo dell’astronave. Il fragore assordante del metallo che andava in pezzi riverberò attraverso lo scafo scuotendo le ossa. La vampata di calore arrostì la pelle come fiamma viva e l’onda d’urto si abbatté su di loro come un uragano. Andrew e Silvia si piegarono come fili d’erba ma le suole magnetiche ressero e li salvarono dal venir sbalzati nelle profondità dell’universo. L’astronave ruotò su sé stessa come impazzita in risposta alla forza impressa dall’esplosione. Il motore, semidistrutto, iniziò a fondere e in pochi attimi non rimase altro che metallo liquido dove poco prima c’era uno dei più grandi prodigi della scienza.
L’atmosfera si dissipò in pochi secondi, il freddo produsse cristalli di ghiaccio sulla superficie dello scafo e la pressione negativa ruppe i capillari. Barcollando, si rifugiarono dietro alla porta stagna da cui erano appena usciti.
«Cazzo!», urlò Andrew, la pelle pareva andargli a fuoco.
«Cazzo!», gli fece eco Silvia, il volto venato di sangue a causa dei capillari scoppiati. «Cos’è stato?!».
«Devono esser venute meno le trappole elettromagnetiche che immagazzinavano l’antimateria».
Lo strano moto della nave gli stava facendo venire il mal di mare. Si appoggiò alla parete per cercare di contrastarlo, ma in assenza di gravità non era facile trovare un sostegno.
«Vuoi dire che abbiamo perso non solo uno dei due motori ma anche metà della principale fonte d’energia della nave?».
«Sì… e vuol dire anche che dobbiamo ringraziare che sia successo ora che siamo quasi a fine viaggio e l’antimateria era quasi esaurita, altrimenti non esisterebbe più una nave su cui viaggiare».
«I sigillatori?», chiese lei scrutando attraverso l’oblò.
«Avevano le tute, se non sono stati sbalzati chissà dove dovrebbero star bene».
«Sarebbe una buona cosa controllare anche il secondo motore…».
«È disaccoppiato dal primo», disse Andrew passandosi le mani sul volto, chiedendosi se fosse rosso come quello della compagna. «È altro di cui dobbiamo preoccuparci».
Silvia lo guardò con la fronte corrugata ma Andrew la vedeva sfocata attraverso le lacrime.
«Ci sarà un alto prezzo da pagare per l’energia mancante…».
«Che cazzo è stato?!», strillò lei recuperando l’equilibrio e mettendosi a sedere.
Andrew iniziò a sentirsi più leggero.
«Niente di buono», disse mentre la gravità artificiale veniva meno.
«Merda», imprecò Silvia scostandosi i capelli dal viso.
«Qualcosa ha interrotto la rotazione».
Le gambe dei pantaloni si sollevarono da terra frapponendosi tra loro, ancorati al suolo dalla cinta su cui era caduto. Andrew li agguantò e quando fece per spostarsi per liberarli si trovò a galleggiare lui stesso. Una sensazione di vuoto gli afferrò lo stomaco, ma era addestrato a operare in assenza di gravità. Mise i pantaloni con entrambe le gambe in un sol colpo, allacciò le scarpe, prese l’uniforme e infilò l’auricolare.
«Elsa, cosa succede?», chiese senza ottenere risposta. «Elsa? Com’è la situazione?».
Non era mai successo che tardasse a dare riscontro.
«Andiamo al ponte di comando!».
Silvia tirò la felpa fino a far sbucare la testa e annuì.
Andrew appoggiò i piedi alla cassettiera e si diede una spinta che lo proiettò a mezz’aria fino alla porta della cabina. Abbassò la maniglia e poggiò una mano sul muro per evitare di tirare sé stesso contro la porta invece di aprirla. In un attimo furono nel corridoio. L’Endeavour era attrezzata in caso di perdita della rotazione: due corrimani erano fissati a ogni parete garantendo un facile appiglio e consentendo di spostarsi velocemente da una zona all’altra della nave anche in assenza di gravità. Il problema era che, per ricavare spazio abitabile, tutte le attrezzature e le apparecchiature che erano state tolte dalle stanze erano state addossate ai muri e impedivano di raggiungere i corrimani. Aggrappandosi agli spigoli delle casse e dei macchinari si spinsero avanti, fluttuando per i corridoi, fino a raggiungere la sala di comando che distava poco dalla cabina del Capitano.
Cartellette volteggiavano spargendo documenti dappertutto, la sirena emetteva un suono che andava intensificandosi e indebolendosi in una sequenza che non aveva mai sentito mentre le luci d’allarme mandavano bagliori rossi e gli schermi si erano tramutati dal consueto azzurro in una tonalità scura d’arancione. La ciurma era anch’essa per aria che cercava di raccapezzarsi urlando da un estremo all’altro della plancia.
«Capitano!», giunse un grido sopra di loro.
Alzarono lo sguardo e videro Karl che si dava una spinta dal soffitto per arrivare alla loro altezza in mezzo alla stanza.
«Che diavolo sta succedendo?», urlò Andrew per sovrastare il rumore.
«È successo, Capitano! Come al Risveglio», farfugliò lui. «La strumentazione non ha individuato l’asteroide, l’abbiamo visto a occhio nudo quando ormai era troppo tardi. Ha colpito la nave frontalmente».
«Rapporto danni?».
«Primo e secondo anello parzialmente danneggiati, motore ad antimateria frontale compromesso ma ancora non sappiamo in che stato versa».
«Merda… lo scudo termico?».
«Dopo aver impattato sui primi due anelli, l’asteroide è rotolato sul corpo principale della nave. Scudo termico e antiradiazioni assenti nella zona dell’impatto e compromessi al venti percento per il resto dell’astronave».
«Le paratie stagne si sono chiuse?».
«Non lo sappiamo, i sistemi sono in tilt… ma rileviamo una perdita d’ossigeno dai primi due anelli…».
«Merda, quello ha priorità assoluta, non possiamo permetterci di perdere atmosfera. Che fine ha fatto Elsa?».
«Al momento dell’impatto deve aver battuto la testa. Era priva di sensi, l’ho fatta portare in infermeria».
«Merda…», disse ancora Andrew. Sarebbe stata preziosa per gestire quella crisi, ora avrebbero dovuto arrangiarsi da soli. «Raduna due squadre di sigillatori che si occupino degli anelli e una che vada al corpo centra…».
Un rombo echeggiò, seguito dal rumore di metallo che si piegava. Con un secco schiocco, parte della copertura della sala di comando saltò. Alcuni membri dell’equipaggio vennero risucchiati nella breccia, dilaniati dalle lamiere affilate che ne costituivano i lati. L’aria ululava nell’essere risucchiata fuori dalla nave. Andrew afferrò una delle scrivanie più vicine, erano in metallo e fuse col pavimento: un appiglio sicuro. Sentì uno strattone alla gamba e guardandosi alle spalle vide Silvia che era riuscita ad aggrapparsi ai suoi pantaloni ma pian piano scivolava verso il piede.
«Prendi la mia mano!».
Lei allungò il braccio e le loro dita si sfiorarono appena.
«Non ci arrivo!».
Andrew piegò la gamba digrignando i denti e riuscirono ad afferrarsi. Con uno sforzo che gli tolse il fiato la tirò tenendola stretta a sé finché non fu a portata della scrivania d’acciaio.
«Le bombole sigillanti!», urlò Silvia. «Sono nello scomparto inferiore di fianco alla postazione di controllo sistemi interni».
Andrew si guardò intorno: si trovavano a una postazione di distanza rispetto a quella indicata. Non c’era segno di Karl e in mezzo alla confusione e alla gente urlante era impossibile individuarlo. Poteva solo sperare che fosse riuscito a sopravvivere e concentrarsi sul risolvere la situazione.
Raggiunse l’estremità della scrivania a cui era aggrappato e piegò le gambe rannicchiandosi in posizione fetale, puntò i piedi sull’angolo e si preparò a scattare. Come un tuffatore, si diede tutta la spinta che poté e proiettò le braccia in avanti. La forza d’aspirazione non fu sufficiente da portarlo fuori traiettoria e arrivò diretto contro l’altra scrivania, sbattendo il petto contro lo spigolo. Gli si spezzò il respiro ma riuscì a tenersi saldo.
Aspettò qualche secondo cercando di riprendere fiato e si accorse che c’era poco ossigeno nell’aria: dovevano affrettarsi a chiudere la breccia prima di perdere i sensi. Oltrepassò il piano scivolando di pancia e aggrappandosi alle basi degli schermi, anch’esse di metallo, finché giunse sul lato opposto vicino agli armadi. Si sporse ma la maniglia dell’anta sfuggiva alla sua presa per poco più di una spanna. Agganciò la scrivania con le gambe e si sporse col busto. Afferrò la maniglia e spalancò l’anta. Una serie di bombole di schiuma sigillante aleggiava all’interno. Ne prese una e con un colpo d’addominali la lanciò a Silvia, poi ne prese un’altra per sé.
«Come arriviamo alla breccia senza farci risucchiare?», urlò lei.
Andrew non avrebbe saputo dirlo.
«Ho trovato delle suole magnetiche», gridò Karl comparendogli di fianco.
«Allora non sei morto!».
«No, Capitano. Non ancora!», disse lui lanciando un paio di suole magnetiche di fianco a ciascuno di loro.
Andrew dovette piegarsi su sé stesso per raggiungerle e diede uno strattone per staccarle dalla superficie d’acciaio dove s’erano attaccate. Infilò una scarpa nella prima e strinse le cinghie. Appoggiò il piede a terra tirando un sospiro di sollievo sentendolo ancorarsi al pavimento. Infilò anche la seconda e finalmente poté rimettersi in piedi. Si voltò verso Silvia e vide che aveva fatto lo stesso e gli stava rivolgendo un pollice alzato. Passò una bombola al Primo Ufficiale e si incamminarono scalando la parete metallica fino a raggiungere la breccia.
Andrew irrigidì i muscoli man mano che si avvicinavano, sentendo la forza d’aspirazione che minacciava di attirarlo sulle punte frastagliate delle ferraglie. Premette la maniglia della bombola e direzionò il getto della spuma isolante alle estremità delle placche di metallo spezzate, riempiendo l’intera voragine. La spuma solidificò in fretta a contatto con l’aria e si espanse fino a tappare la breccia. L’aspirazione cessò e i tre rimasero in piedi sul soffitto per un lungo momento, inalando respiri affannosi, grati del fatto che l’universo non stesse più risucchiando loro l’ossigeno dai polmoni.
«Mi fa piacere vederti vivo…», disse Andrew appoggiando una mano sulla spalla del ragazzo. «Non avevo davvero voglia di nominare un nuovo Primo Ufficiale».
Karl rise suo malgrado.
«Come procediamo?», chiese Silvia umettandosi le labbra screpolate.
Andrew tirò un respiro profondo.
«Come stavo dicendo… è fondamentale mettere in sicurezza i primi due anelli e il corpo centrale. Abbiamo bisogno di una squadra di sigillatori per ciascuno, che operino sia all’interno che all’esterno. Poi ne serve anche una che sistemi la falla che abbiamo qui, se perdiamo la plancia è tutto inutile dal momento che invece di atterrare su Elpis ci scontreremmo col pianeta a dieci milioni di metri al secondo…».
«Ci mancherebbe solo questo…», mormorò Karl voltandosi per andare a dare disposizioni.
«Karl», disse Andrew prima che il Primo Ufficiale disattivasse le scarpe e si lanciasse verso il basso. «Io e Silvia andiamo al motore ad antimateria che è stato danneggiato, non possiamo permetterci di perderlo. Manda dei tecnici appena possibile».
«Sarà fatto!».
«Portiamo le bombole», disse lei. «Non si sa mai».
Andrew annuì e si incamminarono sul soffitto, scesero dalla parete e continuarono lungo il corridoio. Dover strappare i piedi dal suolo a ogni passo lo faceva ondeggiare come un pendolo e rendeva scomodo procedere per lunghe distanze. Ben presto iniziarono a dolergli dei muscoli di cui non sapeva l’esistenza, ma non c’era altro da fare prima che tutte le brecce venissero chiuse e la rotazione ristabilita. Risalirono il passaggio che portava dal primo anello al corpo centrale dell’Endeavour ed entrarono nell’immenso cilindro dove veniva stivato il carburante, le apparecchiature più ingombranti e che era dimora dei motori. La squadra d’emergenza addetta a quella zona si stava già occupando di chiudere ogni breccia per cui si respirava una buona atmosfera.
Rispettivamente a un quarto e tre quarti della lunghezza del corpo centrale c’erano i due motori che davano energia all’Endeavour. C’erano voluti decenni a produrre l’antimateria necessaria per il viaggio e ormai ne restava solo una piccolissima quantità, sufficiente per mantenere tutti i sistemi attivi fino all’arrivo a Elpis e consentire un graduale rallentamento per l’atterraggio.
«Speriamo che i danni non siano ingenti», disse Andrew incamminandosi verso il motore di testa da cui partivano di tanto in tanto delle scintille.
«Forse dovremmo aspettare i tecnici», obiettò Silvia afferrandolo per un braccio. «Dovrebbero arrivare a momenti…».
«Un po’ me ne intendo», rispose Andrew. «Non possiamo aspettare e la situazione non sembra così perico…».
Il motore esplose in una colonna di fuoco che divelse l’intera parete frontale del corpo dell’astronave. Il fragore assordante del metallo che andava in pezzi riverberò attraverso lo scafo scuotendo le ossa. La vampata di calore arrostì la pelle come fiamma viva e l’onda d’urto si abbatté su di loro come un uragano. Andrew e Silvia si piegarono come fili d’erba ma le suole magnetiche ressero e li salvarono dal venir sbalzati nelle profondità dell’universo. L’astronave ruotò su sé stessa come impazzita in risposta alla forza impressa dall’esplosione. Il motore, semidistrutto, iniziò a fondere e in pochi attimi non rimase altro che metallo liquido dove poco prima c’era uno dei più grandi prodigi della scienza.
L’atmosfera si dissipò in pochi secondi, il freddo produsse cristalli di ghiaccio sulla superficie dello scafo e la pressione negativa ruppe i capillari. Barcollando, si rifugiarono dietro alla porta stagna da cui erano appena usciti.
«Cazzo!», urlò Andrew, la pelle pareva andargli a fuoco.
«Cazzo!», gli fece eco Silvia, il volto venato di sangue a causa dei capillari scoppiati. «Cos’è stato?!».
«Devono esser venute meno le trappole elettromagnetiche che immagazzinavano l’antimateria».
Lo strano moto della nave gli stava facendo venire il mal di mare. Si appoggiò alla parete per cercare di contrastarlo, ma in assenza di gravità non era facile trovare un sostegno.
«Vuoi dire che abbiamo perso non solo uno dei due motori ma anche metà della principale fonte d’energia della nave?».
«Sì… e vuol dire anche che dobbiamo ringraziare che sia successo ora che siamo quasi a fine viaggio e l’antimateria era quasi esaurita, altrimenti non esisterebbe più una nave su cui viaggiare».
«I sigillatori?», chiese lei scrutando attraverso l’oblò.
«Avevano le tute, se non sono stati sbalzati chissà dove dovrebbero star bene».
«Sarebbe una buona cosa controllare anche il secondo motore…».
«È disaccoppiato dal primo», disse Andrew passandosi le mani sul volto, chiedendosi se fosse rosso come quello della compagna. «È altro di cui dobbiamo preoccuparci».
Silvia lo guardò con la fronte corrugata ma Andrew la vedeva sfocata attraverso le lacrime.
«Ci sarà un alto prezzo da pagare per l’energia mancante…».
* * *
Le brecce sono state chiuse, i due anelli e il corpo centrale riparati e la corretta rotazione ripristinata. Tuttavia, non abbiamo potuto far niente per l’energia andata perduta e, una volta riattivata la plancia, non c’è voluto molto a fare i conti di quella che serve. Tutti i sistemi di bordo possono essere alimentati grazie ai pannelli solari di cui è composto lo scudo termico ma… per la decelerazione e l’atterraggio è fondamentale l’energia dei motori ad antimateria, energia che si è appena dimezzata e non ci vuole un genio a capire quello che anche un cieco può vedere… c’è solo un’altra cosa che viene alimentata tramite i motori ad antimateria: le celle criogeniche.
Mi sono trovato nella stessa posizione di Felicity Green.
Cos’avrei dovuto fare?
Non c’erano altre soluzioni al problema… si trattava di scegliere tra sacrificare poche vite o l’umanità intera. Accettando il ruolo di Capitano mi sono assunto il compito di compiere scelte del genere, lo sapevo fin dall’inizio e il giorno che avevo tanto temuto è giunto. Come Felicity prima di me, sapevo di non poter scongelare i cento membri dell’equipaggio originale in animazione sospesa e l’alternativa poteva essere una e una sola.
Dopo aver fatto bene i calcoli sul consumo sono stato costretto a spegnere metà delle celle criogeniche nel reparto embrioni. Mentre scrivo, cinquecento embrioni stanno andando al riciclo. Cinquecento vite umane, che avrebbero potuto svilupparsi in pace su Elpis, godendosi il tiepido sole di TRAPPIST-1, stroncate in questo modo da un incidente casuale che non siamo riusciti a prevenire.
Che non sono riuscito a prevenire.
Dei mille embrioni trasportati dall’Endeavour non ce ne rimangono che sessanta e mancano ventidue anni all’arrivo sul pianeta, questo vuol dire quattro eventi di incubazione, altri otto embrioni che non nasceranno su Elpis. Non posso credere che di mille embrioni, se tutto andrà bene, riusciremo a portarne a destinazione solo cinquantadue.
Cinquecento embrioni sono avviati al riciclo e ancora non riesco a credere di aver dato l’ordine… l’unica cosa che mi fa andare avanti è il pensiero di non aver avuto scelta.
La consapevolezza di averlo fatto per un bene più grande.
Mi sono trovato nella stessa posizione di Felicity Green.
Cos’avrei dovuto fare?
Non c’erano altre soluzioni al problema… si trattava di scegliere tra sacrificare poche vite o l’umanità intera. Accettando il ruolo di Capitano mi sono assunto il compito di compiere scelte del genere, lo sapevo fin dall’inizio e il giorno che avevo tanto temuto è giunto. Come Felicity prima di me, sapevo di non poter scongelare i cento membri dell’equipaggio originale in animazione sospesa e l’alternativa poteva essere una e una sola.
Dopo aver fatto bene i calcoli sul consumo sono stato costretto a spegnere metà delle celle criogeniche nel reparto embrioni. Mentre scrivo, cinquecento embrioni stanno andando al riciclo. Cinquecento vite umane, che avrebbero potuto svilupparsi in pace su Elpis, godendosi il tiepido sole di TRAPPIST-1, stroncate in questo modo da un incidente casuale che non siamo riusciti a prevenire.
Che non sono riuscito a prevenire.
Dei mille embrioni trasportati dall’Endeavour non ce ne rimangono che sessanta e mancano ventidue anni all’arrivo sul pianeta, questo vuol dire quattro eventi di incubazione, altri otto embrioni che non nasceranno su Elpis. Non posso credere che di mille embrioni, se tutto andrà bene, riusciremo a portarne a destinazione solo cinquantadue.
Cinquecento embrioni sono avviati al riciclo e ancora non riesco a credere di aver dato l’ordine… l’unica cosa che mi fa andare avanti è il pensiero di non aver avuto scelta.
La consapevolezza di averlo fatto per un bene più grande.