Genere: Fantascienza, Western, azione, avventura, Distopico, horror.
“Nova aveva costante bisogno di materie prime da fagocitare. Cibo, acqua, metalli, ritrovati tecnologici dei tempi che precedevano la Caduta."
Dopo la caduta della Federazione Galattica, l’umanità si radunò in gigantesche megalopoli al di fuori delle quali regna la legge del più forte. Carter, un ex militare fresco di galera per contrabbando, si trova costretto a trasferirsi in uno dei peggiori quartieri di Nova, vivendo alla giornata. Dovendo badare da solo alla figlia, inizia a lavorare per l’Avvoltoio: insieme a uno spadaccino misterioso, dovrà recarsi fuori dalla megalopoli e raggiungere una città mineraria avvolta da una fitta tela di menzogne.
Trigger Warnings: violenza, linguaggio scurrile.
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L'avvoltoio
Rrrrrr
Carter si destò alla vibrazione della sveglia e tossì con la bocca impastata.
Rrrrrr
Sentiva un che di appiccicaticcio sulla guancia: aveva sbavato sul cuscino. La testa gli scoppiava e le palpebre erano pesanti.
Rrrrrr
Diede una manata alle sue spalle ma invece della sveglia colpì un bicchiere, rovesciandolo insieme a quanto rimaneva del suo contenuto. Il vetro tintinnò infrangendosi a terra.
«Cazzo…».
Rrrrrr
Si tirò su con un grugnito mettendosi a sedere, gli occhi gli dolevano ma riuscì a schiuderli. Si stiracchiò e spalancò la bocca in un poderoso sbadiglio.
Rrrrrr
«Ho capito!», sbottò sferrando un colpo sulla cima della sveglia. Appoggiò i piedi a terra evitando le schegge di vetro e centrò in pieno la pozzanghera di whisky che si era sparsa sulle piastrelle. «Cazzo…».
La bottiglia sul comodino era ancora aperta e ne prese un sorso prima di richiuderla. Il liquore scese lungo l’esofago grattandogli la gola ma servì ad attenuare il mal di testa. Andò in bagno, si lavò i piedi e poi prese una pezza per asciugare il whisky. Raccolse i pezzi di vetro con lo scopettino e li mise da parte. Tornò in bagno grattandosi il deretano e aprì l’acqua del lavabo. Dopo un paio di secondi in cui risuonò un rumore metallico come di qualcosa che sbatteva nelle tubature, dal rubinetto uscì un getto d’acqua marrone e ci volle un po’ prima che diventasse limpida. A quel punto la raccolse nel palmo delle mani e ci affondò il viso. Le insaponò per bene e iniziò a fregarle sul volto per poi ripulirsi fino a spazzare via il sapone e il sonno. Per il dopo sbronza ci sarebbe voluto qualcosa di più.
Appoggiò le mani sul lavabo e si guardò allo specchio. Da sopra un paio di profonde occhiaie, lo sguardo di un uomo che aveva superato i trent’anni da un pezzo ricambiò il suo. La barba incolta cresceva spezzata sulla guancia sinistra a causa di una cicatrice che arrivava fino al mento. Si passò una mano tra i capelli castano scuro, ravviandoli all’indietro. Considerò l’idea di pettinarli ma decise che non ne valeva la pena.
«Fanculo…».
Finì di darsi una lavata e sulla via della camera passò in cucina per mettere su il caffè. Non aveva mai fame appena sveglio per cui non si diede pena di preparare la colazione. Infilò i pantaloni, una camicia sgualcita e la giacca di pelle. Quando sentì la moka gorgogliare andò a spegnere il fuoco e versò il caffè in una tazzina che trovò nel lavandino. Nero sarebbe stato troppo amaro per cui ci mise un cucchiaio abbondante di zucchero. Si allacciò le scarpe mentre lasciava raffreddare la bevanda e quando non fu più bollente come l’inferno si sedette al tavolo, sorseggiandola. In breve tempo sentì tornare il sonno e le palpebre iniziarono ad abbassarsi. Si riscosse scuotendo la testa, non poteva permettersi di assopirsi. Buttò giù quel che rimaneva del caffè sperando che iniziasse ad avere effetto in fretta, mollò la tazzina nel lavandino e, senza dimenticare coltello e pistola, uscì di casa.
Discese le rampe di scale sbadigliando tra l’una e l’altra, scavalcò l’inquilino del piano di sotto che non riusciva mai a superare la prima senza collassare circondato da bottiglie mezze vuote e percorse il piccolo atrio fino a raggiungere la porta del palazzo. La schiuse con una lenta spinta e la frizzante aria mattutina che lo colpì in volto lo svegliò del tutto. Un lieve rossore colorava le nuvole nel cielo ma il sole rimaneva nascosto oltre le colossali mura di Nova.
Se il terzo anello era di gran lunga il più povero della megalopoli, il settore sud-ovest era il più dissestato dell’anello e il quartiere del Dragone era il più malfamato del suo settore, di conseguenza vi si erano radunate tutte le attività più losche che cercavano di sfuggire ai controlli della polizia. La corruzione era di casa, così come lo erano la yakuza e le aziende che sfruttavano il personale come se non esistessero i diritti dei lavoratori. I sindacati, quando esistevano, erano collusi coi padroni. Bastava pagare i soliti noti e qualsiasi cosa diveniva possibile nel Dragone. Tuttavia, era anche l’unico posto dove uno squattrinato pieno di debiti e fresco di galera era in grado di trovare un appartamento che poteva permettersi: piccolo, con l’intonaco che cadeva a pezzi, la muffa sul soffitto e la saltuaria compagnia di ratti e blatte.
In un paio di minuti raggiunse la transettoriale undici, il sole era appena sorto ma la città si stava già mettendo in moto: alcune automobili giravano per strada e un piccolo gruppo di persone era in attesa alla fermata del tram che, come tutti i mezzi pubblici, era completamente automatizzato e non si fermava nemmeno durante le ore notturne. Discese le rampe di scale di uno dei tanti accessi che portavano alla rete metropolitana scansando i barboni che dormivano sui gradini. Scansionò il pass sul sensore e prese un treno che andava verso la periferia.
Trascorse i primi cinque minuti in piedi e poi trovò posto a sedere man mano che la gente scendeva. Dovette sorbirsi una vecchia che strillava al telefono con la figlia riguardo un cane che aveva cagato sul tappeto, un ubriacone sbronzo marcio che emanava un odore d’alcool e piscio talmente pungente da fargli venire il vomito e un pazzo che lanciava una moneta, un tiro dopo l’altro, per decidere chi fosse meglio tra una sequela di personaggi famosi che andava mormorando. A quell’ora della giornata sembrava sempre che avessero aperto le gabbie liberando i matti. Infine, lesse sul display “Prossima fermata: Porta 22”. Si alzò prendendo posto davanti alle uscite in modo da abbandonare il treno il prima possibile.
Giunse all’aria aperta e si trovò di fronte alla ventiduesima porta della terza cinta muraria di Nova. Alti trenta metri e spessi cinque, i bastioni erano un prodigio della tecnologia e, sebbene la loro imponenza lasciasse intendere che fossero state costruite per tenere fuori l’immensamente grande, in realtà servivano a proteggerli dall’immensamente piccolo. Da questa distanza, il riflesso violaceo e azzurrino della barriera elettromagnetica era appena percettibile sulla sommità delle mura. Oltre a proteggere dalle tempeste di sabbia che di tanto in tanto si abbattevano sulla regione, fungeva anche da barriera anti-radiazioni. Ogni cinta muraria le filtrava sempre più finemente e ne conseguiva che gli anelli più interni erano anche quelli più sani in cui vivere.
Un groviglio di strade gli si presentava davanti alto quasi quanto la muraglia. La dodicesima circonvallazione consisteva in un’enorme strada che seguiva il perimetro del terzo anello lasciando lo spazio sia da una parte che dall’altra per ponti e sottopassaggi, svolte per immettersi nelle transettoriali, nelle transanellari o per fare inversione di marcia. La strada non era trafficata ma lo sarebbe stata presto: il sole si stava alzando e il tipico colore rosa-arancione dell’alba si era trasformato nella limpida luce del mattino che rischiarava il cielo preannunciando una bella giornata. L’astro celeste fece capolino oltre i bastioni a est, dall’altra parte di Nova, inondando la megalopoli della sua luce.
Dal momento che il giorno precedente, partendo da quell’esatto punto, si era incamminato verso nord, decise che oggi avrebbe battuto il lato sud. Lungo la dodicesima circonvallazione e soprattutto in corrispondenza delle porte, sorgevano le attività più peculiari di Nova e anche quelle che era più probabile avessero del lavoro da affidare a un cane randagio come lui: società di recuperi. Nova aveva costante bisogno di materie prime da fagocitare. Cibo, acqua, metalli, ritrovati tecnologici dei tempi che precedevano la Caduta. Tutti i materiali che si potevano recuperare al di là delle mura avevano un grande valore. Ne conseguiva che l’idea di arricchirsi scoprendo l’ubicazione di tali tesori faceva gola a molti. Queste attività potevano essere molto diverse le une dalle altre, poteva trattarsi di colossi industriali come le Hall Industries, che disponevano di migliaia di uomini, equipaggiamento antiradiazioni all’avanguardia e fucili al plasma, così come di piccole imprese a gestione familiare che si arrabattavano con quello che avevano, armi bianche, qualche pistola a tamburo e si affidavano a chi conosceva bene il territorio esterno per scovare reperti di minore entità che non facevano gola ai pesci grossi. Tuttavia, tutte queste società avevano due cose in comune: la sfrenata passione per i soldi e la tendenza ad assumere personale sacrificabile per missioni pericolose.
Si grattò la barba e s’incamminò a passi svelti. Era presto, ma di solito i proprietari avevano chiaro fin da subito se in giornata avrebbero avuto del lavoro extra. Entrò in un paio di posti e collezionò altrettanti buchi nell’acqua prima di ritrovarsi davanti a un edificio anonimo recante l’insegna “Vulture’s Retrievals”. Batteva quelle strade da quando era uscito di galera un mese prima, dopo essersi stabilito nel quartiere del Dragone, e aveva imparato a conoscere le agenzie di recuperi che avevano sede nei pressi di Porta Ventidue. Vulture’s Retrievals non era certo la più raccomandabile e aveva sentito che, oltre ai recuperi, il proprietario aveva le mani in pasta un po’ dappertutto e spesso commissionava anche dei piccoli incarichi affidatigli da questo o quel tizio e poteva capitare che chiedesse di fare le cose più strane e, proprio per questo, capitava spesso che assumesse personale freelance quando i suoi erano occupati fuori città.
Il proprietario, un uomo corpulento che indossava un panciotto blu e una camicia bianca su cui si poteva già notare l’alone di una sudata, stava sistemando l’insegna raffigurante un avvoltoio nell’atto di ghermire un reperto mezzo sepolto dal deserto.
«Signor Johnson», disse attirando la sua attenzione. «Ha lavoro per me oggi?».
L’uomo corpulento si voltò e proruppe in una grassa risata.
«Sei uno che non si dà per vinto, eh?».
«Chi osa vince».
Gli occhi dell’uomo lampeggiarono.
«Un berretto ocra…».
«Delta Force».
«Quindi immagino tu sappia usarle quelle», disse indicando le armi.
«Me la cavo».
«Cosa porta uno delle forze speciali a Porta Ventidue?», chiese prendendo sigaro e accendino dal taschino del panciotto. «Per cosa sei stato dentro?».
Carter deformò le labbra in un ghigno, dietro quegli occhi porcini si celava una mente svelta.
«Contrabbando», disse infine decidendo per l’onestà. «Chip, reti neurali e altri componenti dal secondo anello».
Johnson accese il sigaro e tirò una boccata soffiando in aria una voluta di fumo.
«Come lo vedi fare un giro fuori città?».
«Non sarebbe la prima volta».
«Non posso darti l’equipaggiamento della Delta Force…».
«Non è un problema».
«Anzi, non posso darti equipaggiamento e basta».
«So cavarmela. Di cosa si tratta?».
«Recupero crediti, a Silver City».
«Almeno un cavallo me lo puoi fornire?».
«Ti darò un cavallo e un partner anch’esso munito di cavallo».
«E chi sarebbe?».
«Uno affidabile», disse dando un colpo al sigaro per far cadere la cenere. «Mille crediti per una settimana di lavoro, che te ne pare Delta Force?».
Silver City distava tre giorni a cavallo verso sud-ovest, non sapeva che affari l’Avvoltoio avesse nella città mineraria ma nemmeno gli importava.
«Direi che abbiamo un accordo».
«Pagamento alla consegna, ovviamente», disse lui con un ghigno che mise in mostra un paio di denti marci.
«Certamente…», non gli piaceva il modo di contrattare di quel barile di lardo ma aveva un disperato bisogno di soldi e non voleva rischiare di rovinare tutto mettendosi a discutere.
«Ti serve del tempo per recuperare l’equipaggiamento e sbrigare delle faccende?».
«Un paio d’ore dovrebbero essere sufficienti».
«Allora torna tra un paio d’ore Delta Force, dovresti trovare anche il tuo socio per allora».
Carter gli fece un cenno con la testa e ruotò su sé stesso.
«Stronzo…», mormorò allontanandosi in direzione della metropolitana.
Arrivò alla stazione in un batter d’occhio e saltò sul primo treno che passava in direzione del Dragone. Fu solo quando le porte gli si chiusero di fronte che notò lo stupido sorriso che aveva in faccia. Finalmente, dopo un mese di tentativi andati a vuoto, aveva trovato un lavoro. Silver City prendeva il nome dalla miniera d’argento che vi sorgeva, era una cittadina abbastanza ricca che, probabilmente, chiunque avesse contratto un debito con Johnson ormai avrebbe potuto ripagarlo senza problemi. Con mille crediti avrebbe potuto pagare l’affitto per altri sei mesi in quel posto di merda dove abitava, il che gli avrebbe dato tempo per organizzarsi meglio e non essere più con l’acqua alla gola.
Era talmente sollevato all’idea che non badò nemmeno se ci fossero dei folli sul suo stesso vagone, rimase di fronte alla porta a guardare l’asfalto dei tunnel che scorreva davanti ai suoi occhi a gran velocità. Appena le porte si aprirono alla prima fermata nel quartiere del Dragone schizzò giù come una freccia, raggiunse la superficie e in un baleno fu a casa. Tolse la giacca e stava appendendola quando sentì una vocina dietro di sé.
«Ciao papà…».
Emily era sulla porta della camera e stringeva il suo peluche preferito, un coyote di nome Adahi, che nella lingua degli indigeni significava “colui che vive nella foresta”. Quando l’aveva scelto non le era importato che i coyote non vivessero nelle foreste.
«Ciao piccola, non sapevo fossi già sveglia».
Per tutta risposta la bambina tirò un lungo sbadiglio spalancando la bocca come un pulcino che chiede del cibo a mamma chioccia. Carter la prese sollevandola da terra.
«Wooo!», esclamò lei ridacchiando.
Le diede un bacio su ogni guancia, in fronte e sul naso.
«Dai papà!», protestò lei aggrappandosi alla barba.
«Non posso nemmeno sbaciucchiare la mia bambina?».
«No!».
«Davvero?!».
«No».
«Ok… allora non lo farò mai più…», disse portandola in cucina.
«No!», esclamò lei.
«Ma come? Allora cosa dovrei fare?».
Emily si sporse con un movimento improvviso della testa stampandogli un bacio sulla guancia.
«Scherzavo papà. Li voglio i bacini».
«E il solletico?», chiese toccandola all’improvviso sui fianchi.
La bambina s’irrigidì e iniziò a strillare e ridere allo stesso tempo.
«No, il solletico no!», urlò cercando di scappare dall’abbraccio.
Carter la depositò su una sedia davanti al tavolo.
«Ora facciamo colazione», disse aprendo un’anta del mobile.
Non c’era molta scelta, avrebbe dovuto fare un po’ di spesa tornando a casa ma con l’eccitazione del momento se n’era dimenticato. Trovò delle scatole di cereali Golden Mill, alcune con un simbolo della ruota del mulino, altre con due. Ne prese una per tipo e mise nella propria ciotola quelli a maggior contenuto radioattivo usando quelli con due simboli per la figlia. Grazie ai mille crediti del lavoro per Johnson avrebbero potuto permettersi del cibo da due o addirittura tre ruote per un po’ di tempo. Prese del latte Golden Mill da due ruote e lo versò in entrambe le tazze. Emily aveva messo il coyote sul tavolo e lo stava facendo correre qua e là ringhiando.
«Anche Adahi ha fame papà!».
«Dagli un po’ di cereali».
«I coyote non mangiano i cereali!», protestò lei. «Adahi vuole un cervo!».
«Un cervo intero?!».
«Sì».
«Per un coyote così piccolo?».
«Sì!».
«Uhm…», fece finta di pensare. «Purtroppo non ho visto dei cervi nelle vicinanze, altrimenti gliene avrei portati un paio».
Emily affondò il cucchiaio nel latte e tirò su una generosa quantità di cereali, avevano la forma di piccoli animali ed erano tutti colorati. Avvicinò il cucchiaio ad Adahi.
«Gnam, gnam, gnam…», disse, poi si ficcò il cucchiaio in bocca masticando di gusto.
Carter iniziò a mangiare guardando la figlia che nutriva il coyote. Ogni tanto calcolava male le distanze e gli picchiava il cucchiaio sul muso, sporcandogli il naso di latte. Da quando era uscito di galera e il governo aveva revocato il sussidio per la licenza, l’occhio cibernetico aveva cessato di funzionare e la bambina aveva qualche problema a percepire la profondità.
«Dove sei andato stamattina, papà?».
«Sono andato a Porta Ventidue», disse, poi puntò il cucchiaio nella sua direzione. «Papà ha trovato lavoro. Sai cosa vuol dire?».
«Che dovrai andare via?», disse lei guardando fisso nel piatto. «Adahi non vuole che tu vada via, è sempre triste quando non ci sei».
Carter le mise una mano sulla testolina e le accarezzò i capelli.
«Adahi non deve preoccuparsi», disse. «Starò via solo sette giorni. E poi avremo un sacco di cibo e potremo rimettere in funzione il tuo occhio! Non ti piace come idea?».
«Sì», disse lei sgambettando.
«Ti va di stare qualche giorno con la signorina Jazani?».
«Sì».
«È gentile con te?».
«Sì, a Farah piace molto giocare e disegnare».
«Mi fa piacere».
Carter prese le ciotole vuote e le lavò, poi afferrò la figlia e la sollevò in aria portandola in camera sua. Emily rise e allargò le braccia come fosse una nave spaziale.
«Vuoi prendere delle cose da portare dalla signorina Jazani?».
«Si chiama Farah, papà».
«Ma io non la conosco bene come te, non so se vuole che la chiami per nome».
«Lei dice che preferisce sempre essere chiamata per nome».
«Magari dalle belle bambine come te», disse sfiorandole il naso con un dito. «Papà deve prendere il suo equipaggiamento».
Lasciò la figlia e si diresse in camera sua. Prese lo zaino di tela che aveva comprato quando lo avevano rilasciato e ci lanciò dentro un paio di camice e dei pantaloni di ricambio, calze, mutande e preservativi, era meglio essere pronti a tutto. Andò in cucina e guardò nelle ante, prese tutti i pacchi di carne secca e fagioli in lattina che trovò, ne aveva fatto una piccola scorta proprio per queste occasioni in cui avrebbe avuto poco tempo per i preparativi. Mise tutte le lattine e i pacchi nello zaino impilandoli uno sopra l’altro poi andò nel ripostiglio e prese un paio di bottiglie d’acqua e una borraccia. Non sapeva che viveri gli avrebbe fornito Johnson ed era meglio portare un po’ di tutto. Infine, lo sguardo gli cadde su una fiaschetta.
«Ma sì…», disse facendo spallucce e la riempì col whisky che aveva lasciato sul comodino di fianco al letto.
Prese la giacca di pelle, la indossò e infilò la fiaschetta nella tasca interna. Fece mente locale, il coltello già l’aveva, assicurato nel fodero sul polpaccio sinistro, la pistola pure, nella fondina sul lato destro. Andò alla credenza e aprì il primo cassetto. Gli rimanevano due caricatori per la colt, questo voleva dire diciotto colpi in totale contando quelli che erano nel tamburo. Si sarebbe sentito più sicuro con più colpi ma dopotutto, non prevedeva guai per questa missione. Andò in un angolo della camera e prese la spada che era adagiata su una piccola rastrelliera e la assicurò al cinturone usando il laccio in cuoio del fodero. Mise lo zaino in spalla. Prese il cappello a tesa larga per proteggere il volto dai raggi solari ma aspettò a indossarlo.
«Sei pronta piccola?», chiese tornando in camera di Emily.
«Sì».
Aveva Adahi sotto un braccio, dei fogli in una mano, i suoi colori preferiti nell’altra e la corona in cartone che avevano fatto insieme in testa.
«Ah ma che bella principessa».
«Non sono una principessa, papà».
«E allora cosa sei?».
«Sono il Re dei coyote!», disse ruggendo e mostrando i denti.
Carter rise scuotendo la testa.
«Va bene, piccolo coyote».
«Re dei coyote!».
«Ok, vostra maestà! Andiamo».
Uscirono di casa e in pochi secondi raggiunsero la porta di Farah Jazani la quale abitava sul loro stesso piano a pochi metri di distanza. Le aveva già affidato la bambina altre volte quando gli capitava di dover passare tutto il giorno fuori casa e la donna si era sempre detta disponibile a darle un occhio in cambio di un modico pagamento.
Bussò alla porta e non dovette aspettare molto prima che l’aprisse. Aveva un viso ovale dai lineamenti morbidi e una folta capigliatura castano scuro che si accompagnava alla carnagione olivastra, gli occhi azzurri risplendevano glaciali, quasi estranei alla composizione altrimenti calda.
«Ciao, Ryan».
«Farah!», urlò la bambina alzando fogli e matite sopra la testa.
La donna sorrise e si chinò.
«Ciao anche a te piccolo coyote».
«Re dei coyote!».
«Sì», disse Carter. «A quanto pare oggi si è autoproclamata Re».
«Ah giusto, la corona, me lo sarei dovuta aspettare», disse Farah rialzandosi. «Qualcosa mi dice che passerò del tempo con un coyote reale».
«Solo se non ti crea fastidi… so che tutte le volte piombo qui senza preavviso…».
«Non preoccuparti», disse lei appoggiandosi alla porta. «Mi piace passare del tempo con Emily. Noi ci divertiamo insieme, vero?».
«Sì!».
«Non so davvero come ringraziarti. Devo passare sette giorni fuori città, otto al massimo nel caso ci siano complicazioni».
«Per me non è un problema», disse Farah accarezzando la testa della bambina. «Faremo tanti disegni».
«Sì».
«Ci stai salvando la vita, letteralmente. Se mai dovesse servirti qualcosa…».
«Saprò a chi chiedere».
Carter si abbassò e abbracciò la bambina.
«Fai la brava con Farah, mi raccomando».
«Sì, papà».
«Ci vediamo presto», disse dandole un bacio. «Ora va’!».
«C’è Serse che ha bisogno di coccole», disse Farah alludendo al suo gatto che a dispetto del nome non era un persiano.
«Aww», fece la bambina fiondandosi in casa alla ricerca del felino.
«Ecco un po’ di crediti per il cibo e il disturbo», disse Carter porgendole una scheda.
«Non preoccuparti», disse lei prendendola. «Staremo bene».
Carter annuì.
«A presto», disse indossando il cappello.
Si incamminò per il corridoio.
«Ryan…».
Si girò.
«Se proprio vuoi ringraziarmi… torna vivo».
Carter fece un sorriso tirato e portò una mano alla tesa del copricapo in un cenno d’assenso, poi si voltò senza più guardarsi indietro.
Prese la metropolitana per la terza volta quel giorno e tornò a Porta Ventidue. Mancavano cinque minuti allo scadere delle due ore quando giunse in vista dell’insegna dell’avvoltoio ghermitore. Non c’era da stupirsi che Johnson si fosse meritato il soprannome di “Avvoltoio” visto che a detta di molti non si comportava in maniera diversa da quelle bestie spazzine.
All’interno trovò un atrio più spazioso di quanto sembrasse dall’esterno, arredato in legno con toni di marrone, ocra e grigio chiaro. In mezzo alla stanza c’era un ampio tavolo rotondo con un proiettore olografico al centro e dodici sedie tutt’intorno. Seduto a una di queste c’era un uomo dai tratti asiatici, con capelli neri pettinati all’indietro e sopracciglia ispide, portava vestiti da viaggio e al suo fianco aveva un grosso zaino e una katana. Appoggiò lo zaino a terra, sfilò il cinturone e lo posò su di esso, poi si fece avanti.
«Ryan Carter», disse porgendogli la mano.
«Kazuya», rispose lui afferrandola.
In quel momento si spalancò una porta che dava sul retro e Johnson fece il suo ingresso nell’atrio.
«Ah molto bene, avete avuto modo di conoscervi. Prego, Delta Force, siedi pure dove vuoi, non ci sarà bisogno del proiettore olografico per questa missione, non devo dirvi niente di troppo complicato».
Carter prese posto al tavolo lasciando una sedia vuota tra lui e Kazuya.
«Allora, sapete che a Silver City c’è una grande miniera d’argento che sembrava essersi esaurita qualche anno fa, no?».
Carter aggrottò la fronte, non sapeva che la vena d’argento si fosse esaurita, vedendo che l’altro annuiva immaginò fosse un fatto divenuto di dominio pubblico mentre era in galera. Non prometteva niente di buono.
«Beh, diversi mesi fa Vince Brown, il proprietario della miniera, ha scoperto un nuovo filone più in profondità. Gli servivano nuovi macchinari per proseguire gli scavi e qui entro in gioco io: gli ho venduto un’escavatrice a metà prezzo, con la clausola che me l’avrebbe pagata per intero, più un generoso extra, quando l’estrazione d’argento sarebbe ripartita. Ormai la miniera dovrebbe essere tornata produttiva ma non ho notizie di quel figlio di uno sciacallo da un pezzo. Voglio che andiate a ricordargli il nostro accordo e a recuperare i cinquecentomila che mi deve».
Carter si destò alla vibrazione della sveglia e tossì con la bocca impastata.
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Sentiva un che di appiccicaticcio sulla guancia: aveva sbavato sul cuscino. La testa gli scoppiava e le palpebre erano pesanti.
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Diede una manata alle sue spalle ma invece della sveglia colpì un bicchiere, rovesciandolo insieme a quanto rimaneva del suo contenuto. Il vetro tintinnò infrangendosi a terra.
«Cazzo…».
Rrrrrr
Si tirò su con un grugnito mettendosi a sedere, gli occhi gli dolevano ma riuscì a schiuderli. Si stiracchiò e spalancò la bocca in un poderoso sbadiglio.
Rrrrrr
«Ho capito!», sbottò sferrando un colpo sulla cima della sveglia. Appoggiò i piedi a terra evitando le schegge di vetro e centrò in pieno la pozzanghera di whisky che si era sparsa sulle piastrelle. «Cazzo…».
La bottiglia sul comodino era ancora aperta e ne prese un sorso prima di richiuderla. Il liquore scese lungo l’esofago grattandogli la gola ma servì ad attenuare il mal di testa. Andò in bagno, si lavò i piedi e poi prese una pezza per asciugare il whisky. Raccolse i pezzi di vetro con lo scopettino e li mise da parte. Tornò in bagno grattandosi il deretano e aprì l’acqua del lavabo. Dopo un paio di secondi in cui risuonò un rumore metallico come di qualcosa che sbatteva nelle tubature, dal rubinetto uscì un getto d’acqua marrone e ci volle un po’ prima che diventasse limpida. A quel punto la raccolse nel palmo delle mani e ci affondò il viso. Le insaponò per bene e iniziò a fregarle sul volto per poi ripulirsi fino a spazzare via il sapone e il sonno. Per il dopo sbronza ci sarebbe voluto qualcosa di più.
Appoggiò le mani sul lavabo e si guardò allo specchio. Da sopra un paio di profonde occhiaie, lo sguardo di un uomo che aveva superato i trent’anni da un pezzo ricambiò il suo. La barba incolta cresceva spezzata sulla guancia sinistra a causa di una cicatrice che arrivava fino al mento. Si passò una mano tra i capelli castano scuro, ravviandoli all’indietro. Considerò l’idea di pettinarli ma decise che non ne valeva la pena.
«Fanculo…».
Finì di darsi una lavata e sulla via della camera passò in cucina per mettere su il caffè. Non aveva mai fame appena sveglio per cui non si diede pena di preparare la colazione. Infilò i pantaloni, una camicia sgualcita e la giacca di pelle. Quando sentì la moka gorgogliare andò a spegnere il fuoco e versò il caffè in una tazzina che trovò nel lavandino. Nero sarebbe stato troppo amaro per cui ci mise un cucchiaio abbondante di zucchero. Si allacciò le scarpe mentre lasciava raffreddare la bevanda e quando non fu più bollente come l’inferno si sedette al tavolo, sorseggiandola. In breve tempo sentì tornare il sonno e le palpebre iniziarono ad abbassarsi. Si riscosse scuotendo la testa, non poteva permettersi di assopirsi. Buttò giù quel che rimaneva del caffè sperando che iniziasse ad avere effetto in fretta, mollò la tazzina nel lavandino e, senza dimenticare coltello e pistola, uscì di casa.
Discese le rampe di scale sbadigliando tra l’una e l’altra, scavalcò l’inquilino del piano di sotto che non riusciva mai a superare la prima senza collassare circondato da bottiglie mezze vuote e percorse il piccolo atrio fino a raggiungere la porta del palazzo. La schiuse con una lenta spinta e la frizzante aria mattutina che lo colpì in volto lo svegliò del tutto. Un lieve rossore colorava le nuvole nel cielo ma il sole rimaneva nascosto oltre le colossali mura di Nova.
Se il terzo anello era di gran lunga il più povero della megalopoli, il settore sud-ovest era il più dissestato dell’anello e il quartiere del Dragone era il più malfamato del suo settore, di conseguenza vi si erano radunate tutte le attività più losche che cercavano di sfuggire ai controlli della polizia. La corruzione era di casa, così come lo erano la yakuza e le aziende che sfruttavano il personale come se non esistessero i diritti dei lavoratori. I sindacati, quando esistevano, erano collusi coi padroni. Bastava pagare i soliti noti e qualsiasi cosa diveniva possibile nel Dragone. Tuttavia, era anche l’unico posto dove uno squattrinato pieno di debiti e fresco di galera era in grado di trovare un appartamento che poteva permettersi: piccolo, con l’intonaco che cadeva a pezzi, la muffa sul soffitto e la saltuaria compagnia di ratti e blatte.
In un paio di minuti raggiunse la transettoriale undici, il sole era appena sorto ma la città si stava già mettendo in moto: alcune automobili giravano per strada e un piccolo gruppo di persone era in attesa alla fermata del tram che, come tutti i mezzi pubblici, era completamente automatizzato e non si fermava nemmeno durante le ore notturne. Discese le rampe di scale di uno dei tanti accessi che portavano alla rete metropolitana scansando i barboni che dormivano sui gradini. Scansionò il pass sul sensore e prese un treno che andava verso la periferia.
Trascorse i primi cinque minuti in piedi e poi trovò posto a sedere man mano che la gente scendeva. Dovette sorbirsi una vecchia che strillava al telefono con la figlia riguardo un cane che aveva cagato sul tappeto, un ubriacone sbronzo marcio che emanava un odore d’alcool e piscio talmente pungente da fargli venire il vomito e un pazzo che lanciava una moneta, un tiro dopo l’altro, per decidere chi fosse meglio tra una sequela di personaggi famosi che andava mormorando. A quell’ora della giornata sembrava sempre che avessero aperto le gabbie liberando i matti. Infine, lesse sul display “Prossima fermata: Porta 22”. Si alzò prendendo posto davanti alle uscite in modo da abbandonare il treno il prima possibile.
Giunse all’aria aperta e si trovò di fronte alla ventiduesima porta della terza cinta muraria di Nova. Alti trenta metri e spessi cinque, i bastioni erano un prodigio della tecnologia e, sebbene la loro imponenza lasciasse intendere che fossero state costruite per tenere fuori l’immensamente grande, in realtà servivano a proteggerli dall’immensamente piccolo. Da questa distanza, il riflesso violaceo e azzurrino della barriera elettromagnetica era appena percettibile sulla sommità delle mura. Oltre a proteggere dalle tempeste di sabbia che di tanto in tanto si abbattevano sulla regione, fungeva anche da barriera anti-radiazioni. Ogni cinta muraria le filtrava sempre più finemente e ne conseguiva che gli anelli più interni erano anche quelli più sani in cui vivere.
Un groviglio di strade gli si presentava davanti alto quasi quanto la muraglia. La dodicesima circonvallazione consisteva in un’enorme strada che seguiva il perimetro del terzo anello lasciando lo spazio sia da una parte che dall’altra per ponti e sottopassaggi, svolte per immettersi nelle transettoriali, nelle transanellari o per fare inversione di marcia. La strada non era trafficata ma lo sarebbe stata presto: il sole si stava alzando e il tipico colore rosa-arancione dell’alba si era trasformato nella limpida luce del mattino che rischiarava il cielo preannunciando una bella giornata. L’astro celeste fece capolino oltre i bastioni a est, dall’altra parte di Nova, inondando la megalopoli della sua luce.
Dal momento che il giorno precedente, partendo da quell’esatto punto, si era incamminato verso nord, decise che oggi avrebbe battuto il lato sud. Lungo la dodicesima circonvallazione e soprattutto in corrispondenza delle porte, sorgevano le attività più peculiari di Nova e anche quelle che era più probabile avessero del lavoro da affidare a un cane randagio come lui: società di recuperi. Nova aveva costante bisogno di materie prime da fagocitare. Cibo, acqua, metalli, ritrovati tecnologici dei tempi che precedevano la Caduta. Tutti i materiali che si potevano recuperare al di là delle mura avevano un grande valore. Ne conseguiva che l’idea di arricchirsi scoprendo l’ubicazione di tali tesori faceva gola a molti. Queste attività potevano essere molto diverse le une dalle altre, poteva trattarsi di colossi industriali come le Hall Industries, che disponevano di migliaia di uomini, equipaggiamento antiradiazioni all’avanguardia e fucili al plasma, così come di piccole imprese a gestione familiare che si arrabattavano con quello che avevano, armi bianche, qualche pistola a tamburo e si affidavano a chi conosceva bene il territorio esterno per scovare reperti di minore entità che non facevano gola ai pesci grossi. Tuttavia, tutte queste società avevano due cose in comune: la sfrenata passione per i soldi e la tendenza ad assumere personale sacrificabile per missioni pericolose.
Si grattò la barba e s’incamminò a passi svelti. Era presto, ma di solito i proprietari avevano chiaro fin da subito se in giornata avrebbero avuto del lavoro extra. Entrò in un paio di posti e collezionò altrettanti buchi nell’acqua prima di ritrovarsi davanti a un edificio anonimo recante l’insegna “Vulture’s Retrievals”. Batteva quelle strade da quando era uscito di galera un mese prima, dopo essersi stabilito nel quartiere del Dragone, e aveva imparato a conoscere le agenzie di recuperi che avevano sede nei pressi di Porta Ventidue. Vulture’s Retrievals non era certo la più raccomandabile e aveva sentito che, oltre ai recuperi, il proprietario aveva le mani in pasta un po’ dappertutto e spesso commissionava anche dei piccoli incarichi affidatigli da questo o quel tizio e poteva capitare che chiedesse di fare le cose più strane e, proprio per questo, capitava spesso che assumesse personale freelance quando i suoi erano occupati fuori città.
Il proprietario, un uomo corpulento che indossava un panciotto blu e una camicia bianca su cui si poteva già notare l’alone di una sudata, stava sistemando l’insegna raffigurante un avvoltoio nell’atto di ghermire un reperto mezzo sepolto dal deserto.
«Signor Johnson», disse attirando la sua attenzione. «Ha lavoro per me oggi?».
L’uomo corpulento si voltò e proruppe in una grassa risata.
«Sei uno che non si dà per vinto, eh?».
«Chi osa vince».
Gli occhi dell’uomo lampeggiarono.
«Un berretto ocra…».
«Delta Force».
«Quindi immagino tu sappia usarle quelle», disse indicando le armi.
«Me la cavo».
«Cosa porta uno delle forze speciali a Porta Ventidue?», chiese prendendo sigaro e accendino dal taschino del panciotto. «Per cosa sei stato dentro?».
Carter deformò le labbra in un ghigno, dietro quegli occhi porcini si celava una mente svelta.
«Contrabbando», disse infine decidendo per l’onestà. «Chip, reti neurali e altri componenti dal secondo anello».
Johnson accese il sigaro e tirò una boccata soffiando in aria una voluta di fumo.
«Come lo vedi fare un giro fuori città?».
«Non sarebbe la prima volta».
«Non posso darti l’equipaggiamento della Delta Force…».
«Non è un problema».
«Anzi, non posso darti equipaggiamento e basta».
«So cavarmela. Di cosa si tratta?».
«Recupero crediti, a Silver City».
«Almeno un cavallo me lo puoi fornire?».
«Ti darò un cavallo e un partner anch’esso munito di cavallo».
«E chi sarebbe?».
«Uno affidabile», disse dando un colpo al sigaro per far cadere la cenere. «Mille crediti per una settimana di lavoro, che te ne pare Delta Force?».
Silver City distava tre giorni a cavallo verso sud-ovest, non sapeva che affari l’Avvoltoio avesse nella città mineraria ma nemmeno gli importava.
«Direi che abbiamo un accordo».
«Pagamento alla consegna, ovviamente», disse lui con un ghigno che mise in mostra un paio di denti marci.
«Certamente…», non gli piaceva il modo di contrattare di quel barile di lardo ma aveva un disperato bisogno di soldi e non voleva rischiare di rovinare tutto mettendosi a discutere.
«Ti serve del tempo per recuperare l’equipaggiamento e sbrigare delle faccende?».
«Un paio d’ore dovrebbero essere sufficienti».
«Allora torna tra un paio d’ore Delta Force, dovresti trovare anche il tuo socio per allora».
Carter gli fece un cenno con la testa e ruotò su sé stesso.
«Stronzo…», mormorò allontanandosi in direzione della metropolitana.
Arrivò alla stazione in un batter d’occhio e saltò sul primo treno che passava in direzione del Dragone. Fu solo quando le porte gli si chiusero di fronte che notò lo stupido sorriso che aveva in faccia. Finalmente, dopo un mese di tentativi andati a vuoto, aveva trovato un lavoro. Silver City prendeva il nome dalla miniera d’argento che vi sorgeva, era una cittadina abbastanza ricca che, probabilmente, chiunque avesse contratto un debito con Johnson ormai avrebbe potuto ripagarlo senza problemi. Con mille crediti avrebbe potuto pagare l’affitto per altri sei mesi in quel posto di merda dove abitava, il che gli avrebbe dato tempo per organizzarsi meglio e non essere più con l’acqua alla gola.
Era talmente sollevato all’idea che non badò nemmeno se ci fossero dei folli sul suo stesso vagone, rimase di fronte alla porta a guardare l’asfalto dei tunnel che scorreva davanti ai suoi occhi a gran velocità. Appena le porte si aprirono alla prima fermata nel quartiere del Dragone schizzò giù come una freccia, raggiunse la superficie e in un baleno fu a casa. Tolse la giacca e stava appendendola quando sentì una vocina dietro di sé.
«Ciao papà…».
Emily era sulla porta della camera e stringeva il suo peluche preferito, un coyote di nome Adahi, che nella lingua degli indigeni significava “colui che vive nella foresta”. Quando l’aveva scelto non le era importato che i coyote non vivessero nelle foreste.
«Ciao piccola, non sapevo fossi già sveglia».
Per tutta risposta la bambina tirò un lungo sbadiglio spalancando la bocca come un pulcino che chiede del cibo a mamma chioccia. Carter la prese sollevandola da terra.
«Wooo!», esclamò lei ridacchiando.
Le diede un bacio su ogni guancia, in fronte e sul naso.
«Dai papà!», protestò lei aggrappandosi alla barba.
«Non posso nemmeno sbaciucchiare la mia bambina?».
«No!».
«Davvero?!».
«No».
«Ok… allora non lo farò mai più…», disse portandola in cucina.
«No!», esclamò lei.
«Ma come? Allora cosa dovrei fare?».
Emily si sporse con un movimento improvviso della testa stampandogli un bacio sulla guancia.
«Scherzavo papà. Li voglio i bacini».
«E il solletico?», chiese toccandola all’improvviso sui fianchi.
La bambina s’irrigidì e iniziò a strillare e ridere allo stesso tempo.
«No, il solletico no!», urlò cercando di scappare dall’abbraccio.
Carter la depositò su una sedia davanti al tavolo.
«Ora facciamo colazione», disse aprendo un’anta del mobile.
Non c’era molta scelta, avrebbe dovuto fare un po’ di spesa tornando a casa ma con l’eccitazione del momento se n’era dimenticato. Trovò delle scatole di cereali Golden Mill, alcune con un simbolo della ruota del mulino, altre con due. Ne prese una per tipo e mise nella propria ciotola quelli a maggior contenuto radioattivo usando quelli con due simboli per la figlia. Grazie ai mille crediti del lavoro per Johnson avrebbero potuto permettersi del cibo da due o addirittura tre ruote per un po’ di tempo. Prese del latte Golden Mill da due ruote e lo versò in entrambe le tazze. Emily aveva messo il coyote sul tavolo e lo stava facendo correre qua e là ringhiando.
«Anche Adahi ha fame papà!».
«Dagli un po’ di cereali».
«I coyote non mangiano i cereali!», protestò lei. «Adahi vuole un cervo!».
«Un cervo intero?!».
«Sì».
«Per un coyote così piccolo?».
«Sì!».
«Uhm…», fece finta di pensare. «Purtroppo non ho visto dei cervi nelle vicinanze, altrimenti gliene avrei portati un paio».
Emily affondò il cucchiaio nel latte e tirò su una generosa quantità di cereali, avevano la forma di piccoli animali ed erano tutti colorati. Avvicinò il cucchiaio ad Adahi.
«Gnam, gnam, gnam…», disse, poi si ficcò il cucchiaio in bocca masticando di gusto.
Carter iniziò a mangiare guardando la figlia che nutriva il coyote. Ogni tanto calcolava male le distanze e gli picchiava il cucchiaio sul muso, sporcandogli il naso di latte. Da quando era uscito di galera e il governo aveva revocato il sussidio per la licenza, l’occhio cibernetico aveva cessato di funzionare e la bambina aveva qualche problema a percepire la profondità.
«Dove sei andato stamattina, papà?».
«Sono andato a Porta Ventidue», disse, poi puntò il cucchiaio nella sua direzione. «Papà ha trovato lavoro. Sai cosa vuol dire?».
«Che dovrai andare via?», disse lei guardando fisso nel piatto. «Adahi non vuole che tu vada via, è sempre triste quando non ci sei».
Carter le mise una mano sulla testolina e le accarezzò i capelli.
«Adahi non deve preoccuparsi», disse. «Starò via solo sette giorni. E poi avremo un sacco di cibo e potremo rimettere in funzione il tuo occhio! Non ti piace come idea?».
«Sì», disse lei sgambettando.
«Ti va di stare qualche giorno con la signorina Jazani?».
«Sì».
«È gentile con te?».
«Sì, a Farah piace molto giocare e disegnare».
«Mi fa piacere».
Carter prese le ciotole vuote e le lavò, poi afferrò la figlia e la sollevò in aria portandola in camera sua. Emily rise e allargò le braccia come fosse una nave spaziale.
«Vuoi prendere delle cose da portare dalla signorina Jazani?».
«Si chiama Farah, papà».
«Ma io non la conosco bene come te, non so se vuole che la chiami per nome».
«Lei dice che preferisce sempre essere chiamata per nome».
«Magari dalle belle bambine come te», disse sfiorandole il naso con un dito. «Papà deve prendere il suo equipaggiamento».
Lasciò la figlia e si diresse in camera sua. Prese lo zaino di tela che aveva comprato quando lo avevano rilasciato e ci lanciò dentro un paio di camice e dei pantaloni di ricambio, calze, mutande e preservativi, era meglio essere pronti a tutto. Andò in cucina e guardò nelle ante, prese tutti i pacchi di carne secca e fagioli in lattina che trovò, ne aveva fatto una piccola scorta proprio per queste occasioni in cui avrebbe avuto poco tempo per i preparativi. Mise tutte le lattine e i pacchi nello zaino impilandoli uno sopra l’altro poi andò nel ripostiglio e prese un paio di bottiglie d’acqua e una borraccia. Non sapeva che viveri gli avrebbe fornito Johnson ed era meglio portare un po’ di tutto. Infine, lo sguardo gli cadde su una fiaschetta.
«Ma sì…», disse facendo spallucce e la riempì col whisky che aveva lasciato sul comodino di fianco al letto.
Prese la giacca di pelle, la indossò e infilò la fiaschetta nella tasca interna. Fece mente locale, il coltello già l’aveva, assicurato nel fodero sul polpaccio sinistro, la pistola pure, nella fondina sul lato destro. Andò alla credenza e aprì il primo cassetto. Gli rimanevano due caricatori per la colt, questo voleva dire diciotto colpi in totale contando quelli che erano nel tamburo. Si sarebbe sentito più sicuro con più colpi ma dopotutto, non prevedeva guai per questa missione. Andò in un angolo della camera e prese la spada che era adagiata su una piccola rastrelliera e la assicurò al cinturone usando il laccio in cuoio del fodero. Mise lo zaino in spalla. Prese il cappello a tesa larga per proteggere il volto dai raggi solari ma aspettò a indossarlo.
«Sei pronta piccola?», chiese tornando in camera di Emily.
«Sì».
Aveva Adahi sotto un braccio, dei fogli in una mano, i suoi colori preferiti nell’altra e la corona in cartone che avevano fatto insieme in testa.
«Ah ma che bella principessa».
«Non sono una principessa, papà».
«E allora cosa sei?».
«Sono il Re dei coyote!», disse ruggendo e mostrando i denti.
Carter rise scuotendo la testa.
«Va bene, piccolo coyote».
«Re dei coyote!».
«Ok, vostra maestà! Andiamo».
Uscirono di casa e in pochi secondi raggiunsero la porta di Farah Jazani la quale abitava sul loro stesso piano a pochi metri di distanza. Le aveva già affidato la bambina altre volte quando gli capitava di dover passare tutto il giorno fuori casa e la donna si era sempre detta disponibile a darle un occhio in cambio di un modico pagamento.
Bussò alla porta e non dovette aspettare molto prima che l’aprisse. Aveva un viso ovale dai lineamenti morbidi e una folta capigliatura castano scuro che si accompagnava alla carnagione olivastra, gli occhi azzurri risplendevano glaciali, quasi estranei alla composizione altrimenti calda.
«Ciao, Ryan».
«Farah!», urlò la bambina alzando fogli e matite sopra la testa.
La donna sorrise e si chinò.
«Ciao anche a te piccolo coyote».
«Re dei coyote!».
«Sì», disse Carter. «A quanto pare oggi si è autoproclamata Re».
«Ah giusto, la corona, me lo sarei dovuta aspettare», disse Farah rialzandosi. «Qualcosa mi dice che passerò del tempo con un coyote reale».
«Solo se non ti crea fastidi… so che tutte le volte piombo qui senza preavviso…».
«Non preoccuparti», disse lei appoggiandosi alla porta. «Mi piace passare del tempo con Emily. Noi ci divertiamo insieme, vero?».
«Sì!».
«Non so davvero come ringraziarti. Devo passare sette giorni fuori città, otto al massimo nel caso ci siano complicazioni».
«Per me non è un problema», disse Farah accarezzando la testa della bambina. «Faremo tanti disegni».
«Sì».
«Ci stai salvando la vita, letteralmente. Se mai dovesse servirti qualcosa…».
«Saprò a chi chiedere».
Carter si abbassò e abbracciò la bambina.
«Fai la brava con Farah, mi raccomando».
«Sì, papà».
«Ci vediamo presto», disse dandole un bacio. «Ora va’!».
«C’è Serse che ha bisogno di coccole», disse Farah alludendo al suo gatto che a dispetto del nome non era un persiano.
«Aww», fece la bambina fiondandosi in casa alla ricerca del felino.
«Ecco un po’ di crediti per il cibo e il disturbo», disse Carter porgendole una scheda.
«Non preoccuparti», disse lei prendendola. «Staremo bene».
Carter annuì.
«A presto», disse indossando il cappello.
Si incamminò per il corridoio.
«Ryan…».
Si girò.
«Se proprio vuoi ringraziarmi… torna vivo».
Carter fece un sorriso tirato e portò una mano alla tesa del copricapo in un cenno d’assenso, poi si voltò senza più guardarsi indietro.
Prese la metropolitana per la terza volta quel giorno e tornò a Porta Ventidue. Mancavano cinque minuti allo scadere delle due ore quando giunse in vista dell’insegna dell’avvoltoio ghermitore. Non c’era da stupirsi che Johnson si fosse meritato il soprannome di “Avvoltoio” visto che a detta di molti non si comportava in maniera diversa da quelle bestie spazzine.
All’interno trovò un atrio più spazioso di quanto sembrasse dall’esterno, arredato in legno con toni di marrone, ocra e grigio chiaro. In mezzo alla stanza c’era un ampio tavolo rotondo con un proiettore olografico al centro e dodici sedie tutt’intorno. Seduto a una di queste c’era un uomo dai tratti asiatici, con capelli neri pettinati all’indietro e sopracciglia ispide, portava vestiti da viaggio e al suo fianco aveva un grosso zaino e una katana. Appoggiò lo zaino a terra, sfilò il cinturone e lo posò su di esso, poi si fece avanti.
«Ryan Carter», disse porgendogli la mano.
«Kazuya», rispose lui afferrandola.
In quel momento si spalancò una porta che dava sul retro e Johnson fece il suo ingresso nell’atrio.
«Ah molto bene, avete avuto modo di conoscervi. Prego, Delta Force, siedi pure dove vuoi, non ci sarà bisogno del proiettore olografico per questa missione, non devo dirvi niente di troppo complicato».
Carter prese posto al tavolo lasciando una sedia vuota tra lui e Kazuya.
«Allora, sapete che a Silver City c’è una grande miniera d’argento che sembrava essersi esaurita qualche anno fa, no?».
Carter aggrottò la fronte, non sapeva che la vena d’argento si fosse esaurita, vedendo che l’altro annuiva immaginò fosse un fatto divenuto di dominio pubblico mentre era in galera. Non prometteva niente di buono.
«Beh, diversi mesi fa Vince Brown, il proprietario della miniera, ha scoperto un nuovo filone più in profondità. Gli servivano nuovi macchinari per proseguire gli scavi e qui entro in gioco io: gli ho venduto un’escavatrice a metà prezzo, con la clausola che me l’avrebbe pagata per intero, più un generoso extra, quando l’estrazione d’argento sarebbe ripartita. Ormai la miniera dovrebbe essere tornata produttiva ma non ho notizie di quel figlio di uno sciacallo da un pezzo. Voglio che andiate a ricordargli il nostro accordo e a recuperare i cinquecentomila che mi deve».
Il ponte
Erano usciti dalla megalopoli nemmeno un’ora dopo aver parlato con Johnson, in sella a un paio di ronzini smunti che deambulavano a fatica piegati sotto il peso delle sacche e dei cavalieri. S’immersero in un mondo dominato da rocce rossastre, sabbia ocra e dura terra spazzata dal vento su cui crescevano a stento erba e cespugli. Oltrepassare Porta Ventidue era stato come uno schiaffo in pieno volto: il calore del sole, la sabbia che volava nel vento e le radiazioni erano come una forza ostile, opprimente, che tentava di corrodere la pelle. Carter non aveva idea di come facesse la gente che viveva fuori dalla megalopoli a non impazzire. Probabilmente, a un certo punto ci si faceva l’abitudine.
Il suo compagno di viaggio non si era dimostrato loquace e per la maggior parte del tempo cavalcarono in silenzio fermandosi solo per mangiare, abbeverare i cavalli e dormire. Anche quando si accampavano scambiavano solo poche parole ma a Carter non dispiaceva, si trovava a suo agio nel silenzio e, dopo aver passato anni in un carcere sovraffollato e l’ultimo mese nel caos di Nova, un po’ di tranquillità era benvenuta. La sera rimaneva sveglio fino a tardi, imbacuccato nel sacco a pelo a osservare le stelle, aveva quasi dimenticato quanto potessero essere brillanti. Le luci di Nova non si spegnevano mai, la megalopoli era sempre in fermento e solo nelle ore più buie della notte era possibile scorgere il cielo, ma anche allora, era visibile solo la luce delle stelle più luminose. Niente di paragonabile alla vista che si poteva godere dalla steppa. A dispetto del freddo vento notturno e della dura terra su cui giaceva, s’addormentò come cullato dall’assordante silenzio e dal rassicurante bagliore del piccolo falò.
L’indomani mattina si svegliò che l’alba era passata da un pezzo, Kazuya era già in piedi ma da come sbadigliava non doveva essersi alzato da molto. Almeno, si disse Carter, non l’aveva ancora sgozzato nel sonno. Si prese il suo tempo per stiracchiarsi e lasciare che gli occhi si abituassero alla luce, avevano viaggiato per due interi giorni da quando avevano lasciato Nova e avrebbero raggiunto Silver City nel tardo pomeriggio: non c’era fretta.
Aveva dormito come un bambino, sentiva solo un lieve pulsare sul retro della testa, segno che avrebbe dovuto portare più whiskey invece dell’acqua.
Strisciò fuori dal sacco a pelo nel momento in cui sentì l’acciarino scorrere sulla pietra focaia. Si allontanò di qualche passo e andò a pisciare contro una roccia disegnandoci un arco umido. Piegò il collo prima su un lato e poi sull’altro facendolo schioccare, poi sputò a terra per liberarsi dalla sensazione limacciosa alla bocca. Gli sarebbe piaciuto lavarsi faccia e denti ma non avevano abbastanza acqua.
Kazuya aveva approntato la padella su un vivace fuocherello e stava tagliando carote e patate a fette sottili in modo che impiegassero meno tempo a cuocere. Carter andò a prendere un pacchetto della carne secca che aveva portato e l’aprì. Si ficcò una striscia in bocca e lanciò il resto nella padella.
«Non sarai vegano, spero…».
Lo spadaccino lo squadrò di sottecchi per un momento, poi incurvò un angolo della bocca e scosse la testa.
«Ti sembro uno che potrebbe permetterselo? Questi sfizi sono roba da Interni. Mangio tutto quello che è commestibile, a patto che non ti faccia spuntare una seconda testa».
Carter emise una risata roca.
«Allora ti consiglio di evitare la mia carne, l’ho presa in un discount».
«Un discount del terzo anello? Cazzo, amico… sarà scarto di ratto».
Carter abbottonò la camicia e sbatté gli stivali a terra per assicurarsi che non ci si fossero rintanati degli scorpioni. Quella era probabilmente la conversazione più lunga che aveva avuto col suo compagno di viaggio quindi decise di approfittare di questo momento di loquacità per cercare di scoprire qualcosa in più.
«Hai già lavorato per Johnson?».
Kazuya si voltò e inarcò una delle ispide sopracciglia.
«Un paio di volte. Non tra i lavori migliori ma non me ne sono mai pentito. Tu come sei arrivato a Porta Ventidue?».
«Ho un appartamento in affitto nel quartiere del Dragone. Porta Ventidue è la più vicina ed è un ottimo posto dove cercare lavoro».
«E tra tutti hai scelto l’Avvoltoio?».
«Scelto non direi… ho passato in rassegna ogni agenzia ogni giorno nell’ultimo mese e ho avuto fortuna con lui».
«Proprio una gran fortuna…», disse Kazuya traboccando sarcasmo. «Andresti più a colpo sicuro osservando quali squadre escono dalla città», aggiunse infilzando una patata per sentire se era cotta. «Le agenzie sono sempre diffidenti verso gli estranei ma diventano più inclini ad assumere gente come noi se le loro squadre sono impegnate».
«Grazie per la dritta».
«Non sei delle parti del Dragone, vero?».
«Cosa te lo fa pensare?».
«Non mi sembri uno così sprovveduto da non saper di dover puntare alle agenzie che hanno il personale impegnato in missione per avere più probabilità di trovare lavoro, questo mi fa pensare che tu non sappia riconoscere il personale delle agenzie di Porta Ventidue e dunque che ti sia trasferito da poco».
«Hai fatto centro», disse Carter sfoderando un ghigno. «Mi sono trasferito il mese scorso. Seguendo il tuo stesso ragionamento, posso quindi affermare che tu sia nato e cresciuto a Porta Ventidue o in un quartiere limitrofo?».
«Nato e cresciuto nel Dragone».
«Rischiamo di essere vicini di casa», disse Carter sedendosi su un masso in prossimità del falò e prendendo un cucchiaio per tastare la colazione. «Credo sia pronta».
«Temevo volessi andare avanti a parlare fino a mezzodì».
Carter ridacchiò.
«Prometto che starò zitto fino a Silver City se ti fa sentire più a tuo agio».
Kazuya grugnì, poi prese un cucchiaio e si ficcò in bocca una striscia di carne secca e tutte le verdure che riuscì a raccogliere con una singola passata. Non avevano piatti quindi mangiarono direttamente dalla padella. Il cibo non era male nonostante la carne avesse un sapore chimico.
Quando ebbero finito, Carter si concesse un sorso dalla fiaschetta che portava nella tasca interna. Il whiskey era quasi finito ma sperava di poterne trovare a buon prezzo una volta arrivato in città. Indossò la giacca di pelle e sistemò in vita il cinturone. Prese il cavallo che era tutto intento a brucare l’erba secca intorno all’accampamento e si assicurò che la sella fosse legata ben stretta.
«Certo che Johnson avrebbe potuto darci due bestie che non fossero a un passo dalla tomba…».
Kazuya scoppiò in una risata amara.
«Se lo conoscessi meglio sapresti che ci è già andata di lusso che non ci abbia mandato a piedi… ci va bene che dobbiamo recuperare un sacco di soldi, ma stai tranquillo che, se non dovessimo riportarglieli vivi, ce li detrarrà dalla paga».
Carter grugnì e iniziò a raccogliere le sue cose.
«E dicevi che non ti sei mai trovato male?».
«È uno che paga il pattuito e lo paga subito», lo spadaccino fece spallucce. «È più di quanto si possa dire di altri».
«Era tutto quello che volevo sapere», disse Carter infilando un piede nella staffa, quando si issò in sella sentì il cavallo ondeggiare verso di sé. «Mi creperà sotto il culo questa povera bestia…».
«Tu non sembri messo in condizioni migliori», commentò Kazuya pestando il focolare per spegnere le fiamme, poi montò a sua volta.
Procedettero per diverse ore in direzione di una bassa catena montuosa all’andatura lenta e barcollante che i ronzini potevano permettersi. L’ambiente si faceva sempre più roccioso man mano che procedevano e a un certo punto sembrò come mancare il terreno in lontananza, una linea frastagliata separava la terra dal cielo: per raggiungere Silver City avrebbero dovuto attraversare un canyon.
«Non mi ero mai spinto così a sud-ovest», disse Carter grattandosi la barba. «Come lo superiamo?».
«Più avanti c’è un ponte. A non più di un paio d’ore».
«Sei già stato da queste parti?».
«No».
«Capisco… Johnson ti ha dato delle dritte sul percorso prima che arrivassi».
«Esatto».
«Perché non si fida di me…».
Kazuya rise.
«Suvvia non essere triste. L’Avvoltoio non si fida di nessuno e comunque ero in anticipo, tutto qui».
«Ti ha detto altro?».
«Non molto».
«Quindi è un sì…».
«Vuole solo assicurarsi che non tenterai di scappare coi suoi cinquecentomila».
Carter ridacchiò.
«Non ci tengo a diventare il “lavoro” di qualcun altro… cerco di risolvere i casini che ho, non di procurarmene di nuovi».
Continuarono a cavalcare finché non giunsero in un punto in cui il canyon curvava tagliando loro la strada, l’unico modo per proseguire era un ampio ponte, tanto largo da consentire il passaggio di un carro e abbastanza lungo da connettere i due lati del canyon. Fermarono i cavalli e Carter scrutò le assi, erano spesse quanto il suo braccio e le funi che le tenevano in posizione sembravano in buono stato. Anche i pilastri di cemento a cui erano assicurate davano un’idea di stabilità. Fece spallucce e spronò il cavallo in avanti. Il ponte non fece nemmeno una piega quando vi salirono ma l’effetto di sentirsi sospeso nell’aria gli fece salire il cuore in gola. Il vento si fece più forte e, guardando oltre le assi, tra la ragnatela di cordame, non c’era altro che un abisso di oltre un centinaio di metri che terminava su una brulla steppa non dissimile da quella che avevano appena lasciato. Carter deglutì e si impose di non staccare gli occhi dall’orizzonte.
Mancavano una manciata di metri alla fine del ponte e stava già assaporando l’idea di rimettere piede su terreno solido quando sei loschi figuri saltarono fuori da dietro una formazione rocciosa e bloccarono il passaggio.
«Dustlinger», disse Kazuya tra i denti usando il nome dispregiativo che i cittadini di Nova avevano affibbiato ai pistoleri dei territori esterni.
Carter sbuffò e avvicinò la mano alla fondina.
«Buona giornata, signori», esordì uno avanzando fino all’inizio del ponte. «Il mio nome è Adam Kelly. Io e i miei compari siamo gli addetti alla riscossione del pedaggio».
Avevano abiti logori e ricoperti di polvere. L’uomo che aveva parlato aveva una Colt Navy calibro trentasei ben esposta sul fianco, gli altri tenevano le mani sulle impugnature dei coltelli, cercando di fingere che fosse una posa casuale. Più che addetti alla riscossione del pedaggio, sembravano gli addetti allo sgozzamento di chi rifiutava di pagarlo. Carter non era preoccupato di essere derubato, gli erano rimasti sì e no trenta crediti e li avrebbe ceduti volentieri per non doversi scontrare due contro sei. Erano quasi arrivati in città e, dopo aver passato due giorni nella polvere, sarebbe stato davvero un brutto momento in cui crepare.
«Allora faremo il giro lungo», disse Kazuya che, a differenza sua, doveva avere qualche credito in più in tasca o qualche neurone in meno in testa.
«Se state andando a Silver City finireste con l’allungare la strada di un paio di giorni», disse il capo della banda. «Ve lo sconsigliamo, sono territori pericolosi questi».
Kazuya sbuffò mostrando un ghigno ferale.
«Non siamo degli sprovveduti, dubito avremo problemi».
Adam Kelly serrò la mascella.
«A essere sinceri, il problema è un altro: avete già percorso un buon novanta percento del ponte. Anche doveste tornare indietro, direi che ormai ci dovete un buon novanta percento del pedaggio».
«E quanto sarebbe questo pedaggio?», intervenne Carter prima che il compagno gettasse al vento qualsiasi tentativo diplomatico, era chiaro che non li avrebbero lasciati andare senza ricevere dei crediti in cambio.
«Duecento crediti».
Carter sorrise scuotendo la testa.
«Ok ragazzi, ascoltatemi», iniziò. «Vi siete imbattuti in due poveracci come voi, oltre ai vestiti che abbiamo addosso, la carne secca nello zaino e queste due bestie malandate su cui poggiamo il culo a me son rimasti nemmeno trenta crediti e dubito che il mio compare ne abbia molti in più. Se proprio non volete farvi da parte, i crediti possiamo darveli, non mi piace l’idea di battermi con della gente che fa quel che può per sopravvivere su questa landa radioattiva…».
«Hai la lingua lunga», replicò Adam Kelly, si grattò la barba. «Non è ciò che abbiamo chiesto, ma è pur sempre un inizio», fece cenno a due dei suoi i quali si fecero avanti.
Carter scostò la giacca per prendere la scheda coi crediti e la colt che portava al fianco intercettò un raggio di sole, il brillio si riflesse negli occhi dei dustlinger.
«Hai una bella pistola», disse il loro capo. «La accetteremo come copertura del pedaggio che non potete permettervi, assieme ai cavalli, si intende…».
Carter si voltò verso Kazuya.
«Io la strada di ritorno a piedi non me la faccio», disse lui.
Carter sospirò.
«Va bene anche se te la consegno un proiettile alla volta?».
Estrasse fulmineo ed esplose due colpi, Adam Kelly stramazzò con un buco al petto e uno in testa. Il boato degli spari echeggiò tra le pareti del canyon e il cavallo s’imbizzarrì.
«Stupido animale!», urlò Carter rotolando dalla sella.
Cadde di schiena picchiando la nuca sulle assi e due mani lo agguantarono per la giubba. Si ritrovò addosso i due dustlinger che erano venuti a prendere i crediti. Evitò per miracolo gli zoccoli dell’animale imbizzarrito che buttò a terra uno dei due malviventi. Cercò di alzare la mano con la pistola ma il bandito gliela bloccò. Fece appena in tempo ad afferrargli l’altra prima che il pugnale calasse su di lui. Era ancora rintronato per la caduta e l’assalitore ne approfittò per sbattergli la mano con cui teneva la pistola sulle assi più volte finché non perse la presa. Reagì d’istinto, sollevò di scatto la gamba colpendolo con una ginocchiata nelle palle che lo fece strillare e ne approfittò per ruotarlo, ritrovandosi sopra. Fece leva su gomito e polso, girando la mano col coltello contro di lui e glielo spinse nel petto fino all’elsa.
L’uomo smise di dimenarsi.
Un colpo alla testa lo mandò sdraiato di pancia sul cadavere che puzzava di sudore e liquore scadente. Afferrò il pugnale estraendolo dal petto dell’uomo morto e si girò giusto in tempo per ricevere una sequela di calci nello stomaco. Agitò il pugnale davanti a sé ferendo le caviglie del secondo bandito. Doveva avergli reciso un tendine perché questo precipitò al suolo finendo per metà tra le corde del ponte. Con un poderoso calcio, Carter completò l’opera, scagliando l’avversario nel vuoto. Il grido si spense diversi secondi dopo con un tonfo sordo.
Sputando sangue, Carter recuperò la pistola che era scivolata vicino al bordo del ponte e si mise in piedi. Si voltò e vide Kazuya che, con un colpo deciso, mozzava un braccio all’altezza del gomito all’ultimo dustlinger rimasto in piedi. Il bandito cacciò un urlo stridulo e si diede alla fuga col moncherino che spruzzava sangue.
«Eh no cazzo», disse Carter impugnando il coltello per la lama tra indice e pollice.
Avanzò barcollando e scagliò l’arma che, qualche rotazione dopo, s’infilzò in profondità nella sabbia.
«Merda…», sputò altro sangue e portò una mano alle costole. «Sono fuori forma…».
Kazuya lo guardò con un sopracciglio inarcato.
«Non preoccuparti, morirà dissanguato».
Carter gli rifilò uno sguardo obliquo e puntò la pistola.
«Non gli darò la soddisfazione di crepare dopo essersela svignata…».
Sparò al fuggitivo abbattendolo con un colpo secco.
«Non sarebbe comunque andato lontano».
«Ci tenevo a vederlo morto».
«Spietato…».
«Disse quello che non ha fatto niente per evitare lo scontro…».
«Ah, mai detto di essere un santo», si difese Kazuya alzando le mani. «Ma tu mi sembravi uno di quelli che non infierisce sui nemici sconfitti».
«Ha cercato di uccidermi», tagliò corto Carter. «Non te ne vai sulle tue gambe dopo aver cercato di uccidermi».
«Beh in realtà cercava di uccidere me», puntualizzò Kazuya con un ghigno.
«Anche chi cerca di uccidere uno che sta dalla mia parte non se ne va sulle sue gambe. Ma poi…», Carter squadrò il guerriero che stava nel mezzo di una pozza di sangue e arti tagliati. «Sei dispiaciuto per la fine che ha fatto?!».
«Non me ne frega un cazzo», fece spallucce. «Hanno fatto di tutto per farsi ammazzare».
«E allora non rompere i coglioni!».
Kazuya scoppiò in una risata rauca e rinfoderò la katana.
Il suo compagno di viaggio non si era dimostrato loquace e per la maggior parte del tempo cavalcarono in silenzio fermandosi solo per mangiare, abbeverare i cavalli e dormire. Anche quando si accampavano scambiavano solo poche parole ma a Carter non dispiaceva, si trovava a suo agio nel silenzio e, dopo aver passato anni in un carcere sovraffollato e l’ultimo mese nel caos di Nova, un po’ di tranquillità era benvenuta. La sera rimaneva sveglio fino a tardi, imbacuccato nel sacco a pelo a osservare le stelle, aveva quasi dimenticato quanto potessero essere brillanti. Le luci di Nova non si spegnevano mai, la megalopoli era sempre in fermento e solo nelle ore più buie della notte era possibile scorgere il cielo, ma anche allora, era visibile solo la luce delle stelle più luminose. Niente di paragonabile alla vista che si poteva godere dalla steppa. A dispetto del freddo vento notturno e della dura terra su cui giaceva, s’addormentò come cullato dall’assordante silenzio e dal rassicurante bagliore del piccolo falò.
L’indomani mattina si svegliò che l’alba era passata da un pezzo, Kazuya era già in piedi ma da come sbadigliava non doveva essersi alzato da molto. Almeno, si disse Carter, non l’aveva ancora sgozzato nel sonno. Si prese il suo tempo per stiracchiarsi e lasciare che gli occhi si abituassero alla luce, avevano viaggiato per due interi giorni da quando avevano lasciato Nova e avrebbero raggiunto Silver City nel tardo pomeriggio: non c’era fretta.
Aveva dormito come un bambino, sentiva solo un lieve pulsare sul retro della testa, segno che avrebbe dovuto portare più whiskey invece dell’acqua.
Strisciò fuori dal sacco a pelo nel momento in cui sentì l’acciarino scorrere sulla pietra focaia. Si allontanò di qualche passo e andò a pisciare contro una roccia disegnandoci un arco umido. Piegò il collo prima su un lato e poi sull’altro facendolo schioccare, poi sputò a terra per liberarsi dalla sensazione limacciosa alla bocca. Gli sarebbe piaciuto lavarsi faccia e denti ma non avevano abbastanza acqua.
Kazuya aveva approntato la padella su un vivace fuocherello e stava tagliando carote e patate a fette sottili in modo che impiegassero meno tempo a cuocere. Carter andò a prendere un pacchetto della carne secca che aveva portato e l’aprì. Si ficcò una striscia in bocca e lanciò il resto nella padella.
«Non sarai vegano, spero…».
Lo spadaccino lo squadrò di sottecchi per un momento, poi incurvò un angolo della bocca e scosse la testa.
«Ti sembro uno che potrebbe permetterselo? Questi sfizi sono roba da Interni. Mangio tutto quello che è commestibile, a patto che non ti faccia spuntare una seconda testa».
Carter emise una risata roca.
«Allora ti consiglio di evitare la mia carne, l’ho presa in un discount».
«Un discount del terzo anello? Cazzo, amico… sarà scarto di ratto».
Carter abbottonò la camicia e sbatté gli stivali a terra per assicurarsi che non ci si fossero rintanati degli scorpioni. Quella era probabilmente la conversazione più lunga che aveva avuto col suo compagno di viaggio quindi decise di approfittare di questo momento di loquacità per cercare di scoprire qualcosa in più.
«Hai già lavorato per Johnson?».
Kazuya si voltò e inarcò una delle ispide sopracciglia.
«Un paio di volte. Non tra i lavori migliori ma non me ne sono mai pentito. Tu come sei arrivato a Porta Ventidue?».
«Ho un appartamento in affitto nel quartiere del Dragone. Porta Ventidue è la più vicina ed è un ottimo posto dove cercare lavoro».
«E tra tutti hai scelto l’Avvoltoio?».
«Scelto non direi… ho passato in rassegna ogni agenzia ogni giorno nell’ultimo mese e ho avuto fortuna con lui».
«Proprio una gran fortuna…», disse Kazuya traboccando sarcasmo. «Andresti più a colpo sicuro osservando quali squadre escono dalla città», aggiunse infilzando una patata per sentire se era cotta. «Le agenzie sono sempre diffidenti verso gli estranei ma diventano più inclini ad assumere gente come noi se le loro squadre sono impegnate».
«Grazie per la dritta».
«Non sei delle parti del Dragone, vero?».
«Cosa te lo fa pensare?».
«Non mi sembri uno così sprovveduto da non saper di dover puntare alle agenzie che hanno il personale impegnato in missione per avere più probabilità di trovare lavoro, questo mi fa pensare che tu non sappia riconoscere il personale delle agenzie di Porta Ventidue e dunque che ti sia trasferito da poco».
«Hai fatto centro», disse Carter sfoderando un ghigno. «Mi sono trasferito il mese scorso. Seguendo il tuo stesso ragionamento, posso quindi affermare che tu sia nato e cresciuto a Porta Ventidue o in un quartiere limitrofo?».
«Nato e cresciuto nel Dragone».
«Rischiamo di essere vicini di casa», disse Carter sedendosi su un masso in prossimità del falò e prendendo un cucchiaio per tastare la colazione. «Credo sia pronta».
«Temevo volessi andare avanti a parlare fino a mezzodì».
Carter ridacchiò.
«Prometto che starò zitto fino a Silver City se ti fa sentire più a tuo agio».
Kazuya grugnì, poi prese un cucchiaio e si ficcò in bocca una striscia di carne secca e tutte le verdure che riuscì a raccogliere con una singola passata. Non avevano piatti quindi mangiarono direttamente dalla padella. Il cibo non era male nonostante la carne avesse un sapore chimico.
Quando ebbero finito, Carter si concesse un sorso dalla fiaschetta che portava nella tasca interna. Il whiskey era quasi finito ma sperava di poterne trovare a buon prezzo una volta arrivato in città. Indossò la giacca di pelle e sistemò in vita il cinturone. Prese il cavallo che era tutto intento a brucare l’erba secca intorno all’accampamento e si assicurò che la sella fosse legata ben stretta.
«Certo che Johnson avrebbe potuto darci due bestie che non fossero a un passo dalla tomba…».
Kazuya scoppiò in una risata amara.
«Se lo conoscessi meglio sapresti che ci è già andata di lusso che non ci abbia mandato a piedi… ci va bene che dobbiamo recuperare un sacco di soldi, ma stai tranquillo che, se non dovessimo riportarglieli vivi, ce li detrarrà dalla paga».
Carter grugnì e iniziò a raccogliere le sue cose.
«E dicevi che non ti sei mai trovato male?».
«È uno che paga il pattuito e lo paga subito», lo spadaccino fece spallucce. «È più di quanto si possa dire di altri».
«Era tutto quello che volevo sapere», disse Carter infilando un piede nella staffa, quando si issò in sella sentì il cavallo ondeggiare verso di sé. «Mi creperà sotto il culo questa povera bestia…».
«Tu non sembri messo in condizioni migliori», commentò Kazuya pestando il focolare per spegnere le fiamme, poi montò a sua volta.
Procedettero per diverse ore in direzione di una bassa catena montuosa all’andatura lenta e barcollante che i ronzini potevano permettersi. L’ambiente si faceva sempre più roccioso man mano che procedevano e a un certo punto sembrò come mancare il terreno in lontananza, una linea frastagliata separava la terra dal cielo: per raggiungere Silver City avrebbero dovuto attraversare un canyon.
«Non mi ero mai spinto così a sud-ovest», disse Carter grattandosi la barba. «Come lo superiamo?».
«Più avanti c’è un ponte. A non più di un paio d’ore».
«Sei già stato da queste parti?».
«No».
«Capisco… Johnson ti ha dato delle dritte sul percorso prima che arrivassi».
«Esatto».
«Perché non si fida di me…».
Kazuya rise.
«Suvvia non essere triste. L’Avvoltoio non si fida di nessuno e comunque ero in anticipo, tutto qui».
«Ti ha detto altro?».
«Non molto».
«Quindi è un sì…».
«Vuole solo assicurarsi che non tenterai di scappare coi suoi cinquecentomila».
Carter ridacchiò.
«Non ci tengo a diventare il “lavoro” di qualcun altro… cerco di risolvere i casini che ho, non di procurarmene di nuovi».
Continuarono a cavalcare finché non giunsero in un punto in cui il canyon curvava tagliando loro la strada, l’unico modo per proseguire era un ampio ponte, tanto largo da consentire il passaggio di un carro e abbastanza lungo da connettere i due lati del canyon. Fermarono i cavalli e Carter scrutò le assi, erano spesse quanto il suo braccio e le funi che le tenevano in posizione sembravano in buono stato. Anche i pilastri di cemento a cui erano assicurate davano un’idea di stabilità. Fece spallucce e spronò il cavallo in avanti. Il ponte non fece nemmeno una piega quando vi salirono ma l’effetto di sentirsi sospeso nell’aria gli fece salire il cuore in gola. Il vento si fece più forte e, guardando oltre le assi, tra la ragnatela di cordame, non c’era altro che un abisso di oltre un centinaio di metri che terminava su una brulla steppa non dissimile da quella che avevano appena lasciato. Carter deglutì e si impose di non staccare gli occhi dall’orizzonte.
Mancavano una manciata di metri alla fine del ponte e stava già assaporando l’idea di rimettere piede su terreno solido quando sei loschi figuri saltarono fuori da dietro una formazione rocciosa e bloccarono il passaggio.
«Dustlinger», disse Kazuya tra i denti usando il nome dispregiativo che i cittadini di Nova avevano affibbiato ai pistoleri dei territori esterni.
Carter sbuffò e avvicinò la mano alla fondina.
«Buona giornata, signori», esordì uno avanzando fino all’inizio del ponte. «Il mio nome è Adam Kelly. Io e i miei compari siamo gli addetti alla riscossione del pedaggio».
Avevano abiti logori e ricoperti di polvere. L’uomo che aveva parlato aveva una Colt Navy calibro trentasei ben esposta sul fianco, gli altri tenevano le mani sulle impugnature dei coltelli, cercando di fingere che fosse una posa casuale. Più che addetti alla riscossione del pedaggio, sembravano gli addetti allo sgozzamento di chi rifiutava di pagarlo. Carter non era preoccupato di essere derubato, gli erano rimasti sì e no trenta crediti e li avrebbe ceduti volentieri per non doversi scontrare due contro sei. Erano quasi arrivati in città e, dopo aver passato due giorni nella polvere, sarebbe stato davvero un brutto momento in cui crepare.
«Allora faremo il giro lungo», disse Kazuya che, a differenza sua, doveva avere qualche credito in più in tasca o qualche neurone in meno in testa.
«Se state andando a Silver City finireste con l’allungare la strada di un paio di giorni», disse il capo della banda. «Ve lo sconsigliamo, sono territori pericolosi questi».
Kazuya sbuffò mostrando un ghigno ferale.
«Non siamo degli sprovveduti, dubito avremo problemi».
Adam Kelly serrò la mascella.
«A essere sinceri, il problema è un altro: avete già percorso un buon novanta percento del ponte. Anche doveste tornare indietro, direi che ormai ci dovete un buon novanta percento del pedaggio».
«E quanto sarebbe questo pedaggio?», intervenne Carter prima che il compagno gettasse al vento qualsiasi tentativo diplomatico, era chiaro che non li avrebbero lasciati andare senza ricevere dei crediti in cambio.
«Duecento crediti».
Carter sorrise scuotendo la testa.
«Ok ragazzi, ascoltatemi», iniziò. «Vi siete imbattuti in due poveracci come voi, oltre ai vestiti che abbiamo addosso, la carne secca nello zaino e queste due bestie malandate su cui poggiamo il culo a me son rimasti nemmeno trenta crediti e dubito che il mio compare ne abbia molti in più. Se proprio non volete farvi da parte, i crediti possiamo darveli, non mi piace l’idea di battermi con della gente che fa quel che può per sopravvivere su questa landa radioattiva…».
«Hai la lingua lunga», replicò Adam Kelly, si grattò la barba. «Non è ciò che abbiamo chiesto, ma è pur sempre un inizio», fece cenno a due dei suoi i quali si fecero avanti.
Carter scostò la giacca per prendere la scheda coi crediti e la colt che portava al fianco intercettò un raggio di sole, il brillio si riflesse negli occhi dei dustlinger.
«Hai una bella pistola», disse il loro capo. «La accetteremo come copertura del pedaggio che non potete permettervi, assieme ai cavalli, si intende…».
Carter si voltò verso Kazuya.
«Io la strada di ritorno a piedi non me la faccio», disse lui.
Carter sospirò.
«Va bene anche se te la consegno un proiettile alla volta?».
Estrasse fulmineo ed esplose due colpi, Adam Kelly stramazzò con un buco al petto e uno in testa. Il boato degli spari echeggiò tra le pareti del canyon e il cavallo s’imbizzarrì.
«Stupido animale!», urlò Carter rotolando dalla sella.
Cadde di schiena picchiando la nuca sulle assi e due mani lo agguantarono per la giubba. Si ritrovò addosso i due dustlinger che erano venuti a prendere i crediti. Evitò per miracolo gli zoccoli dell’animale imbizzarrito che buttò a terra uno dei due malviventi. Cercò di alzare la mano con la pistola ma il bandito gliela bloccò. Fece appena in tempo ad afferrargli l’altra prima che il pugnale calasse su di lui. Era ancora rintronato per la caduta e l’assalitore ne approfittò per sbattergli la mano con cui teneva la pistola sulle assi più volte finché non perse la presa. Reagì d’istinto, sollevò di scatto la gamba colpendolo con una ginocchiata nelle palle che lo fece strillare e ne approfittò per ruotarlo, ritrovandosi sopra. Fece leva su gomito e polso, girando la mano col coltello contro di lui e glielo spinse nel petto fino all’elsa.
L’uomo smise di dimenarsi.
Un colpo alla testa lo mandò sdraiato di pancia sul cadavere che puzzava di sudore e liquore scadente. Afferrò il pugnale estraendolo dal petto dell’uomo morto e si girò giusto in tempo per ricevere una sequela di calci nello stomaco. Agitò il pugnale davanti a sé ferendo le caviglie del secondo bandito. Doveva avergli reciso un tendine perché questo precipitò al suolo finendo per metà tra le corde del ponte. Con un poderoso calcio, Carter completò l’opera, scagliando l’avversario nel vuoto. Il grido si spense diversi secondi dopo con un tonfo sordo.
Sputando sangue, Carter recuperò la pistola che era scivolata vicino al bordo del ponte e si mise in piedi. Si voltò e vide Kazuya che, con un colpo deciso, mozzava un braccio all’altezza del gomito all’ultimo dustlinger rimasto in piedi. Il bandito cacciò un urlo stridulo e si diede alla fuga col moncherino che spruzzava sangue.
«Eh no cazzo», disse Carter impugnando il coltello per la lama tra indice e pollice.
Avanzò barcollando e scagliò l’arma che, qualche rotazione dopo, s’infilzò in profondità nella sabbia.
«Merda…», sputò altro sangue e portò una mano alle costole. «Sono fuori forma…».
Kazuya lo guardò con un sopracciglio inarcato.
«Non preoccuparti, morirà dissanguato».
Carter gli rifilò uno sguardo obliquo e puntò la pistola.
«Non gli darò la soddisfazione di crepare dopo essersela svignata…».
Sparò al fuggitivo abbattendolo con un colpo secco.
«Non sarebbe comunque andato lontano».
«Ci tenevo a vederlo morto».
«Spietato…».
«Disse quello che non ha fatto niente per evitare lo scontro…».
«Ah, mai detto di essere un santo», si difese Kazuya alzando le mani. «Ma tu mi sembravi uno di quelli che non infierisce sui nemici sconfitti».
«Ha cercato di uccidermi», tagliò corto Carter. «Non te ne vai sulle tue gambe dopo aver cercato di uccidermi».
«Beh in realtà cercava di uccidere me», puntualizzò Kazuya con un ghigno.
«Anche chi cerca di uccidere uno che sta dalla mia parte non se ne va sulle sue gambe. Ma poi…», Carter squadrò il guerriero che stava nel mezzo di una pozza di sangue e arti tagliati. «Sei dispiaciuto per la fine che ha fatto?!».
«Non me ne frega un cazzo», fece spallucce. «Hanno fatto di tutto per farsi ammazzare».
«E allora non rompere i coglioni!».
Kazuya scoppiò in una risata rauca e rinfoderò la katana.
Il saloon
Nonostante si fossero spaventati a causa dello scontro, i due ronzini erano stati troppo pigri per allontanarsi. Dopo averli recuperati, Carter dovette ammettere di essere felice di com’era andata: a parte il bernoccolo che si era procurato cadendo da cavallo, invece di perdere i crediti che aveva in tasca, ne aveva guadagnati un centinaio. Si erano spartiti anche orologi, cinturoni di cuoio, razioni da viaggio e pugnali. Delle due pistole che trovarono, una era di fattura talmente rozza e riparata così tante volte che minacciava di esplodere in faccia a chiunque premesse il grilletto, la lanciarono nel canyon, l’altra, quella di Adam Kelly, era invece di buona fattura anche se graffiata sull’impugnatura. Kazuya gliela lasciò assieme a tutti i proiettili senza pretendere nulla in cambio, dicendo che preferiva affrontare i nemici corpo a corpo in un tono di superiorità tale che Carter non avrebbe saputo se imputarlo a una sbruffonata o a una radicata vena di idiozia.
Nelle successive ore a cavallo il terreno discese per poi diventare pianeggiante, il vento soffiava alle loro spalle come sospingendoli verso la meta, i granelli di sabbia volanti indicavano loro la via. Quando arrivarono in vista di Silver City, la prateria aveva lasciato il posto a un terreno più roccioso. A parte rari edifici in cemento, la maggior parte delle costruzioni erano in legno e la polvere ocra si era depositata ovunque come un mantello dando un che di spettrale alla visione.
Silver City
Recitava un cartello affisso a lato della strada principale. Più che una città sembrava un grosso villaggio: si sviluppava su una pianta assiale lungo lo stradone principale che la tagliava a metà e due parallele più piccole che ne definivano i quarti con poche strade trasversali che spezzavano le linee di costruzioni.
Fecero il loro magro ingresso alla città coperti da uno strato di polvere e con i ronzini che trascinavano gli zoccoli sul terreno lasciando leggeri solchi tra un’impronta e l’altra. Il sole si stava avviando all’orizzonte e le ombre delle case si allungavano sempre di più, entro un paio d’ore sarebbe calata la notte.
«Non sembra una città che sforna argento», disse Carter ricambiando lo sguardo delle persone che li squadravano di sottecchi. Era stanco per il viaggio e gli stava salendo un bel mal di testa.
«Nemmeno a me… che abbiano iniziato da poco e debbano ancora trarne i profitti?».
«Spero solo non sia problematico recuperare i cinquecentomila».
«Direi di preoccuparcene dopo cena. Al momento voglio solo scendere da questa bestia maleodorante e farmi un bagno».
Carter non poteva dirsi in disaccordo. Si fermarono alla prima locanda che videro lungo la strada principale, davanti all’ingresso svettava l’effige di un grosso corno lucente e una scritta semi-cancellata ne riportava il nome.
Silver Horn Saloon
Smontarono e legarono le briglie a un pilastro del porticato in legno, in modo che i ronzini non si allontanassero, anche se sembrava non avessero intenzione di fare un passo in più del necessario. Presero gli zaini ed entrarono nel saloon facendo ondeggiare le ante della porta che cigolarono come indignate.
L’interno era avvolto nella penombra e permeato dall’odore di whisky e sbobba a base di fagioli. Il pavimento era coperto da un sottile strato di polvere che si faceva più spesso nei pressi della porta ma i tavoli erano lucidi e puliti. Degli uomini seduti al bancone con i bicchieri pieni di un liquido marrone rossastro si girarono a guardarli, la bocca curva in un’espressione ebete lasciava intravedere i denti cariati. Altri erano seduti a un tavolo intenti a giocare a carte e non badarono al loro arrivo. Un pianoforte riposava addossato al muro, chiuso e con un lievissimo strato di polvere che, anche se non era abbastanza da denotarne il disuso, era sufficiente per dire che non veniva suonato da giorni.
«Buonasera forestieri», disse l’oste strofinando un boccale con uno straccio logoro. «Cosa posso fare per voi?».
«Vorremmo due camere per stanotte», disse Kazuya mettendo mano al portafoglio.
«Con vista sulla strada», aggiunse Carter.
«Ho un’offerta con cena e colazione incluse, dieci crediti ciascuno, se per voi va bene. Alcolici esclusi, si intende».
«Quanto per i cavalli?», chiese lo spadaccino.
«Per altri cinque crediti il ragazzo si occuperà di loro».
«Andata», disse Carter.
Consegnarono le carte a turno e l’oste le restituì assieme a una coppia di chiavi.
«Stanze dodici e tredici, le trovate sulla destra al primo piano. L’ascensore è rotto quindi vi toccano le scale», disse indicando una rampa addossata alla parete opposta rispetto a dove erano entrati. «Benvenuti al Silver Horn Saloon».
Quando Carter fu solo in camera posò lo zaino su una sedia e si spogliò, mise i vestiti sudati e impolverati in un cesto, sarebbe sceso nello scantinato più tardi per vedere se avevano delle lavatrici. Andò in bagno e si guardò allo specchio, aveva la schiena piena di abrasioni e un esteso livido sul ventre. Grugnì, scosse la testa ed entrò in doccia. Non c’era l’acqua calda ma per lo meno c’era acqua… data l’aridità della zona dovevano star attingendo da un fiume sotterraneo. Quando ebbe finito di asciugarsi infilò dei vestiti puliti e si lasciò cadere sul letto. Chiuse gli occhi qualche minuto, dalla nuca partivano delle pulsazioni che gli percorrevano tutto il cranio come fitte ovattate. Gli sarebbe servita una buona dose di sonno o un’abbondante quantità di whisky per placare il dolore. Tuttavia, era ancora presto per mettersi a dormire e aveva ormai da tempo svuotato la fiaschetta. Prese il telefono ed entrò nella rubrica per chiamare Farah ma il segnale era assente quindi lasciò ricadere il braccio sul letto. Era sicuro che Emily stesse bene ma gli sarebbe piaciuto lo stesso vederla. Anche scambiare due chiacchiere con Farah non sarebbe stato male.
Si alzò e andò ad affacciarsi al balcone, la strada principale ai lati della quale sorgeva Silver City continuava oltre la città inerpicandosi sulle montagne. Nonostante stesse ormai calando il sole non vide i minatori che tornavano dal lavoro e, per una città che si era sviluppata in funzione della miniera d’argento, non poteva essere un buon segno. Le uniche persone in strada erano i bottegai che chiudevano le loro attività per tornare a casa. Che tutti i minatori fossero tornati mentre era sotto la doccia? Improbabile. Questo fatto gli suonò in testa come un campanello d’allarme e decise che era inutile restarsene lì a far niente, tanto valeva scendere nel saloon e iniziare a investigare un po’. Nel frattempo, avrebbe anche potuto farsi un bicchierino.
Quando raggiunse il piano di sotto, l’odore di fagioli si era intensificato e c’erano un paio di uomini in più al bancone. Il gruppo che stava giocando a carte aveva smesso, sostituendo il mazzo con una bottiglia di vino.
«Ciao cowboy», pronunciò una voce melliflua alle sue spalle. «Cerchi un po’ di divertimento?».
Voltandosi, si trovò davanti una donna dai lunghi boccoli bruni, avvolta in un succinto abito verde con lustrini dorati. Le labbra spiccavano rosse come petali di rosa ed era accompagnata da un sentore di gelsomino. Un’oasi profumata in quel deserto polveroso.
«Non voglio essere sgarbato…», disse non potendo fare a meno di sorriderle di rimando. «Ma non sono qui per questo».
«Cos’è che porta fin qui un bel ragazzo di città senza concedergli un momento di piacere?».
«E pensa che ho pure rischiato la pelle per essere qui…».
La donna contrasse la bocca in una smorfia.
«Devi imparare a rilassarti», lo redarguì. «Sembri teso, mio buon…?».
«Carter, Ryan Carter. Posso conoscere il tuo nome?».
«Wright», disse lei socchiudendo gli occhi e nascondendo il viso dietro alle ombre dei boccoli. «Vanessa Wright».
Carter inarcò le labbra in un ghigno.
«Forse, Ryan…», riprese lei. «Sei teso da così tanto tempo che non ricordi più come distendere i nervi».
Vanessa ci aveva preso più di quanto volesse ammettere a sé stesso. La Delta Force, il contrabbando, la galera, la morte di sua moglie e la disperata ricerca di un posto dove vivere con Emily… erano stati anni talmente duri che forse davvero non sapeva più cosa volesse dire rilassarsi e abbassare le difese.
«Forse hai ragione», ammise. «Potrebbe esserci qualcosa che puoi fare per me».
«Dal tono di voce sembrerebbe una conversazione».
«Delusa?».
«Non mi ci pago da vivere».
«Ah con quello non potrei comunque aiutarti… sono praticamente al verde!».
Vanessa sollevò un sopracciglio.
«Ecco svelato l’arcano! E io che pensavo di non piacerti…».
«Non crederò neppure per un secondo che stessi dubitando del tuo fascino».
Vanessa sfoderò un sorriso smagliante.
«Comunque no, non sono delusa. Mi manca parlare con qualcuno che non mi guardi alla stregua di una bistecca».
«Molto bene! Il minimo che posso fare è offrirti da bere», disse facendo un cenno all’oste.
Scostò una sedia dal tavolo più vicino in modo che Vanessa potesse sedersi, poi prese posto sul lato adiacente.
«Cosa bevete?», chiese l’oste raggiungendoli.
«Whisky».
«Abbiamo tre qualità di whisky distillate da noi. Partiamo dal Corno Rosso che è il più economico, altrimenti c’è il Corno Nero, invecchiato dodici anni e, per i palati più raffinati, abbiamo il Corno Blu Gran Riserva invecchiato venticinque anni».
«Direi che il Corno Rosso va benissimo».
«Fai due», aggiunse Vanessa. «Rosso, nero, blu, ho assaggiato tutti i colori e per me hanno lo stesso sapore».
«Ah!», Carter scosse la testa. «Mi permetto di dissentire… ma potendomene permettere poca, al doppio della qualità preferisco il doppio della quantità».
Quando i loro drink furono arrivati, Vanessa sollevò il suo.
«Alle nuove amicizie», brindò.
Carter alzò il bicchiere per poi abbassarlo colpendo il tavolo col fondo e bevve un sorso. Il familiare sapore affumicato gli pervase la bocca e, con un leggero bruciore, gli scese in gola. Forse, sarebbero bastati un bicchiere o due per far sparire il mal di testa.
«Grazie per il drink», disse Vanessa. «Mi serviva».
«Ma figurati».
«Quindi, cosa volevi chiedermi?».
Carter scorse lo sguardo sul saloon che si stava pian piano riempiendo.
«So che la città prende il nome da una miniera d’argento», disse appoggiandosi allo schienale. «Ma questa non mi dà l’idea di essere una città che ha visto molto argento negli ultimi tempi. La miniera, è improduttiva?».
«Tutto qui? Ti avrei risposto anche senza drink…».
«Era più una scusa per non bere da solo».
Vanessa prese un sorso prima di parlare.
«Non è che sia improduttiva… da quello che so, la nuova vena è reale. Però paiono esserci dei problemi, non ci ho capito molto a essere sincera, i minatori raccontano strane storie. Sono spaventati e non vogliono lavorare. Il fatto è che se non lavorano non guadagnano e se non guadagnano loro non lo faccio nemmeno io…».
«Potremmo avere un problema in comune…».
Vanessa inarcò un sopracciglio.
«Pensavi di portarti a letto i minatori per soldi?».
Carter scoppiò a ridere.
«Direi di no… ma dobbiamo riscuotere un debito da parte di Vince Brown…».
«Capisco… Vince non è esattamente di buon umore in questo periodo».
«Sai dove posso trovarlo?».
«Lo troverai qui dopo cena. Viene tutti i giorni a giocare a poker con amici e parenti».
«Come posso riconoscerlo?».
«Non sarà difficile, è l’unico a indossare una tuba da queste parti e non se la toglie nemmeno mentre caga».
Carter annuì pensieroso.
«E riguardo alle storie che raccontano i minatori, cosa sai dirmi?».
«Che mi fanno accapponare la pelle. Ti consiglierei di ascoltarle direttamente da loro se vuoi farti un’idea più precisa», indicò il gruppo di uomini che stavano bevendo. «Quello col gilè grigio che fuma il sigaro è il capo del sindacato, non che abbia alcun potere, ma saprà raccontarti tutto quel che è successo meglio di me».
Carter annui nuovamente.
«Ora, se non ti dispiace, dovrei tornare al lavoro», disse Vanessa buttando giù l’ultimo sorso. «A breve il saloon si riempirà e non tutti vorranno zuppa di fagioli come portata principale».
«Ci mancherebbe. Grazie per la chiacchierata, spero ci sarà occasione di ripeterla».
«Magari più tardi», disse lei facendo l’occhiolino. «La notte è giovane».
Carter si alzò e andò al bancone, ordinò un secondo whisky e ne assaporò l’aroma. Si diresse verso il tavolo dei minatori a passo lento, questi si zittirono quando arrivò loro accanto e lo squadrarono aggrottando la fronte.
«Mi spiace disturbarvi», esordì Carter. «Ho saputo che non è un bel periodo per voi e vorrei farvi un paio di domande riguardo alla miniera».
L’uomo col gilè grigio gli fece segno di prendere una sedia libera, poi si tolse il sigaro dalla bocca soffiando una voluta di fumo denso verso il soffitto.
«Ti manda Vince Brown?», chiese appoggiando i gomiti sul tavolo.
«No», rispose Carter sorseggiando il whisky. «Anzi… a dire il vero, io e il mio compare rappresentiamo un creditore del signor Brown».
«Ah!», proruppe lui con una risata raschiante. «Allora anche quel bastardo ha problemi di soldi!».
«Il fatto è che inizio a temere che potremmo avere dei problemi a riscuotere il debito…».
«Non vi invidio a dovergli estorcere dei soldi in questo periodo», disse porgendogli la mano. «Chris».
«Ryan», rispose Carter stringendogliela.
«Cosa vuoi sapere sulla miniera?».
«Vanessa mi ha detto che la vena d’argento esiste».
«E tutti a questo tavolo possiamo confermartelo, l’abbiamo vista coi nostri occhi, c’è tanto argento là sotto da far tornare Silver City al suo massimo splendore».
«Allora come mai i lavori sono interrotti?».
I minatori si guardarono di sottecchi gli uni con gli altri.
«Non ci sentiamo al sicuro nelle profondità della montagna. Ora… non prenderci per pazzi… ma abbiamo visto e sentito cose strane là sotto».
Carter aggrottò la fronte.
«Che tipo di cose strane?».
«Ho visto qualcosa muoversi nell’ombra», disse uno dei minatori. «Era come fumo e si muoveva rapidamente… ma non c’era vento».
«Sappiamo che sembra assurdo, Ryan», disse Chris dando man forte al collega. «Ma l’abbiamo visto tutti».
«Jeffrey e Thomas sono stati avvolti da quel fumo e sono impazziti», aggiunse un altro minatore.
«Hanno passato due giorni in infermeria, farneticando cose senza senso», confermò Chris. «Parlavano di fantasmi e di una donna uccello».
Carter squadrò i minatori cercando di capire se lo stessero prendendo per il culo, ma non c’erano tracce di sorrisetti o ghigni sui loro volti, le rughe si erano approfondite e respiravano a malapena, come se l’atto di muoversi potesse renderli dei bersagli… che potesse trattarsi di un’allucinazione collettiva?
«Come fate a essere sicuri che non sia stato l’effetto di un qualche gas?», chiese cercando di non far suonare provocatoria la domanda.
«Siamo minatori da tutta la vita, come i nostri padri. Sappiamo riconoscere una fuga di gas, gli strumenti non ne hanno rilevate e le analisi mediche fatte su Jeffrey e Thomas non hanno evidenziato intossicazioni di nessun genere».
«Poi è scomparso Lucas», disse un altro minatore. «Nessuno sa che fine abbia fatto».
Carter aggrottò la fronte.
«Lucas Martinez», spiegò l’uomo. «È il marito di Emma Brown, la sorella di Vince. Lavorava alle miniere, come tutti qui in città».
«È scomparso durante un turno di lavoro?».
«Non lo sappiamo», rispose il minatore. «Sappiamo solo che da un momento all’altro non lo si trovava più».
«Non sappiamo cosa sia. Ma c’è qualcosa là sotto», ribadì Chris. «Anche la migliore delle paghe non vale la nostra vita. Abbiamo detto al signor Brown che, finché non si sarà accertato che le miniere siano sicure, non ci metteremo più piede».
Carter annuì.
«Proverò a parlargli io».
«Buona fortuna…».
Si accomiatò dai minatori e, dal momento che il saloon si stava riempiendo, prese posto a un tavolo in un angolo da cui poteva tener d’occhio la situazione. Le cameriere iniziarono a portare ai tavoli delle ciotole piene di una zuppa marrone densa e fumante. Si accorse in quel momento di essere affamato. Prese un altro sorso dal bicchiere, svuotandone il contenuto, e lanciò un’occhiata alle scale chiedendosi quando il suo socio si sarebbe degnato di raggiungerlo. Proprio in quel momento Kazuya apparve e discese i gradini tenendosi a braccetto con una minuta donna bionda che salutò con una pacca sul culo quando raggiunsero la base delle scale. Carter gli fece un cenno per farsi notare e lo spadaccino gli si avvicinò, prese posto al tavolo sul lato vicino all’altra parete, lasciandosi cadere sulla sedia come se fosse a casa sua.
«Vedo che ti sei portato avanti col bere».
«Ho anche iniziato a indagare».
«Cazzo, devi imparare a rilassarti».
«Sì… me l’hanno già detto. E io che pensavo tra noi fossi tu quello che non sapeva come godersi la vita».
Kazuya sogghignò prendendo il piatto che la cameriera gli porgeva.
«Dunque, dimmi, che hai scoperto?».
«Ho parlato un po’ con Vanessa», disse Carter indicando la donna col cucchiaio.
Lo spadaccino ne seguì la direzione e corrugò la fronte.
«Cazzo!», sbottò. «È parecchio più figa di Camilla! Peccato non sia stata altrettanto puntuale a presentarsi al lavoro… altrimenti avresti parlato con una biondina».
Carter rise scuotendo la testa.
«E vuoi dirmi che ci hai solo parlato?», lo incalzò lui.
«Sì».
«Allora ho speso meglio il mio tempo».
«Non hai spiccicato parola in tre giorni e ora non riesci a stare zitto un momento?».
Kazuya gli rivolse un ghigno.
«Tutto merito di Camilla, mi ha messo di buon umore», disse infilandosi in bocca una cucchiaiata di zuppa di fagioli.
«Come stavo dicendo… Vanessa mi ha raccontato che la miniera è produttiva e che in effetti c’è una ricca vena d’argento e i minatori l’hanno confermato», riprese Carter afferrando il macinino del pepe e dandogli parecchi giri. «Il problema pare essere di diversa natura: i minatori sono spaventati da qualcosa che dicono dimorare nei cunicoli della miniera».
«Stronzate».
«Eppure dovevi vederli, sono terrorizzati. Dicono che un paio di loro deliravano affermando di aver visto dei fantasmi e una donna uccello».
«Non vanno a lavorare perché hanno paura dei fantasmi e di un piccione dai fianchi stretti?».
«A quanto pare è così… dicono di aver visto uno strano fumo che si muoveva in assenza di vento».
«Lo so io che fumo hanno visto: uno di quelli che ti sballa per bene! Oppure devono aver trovato del materiale radioattivo che gli ha fottuto il cervello…».
«Potrebbe essere, non sarebbero i primi minatori a impazzire a causa di elementi radioattivi liberati durante gli scavi. Però sembra che le analisi mediche non abbiano evidenziato niente di inusuale nei soggetti impazziti. Inoltre, Lucas, il marito della sorella di Vince, è sparito e nessuno lo vede più da tempo. Fantasmi o no, c’è qualcosa che mi puzza».
«Servendo zuppa di fagioli a una mandria di minatori, la cosa non mi sorprende!».
Carter rise, tutto sommato gli stava piacendo questo nuovo Kazuya loquace. Finirono il piatto accompagnandolo con abbondanti fette di pane, il tutto annaffiato da una birra rossa doppio malto.
Una volta riempito lo stomaco, Carter si appoggiò allo schienale e si guardò intorno: il vociare dei minatori si era fatto chiassoso e qualcuno aveva rispolverato il pianoforte mettendosi a suonare un allegro motivetto. In breve tempo notò un uomo in carne che indossava una tuba, era al tavolo con altri due individui e ciascuno aveva un sigaro in bocca, le carte in una mano e un bicchiere nell’altra.
Fece un cenno allo spadaccino e i due si alzarono, attraversarono la sala passando tra i minatori ubriachi fino ad arrivare al tavolo dove Vince stava rivelando le carte mostrando una doppia coppia al Re.
«Signor Brown?», chiese Carter.
«L’avete di fronte», rispose Vince tirando a sé le fiches che stavano in mezzo al tavolo. «Cosa porta due forestieri come voi nella mia città?».
Carter sapeva di non potersi aspettare una conversazione piacevole. Via il dente, via il dolore.
«Siamo qui per conto di Jack Johnson della Vulture’s Retrievals».
«E io che pensavo fosse già stata una giornata sufficientemente piena di merda… immagino voglia i cinquecentomila che ancora gli devo».
«Esatto».
«Beh… non posso darveli».
«Allora abbiamo un problema», si intromise Kazuya.
Vince lo squadrò con occhi porcini.
«Dite all’Avvoltoio di mettersi il cuore in pace: gli toccherà aspettare».
«Si è raccomandato di non tornare senza», replicò lo spadaccino.
«Come diavolo credete che possa darveli? I minatori non vogliono saperne di tornare a fare il loro cazzo di lavoro. Proprio ora che l’argento tornava a scorrere…».
Carter appoggiò una mano sulla spalla del compagno facendogli cenno di calmarsi.
«Capiamo il problema e siamo tutti sulla stessa barca. Per farci pagare da Johnson abbiamo bisogno che lei possa darci quel che gli deve e per questo c’è bisogno che i minatori tornino a lavorare», preferiva che Vince li vedesse come degli alleati piuttosto che come un problema da risolvere. «Mi hanno raccontato di quello che credono di aver visto nella miniera».
«Quello che credono di aver visto…», gli fece eco Vince. «Sono un branco di ubriaconi ingrati… guardateli! Stanno qui a ubriacarsi tutto il tempo e tra un bicchiere e l’altro sparano un sacco di cazzate».
«Quindi non crede che abbiano visto qualcosa?».
«Per niente! Sarà stato uno di loro fatto come una scimmia che si è spaventato per il fumo che usciva dalla sua stessa pipa e, suggestionabili come le capre ignoranti che sono, hanno finito col credere ai deliri di un folle».
«Ha mandato qualcuno a controllare?».
«Sì, lo sceriffo e il suo vice. Non hanno notato niente di strano, ma i minatori non si fidano…».
Carter annuì.
«Visto come stanno le cose, cosa ne dice se andassimo a fare un sopralluogo anche noi? Non costa nulla e vediamo se riusciamo a sbloccare la situazione».
Vince si massaggiò le tempie.
«Va bene… nel caso riusciate a convincerli a tornare subito al lavoro, entro una settimana avrei abbastanza argento da saldare il debito. Naturalmente, nell’attesa vi pagherei vitto e alloggio».
Carter guardò Kazuya il quale gli rivolse un cenno d’assenso, non avevano molta scelta in ogni caso.
«È deciso. Ci andremo domani stesso».
Nelle successive ore a cavallo il terreno discese per poi diventare pianeggiante, il vento soffiava alle loro spalle come sospingendoli verso la meta, i granelli di sabbia volanti indicavano loro la via. Quando arrivarono in vista di Silver City, la prateria aveva lasciato il posto a un terreno più roccioso. A parte rari edifici in cemento, la maggior parte delle costruzioni erano in legno e la polvere ocra si era depositata ovunque come un mantello dando un che di spettrale alla visione.
Silver City
Recitava un cartello affisso a lato della strada principale. Più che una città sembrava un grosso villaggio: si sviluppava su una pianta assiale lungo lo stradone principale che la tagliava a metà e due parallele più piccole che ne definivano i quarti con poche strade trasversali che spezzavano le linee di costruzioni.
Fecero il loro magro ingresso alla città coperti da uno strato di polvere e con i ronzini che trascinavano gli zoccoli sul terreno lasciando leggeri solchi tra un’impronta e l’altra. Il sole si stava avviando all’orizzonte e le ombre delle case si allungavano sempre di più, entro un paio d’ore sarebbe calata la notte.
«Non sembra una città che sforna argento», disse Carter ricambiando lo sguardo delle persone che li squadravano di sottecchi. Era stanco per il viaggio e gli stava salendo un bel mal di testa.
«Nemmeno a me… che abbiano iniziato da poco e debbano ancora trarne i profitti?».
«Spero solo non sia problematico recuperare i cinquecentomila».
«Direi di preoccuparcene dopo cena. Al momento voglio solo scendere da questa bestia maleodorante e farmi un bagno».
Carter non poteva dirsi in disaccordo. Si fermarono alla prima locanda che videro lungo la strada principale, davanti all’ingresso svettava l’effige di un grosso corno lucente e una scritta semi-cancellata ne riportava il nome.
Silver Horn Saloon
Smontarono e legarono le briglie a un pilastro del porticato in legno, in modo che i ronzini non si allontanassero, anche se sembrava non avessero intenzione di fare un passo in più del necessario. Presero gli zaini ed entrarono nel saloon facendo ondeggiare le ante della porta che cigolarono come indignate.
L’interno era avvolto nella penombra e permeato dall’odore di whisky e sbobba a base di fagioli. Il pavimento era coperto da un sottile strato di polvere che si faceva più spesso nei pressi della porta ma i tavoli erano lucidi e puliti. Degli uomini seduti al bancone con i bicchieri pieni di un liquido marrone rossastro si girarono a guardarli, la bocca curva in un’espressione ebete lasciava intravedere i denti cariati. Altri erano seduti a un tavolo intenti a giocare a carte e non badarono al loro arrivo. Un pianoforte riposava addossato al muro, chiuso e con un lievissimo strato di polvere che, anche se non era abbastanza da denotarne il disuso, era sufficiente per dire che non veniva suonato da giorni.
«Buonasera forestieri», disse l’oste strofinando un boccale con uno straccio logoro. «Cosa posso fare per voi?».
«Vorremmo due camere per stanotte», disse Kazuya mettendo mano al portafoglio.
«Con vista sulla strada», aggiunse Carter.
«Ho un’offerta con cena e colazione incluse, dieci crediti ciascuno, se per voi va bene. Alcolici esclusi, si intende».
«Quanto per i cavalli?», chiese lo spadaccino.
«Per altri cinque crediti il ragazzo si occuperà di loro».
«Andata», disse Carter.
Consegnarono le carte a turno e l’oste le restituì assieme a una coppia di chiavi.
«Stanze dodici e tredici, le trovate sulla destra al primo piano. L’ascensore è rotto quindi vi toccano le scale», disse indicando una rampa addossata alla parete opposta rispetto a dove erano entrati. «Benvenuti al Silver Horn Saloon».
Quando Carter fu solo in camera posò lo zaino su una sedia e si spogliò, mise i vestiti sudati e impolverati in un cesto, sarebbe sceso nello scantinato più tardi per vedere se avevano delle lavatrici. Andò in bagno e si guardò allo specchio, aveva la schiena piena di abrasioni e un esteso livido sul ventre. Grugnì, scosse la testa ed entrò in doccia. Non c’era l’acqua calda ma per lo meno c’era acqua… data l’aridità della zona dovevano star attingendo da un fiume sotterraneo. Quando ebbe finito di asciugarsi infilò dei vestiti puliti e si lasciò cadere sul letto. Chiuse gli occhi qualche minuto, dalla nuca partivano delle pulsazioni che gli percorrevano tutto il cranio come fitte ovattate. Gli sarebbe servita una buona dose di sonno o un’abbondante quantità di whisky per placare il dolore. Tuttavia, era ancora presto per mettersi a dormire e aveva ormai da tempo svuotato la fiaschetta. Prese il telefono ed entrò nella rubrica per chiamare Farah ma il segnale era assente quindi lasciò ricadere il braccio sul letto. Era sicuro che Emily stesse bene ma gli sarebbe piaciuto lo stesso vederla. Anche scambiare due chiacchiere con Farah non sarebbe stato male.
Si alzò e andò ad affacciarsi al balcone, la strada principale ai lati della quale sorgeva Silver City continuava oltre la città inerpicandosi sulle montagne. Nonostante stesse ormai calando il sole non vide i minatori che tornavano dal lavoro e, per una città che si era sviluppata in funzione della miniera d’argento, non poteva essere un buon segno. Le uniche persone in strada erano i bottegai che chiudevano le loro attività per tornare a casa. Che tutti i minatori fossero tornati mentre era sotto la doccia? Improbabile. Questo fatto gli suonò in testa come un campanello d’allarme e decise che era inutile restarsene lì a far niente, tanto valeva scendere nel saloon e iniziare a investigare un po’. Nel frattempo, avrebbe anche potuto farsi un bicchierino.
Quando raggiunse il piano di sotto, l’odore di fagioli si era intensificato e c’erano un paio di uomini in più al bancone. Il gruppo che stava giocando a carte aveva smesso, sostituendo il mazzo con una bottiglia di vino.
«Ciao cowboy», pronunciò una voce melliflua alle sue spalle. «Cerchi un po’ di divertimento?».
Voltandosi, si trovò davanti una donna dai lunghi boccoli bruni, avvolta in un succinto abito verde con lustrini dorati. Le labbra spiccavano rosse come petali di rosa ed era accompagnata da un sentore di gelsomino. Un’oasi profumata in quel deserto polveroso.
«Non voglio essere sgarbato…», disse non potendo fare a meno di sorriderle di rimando. «Ma non sono qui per questo».
«Cos’è che porta fin qui un bel ragazzo di città senza concedergli un momento di piacere?».
«E pensa che ho pure rischiato la pelle per essere qui…».
La donna contrasse la bocca in una smorfia.
«Devi imparare a rilassarti», lo redarguì. «Sembri teso, mio buon…?».
«Carter, Ryan Carter. Posso conoscere il tuo nome?».
«Wright», disse lei socchiudendo gli occhi e nascondendo il viso dietro alle ombre dei boccoli. «Vanessa Wright».
Carter inarcò le labbra in un ghigno.
«Forse, Ryan…», riprese lei. «Sei teso da così tanto tempo che non ricordi più come distendere i nervi».
Vanessa ci aveva preso più di quanto volesse ammettere a sé stesso. La Delta Force, il contrabbando, la galera, la morte di sua moglie e la disperata ricerca di un posto dove vivere con Emily… erano stati anni talmente duri che forse davvero non sapeva più cosa volesse dire rilassarsi e abbassare le difese.
«Forse hai ragione», ammise. «Potrebbe esserci qualcosa che puoi fare per me».
«Dal tono di voce sembrerebbe una conversazione».
«Delusa?».
«Non mi ci pago da vivere».
«Ah con quello non potrei comunque aiutarti… sono praticamente al verde!».
Vanessa sollevò un sopracciglio.
«Ecco svelato l’arcano! E io che pensavo di non piacerti…».
«Non crederò neppure per un secondo che stessi dubitando del tuo fascino».
Vanessa sfoderò un sorriso smagliante.
«Comunque no, non sono delusa. Mi manca parlare con qualcuno che non mi guardi alla stregua di una bistecca».
«Molto bene! Il minimo che posso fare è offrirti da bere», disse facendo un cenno all’oste.
Scostò una sedia dal tavolo più vicino in modo che Vanessa potesse sedersi, poi prese posto sul lato adiacente.
«Cosa bevete?», chiese l’oste raggiungendoli.
«Whisky».
«Abbiamo tre qualità di whisky distillate da noi. Partiamo dal Corno Rosso che è il più economico, altrimenti c’è il Corno Nero, invecchiato dodici anni e, per i palati più raffinati, abbiamo il Corno Blu Gran Riserva invecchiato venticinque anni».
«Direi che il Corno Rosso va benissimo».
«Fai due», aggiunse Vanessa. «Rosso, nero, blu, ho assaggiato tutti i colori e per me hanno lo stesso sapore».
«Ah!», Carter scosse la testa. «Mi permetto di dissentire… ma potendomene permettere poca, al doppio della qualità preferisco il doppio della quantità».
Quando i loro drink furono arrivati, Vanessa sollevò il suo.
«Alle nuove amicizie», brindò.
Carter alzò il bicchiere per poi abbassarlo colpendo il tavolo col fondo e bevve un sorso. Il familiare sapore affumicato gli pervase la bocca e, con un leggero bruciore, gli scese in gola. Forse, sarebbero bastati un bicchiere o due per far sparire il mal di testa.
«Grazie per il drink», disse Vanessa. «Mi serviva».
«Ma figurati».
«Quindi, cosa volevi chiedermi?».
Carter scorse lo sguardo sul saloon che si stava pian piano riempiendo.
«So che la città prende il nome da una miniera d’argento», disse appoggiandosi allo schienale. «Ma questa non mi dà l’idea di essere una città che ha visto molto argento negli ultimi tempi. La miniera, è improduttiva?».
«Tutto qui? Ti avrei risposto anche senza drink…».
«Era più una scusa per non bere da solo».
Vanessa prese un sorso prima di parlare.
«Non è che sia improduttiva… da quello che so, la nuova vena è reale. Però paiono esserci dei problemi, non ci ho capito molto a essere sincera, i minatori raccontano strane storie. Sono spaventati e non vogliono lavorare. Il fatto è che se non lavorano non guadagnano e se non guadagnano loro non lo faccio nemmeno io…».
«Potremmo avere un problema in comune…».
Vanessa inarcò un sopracciglio.
«Pensavi di portarti a letto i minatori per soldi?».
Carter scoppiò a ridere.
«Direi di no… ma dobbiamo riscuotere un debito da parte di Vince Brown…».
«Capisco… Vince non è esattamente di buon umore in questo periodo».
«Sai dove posso trovarlo?».
«Lo troverai qui dopo cena. Viene tutti i giorni a giocare a poker con amici e parenti».
«Come posso riconoscerlo?».
«Non sarà difficile, è l’unico a indossare una tuba da queste parti e non se la toglie nemmeno mentre caga».
Carter annuì pensieroso.
«E riguardo alle storie che raccontano i minatori, cosa sai dirmi?».
«Che mi fanno accapponare la pelle. Ti consiglierei di ascoltarle direttamente da loro se vuoi farti un’idea più precisa», indicò il gruppo di uomini che stavano bevendo. «Quello col gilè grigio che fuma il sigaro è il capo del sindacato, non che abbia alcun potere, ma saprà raccontarti tutto quel che è successo meglio di me».
Carter annui nuovamente.
«Ora, se non ti dispiace, dovrei tornare al lavoro», disse Vanessa buttando giù l’ultimo sorso. «A breve il saloon si riempirà e non tutti vorranno zuppa di fagioli come portata principale».
«Ci mancherebbe. Grazie per la chiacchierata, spero ci sarà occasione di ripeterla».
«Magari più tardi», disse lei facendo l’occhiolino. «La notte è giovane».
Carter si alzò e andò al bancone, ordinò un secondo whisky e ne assaporò l’aroma. Si diresse verso il tavolo dei minatori a passo lento, questi si zittirono quando arrivò loro accanto e lo squadrarono aggrottando la fronte.
«Mi spiace disturbarvi», esordì Carter. «Ho saputo che non è un bel periodo per voi e vorrei farvi un paio di domande riguardo alla miniera».
L’uomo col gilè grigio gli fece segno di prendere una sedia libera, poi si tolse il sigaro dalla bocca soffiando una voluta di fumo denso verso il soffitto.
«Ti manda Vince Brown?», chiese appoggiando i gomiti sul tavolo.
«No», rispose Carter sorseggiando il whisky. «Anzi… a dire il vero, io e il mio compare rappresentiamo un creditore del signor Brown».
«Ah!», proruppe lui con una risata raschiante. «Allora anche quel bastardo ha problemi di soldi!».
«Il fatto è che inizio a temere che potremmo avere dei problemi a riscuotere il debito…».
«Non vi invidio a dovergli estorcere dei soldi in questo periodo», disse porgendogli la mano. «Chris».
«Ryan», rispose Carter stringendogliela.
«Cosa vuoi sapere sulla miniera?».
«Vanessa mi ha detto che la vena d’argento esiste».
«E tutti a questo tavolo possiamo confermartelo, l’abbiamo vista coi nostri occhi, c’è tanto argento là sotto da far tornare Silver City al suo massimo splendore».
«Allora come mai i lavori sono interrotti?».
I minatori si guardarono di sottecchi gli uni con gli altri.
«Non ci sentiamo al sicuro nelle profondità della montagna. Ora… non prenderci per pazzi… ma abbiamo visto e sentito cose strane là sotto».
Carter aggrottò la fronte.
«Che tipo di cose strane?».
«Ho visto qualcosa muoversi nell’ombra», disse uno dei minatori. «Era come fumo e si muoveva rapidamente… ma non c’era vento».
«Sappiamo che sembra assurdo, Ryan», disse Chris dando man forte al collega. «Ma l’abbiamo visto tutti».
«Jeffrey e Thomas sono stati avvolti da quel fumo e sono impazziti», aggiunse un altro minatore.
«Hanno passato due giorni in infermeria, farneticando cose senza senso», confermò Chris. «Parlavano di fantasmi e di una donna uccello».
Carter squadrò i minatori cercando di capire se lo stessero prendendo per il culo, ma non c’erano tracce di sorrisetti o ghigni sui loro volti, le rughe si erano approfondite e respiravano a malapena, come se l’atto di muoversi potesse renderli dei bersagli… che potesse trattarsi di un’allucinazione collettiva?
«Come fate a essere sicuri che non sia stato l’effetto di un qualche gas?», chiese cercando di non far suonare provocatoria la domanda.
«Siamo minatori da tutta la vita, come i nostri padri. Sappiamo riconoscere una fuga di gas, gli strumenti non ne hanno rilevate e le analisi mediche fatte su Jeffrey e Thomas non hanno evidenziato intossicazioni di nessun genere».
«Poi è scomparso Lucas», disse un altro minatore. «Nessuno sa che fine abbia fatto».
Carter aggrottò la fronte.
«Lucas Martinez», spiegò l’uomo. «È il marito di Emma Brown, la sorella di Vince. Lavorava alle miniere, come tutti qui in città».
«È scomparso durante un turno di lavoro?».
«Non lo sappiamo», rispose il minatore. «Sappiamo solo che da un momento all’altro non lo si trovava più».
«Non sappiamo cosa sia. Ma c’è qualcosa là sotto», ribadì Chris. «Anche la migliore delle paghe non vale la nostra vita. Abbiamo detto al signor Brown che, finché non si sarà accertato che le miniere siano sicure, non ci metteremo più piede».
Carter annuì.
«Proverò a parlargli io».
«Buona fortuna…».
Si accomiatò dai minatori e, dal momento che il saloon si stava riempiendo, prese posto a un tavolo in un angolo da cui poteva tener d’occhio la situazione. Le cameriere iniziarono a portare ai tavoli delle ciotole piene di una zuppa marrone densa e fumante. Si accorse in quel momento di essere affamato. Prese un altro sorso dal bicchiere, svuotandone il contenuto, e lanciò un’occhiata alle scale chiedendosi quando il suo socio si sarebbe degnato di raggiungerlo. Proprio in quel momento Kazuya apparve e discese i gradini tenendosi a braccetto con una minuta donna bionda che salutò con una pacca sul culo quando raggiunsero la base delle scale. Carter gli fece un cenno per farsi notare e lo spadaccino gli si avvicinò, prese posto al tavolo sul lato vicino all’altra parete, lasciandosi cadere sulla sedia come se fosse a casa sua.
«Vedo che ti sei portato avanti col bere».
«Ho anche iniziato a indagare».
«Cazzo, devi imparare a rilassarti».
«Sì… me l’hanno già detto. E io che pensavo tra noi fossi tu quello che non sapeva come godersi la vita».
Kazuya sogghignò prendendo il piatto che la cameriera gli porgeva.
«Dunque, dimmi, che hai scoperto?».
«Ho parlato un po’ con Vanessa», disse Carter indicando la donna col cucchiaio.
Lo spadaccino ne seguì la direzione e corrugò la fronte.
«Cazzo!», sbottò. «È parecchio più figa di Camilla! Peccato non sia stata altrettanto puntuale a presentarsi al lavoro… altrimenti avresti parlato con una biondina».
Carter rise scuotendo la testa.
«E vuoi dirmi che ci hai solo parlato?», lo incalzò lui.
«Sì».
«Allora ho speso meglio il mio tempo».
«Non hai spiccicato parola in tre giorni e ora non riesci a stare zitto un momento?».
Kazuya gli rivolse un ghigno.
«Tutto merito di Camilla, mi ha messo di buon umore», disse infilandosi in bocca una cucchiaiata di zuppa di fagioli.
«Come stavo dicendo… Vanessa mi ha raccontato che la miniera è produttiva e che in effetti c’è una ricca vena d’argento e i minatori l’hanno confermato», riprese Carter afferrando il macinino del pepe e dandogli parecchi giri. «Il problema pare essere di diversa natura: i minatori sono spaventati da qualcosa che dicono dimorare nei cunicoli della miniera».
«Stronzate».
«Eppure dovevi vederli, sono terrorizzati. Dicono che un paio di loro deliravano affermando di aver visto dei fantasmi e una donna uccello».
«Non vanno a lavorare perché hanno paura dei fantasmi e di un piccione dai fianchi stretti?».
«A quanto pare è così… dicono di aver visto uno strano fumo che si muoveva in assenza di vento».
«Lo so io che fumo hanno visto: uno di quelli che ti sballa per bene! Oppure devono aver trovato del materiale radioattivo che gli ha fottuto il cervello…».
«Potrebbe essere, non sarebbero i primi minatori a impazzire a causa di elementi radioattivi liberati durante gli scavi. Però sembra che le analisi mediche non abbiano evidenziato niente di inusuale nei soggetti impazziti. Inoltre, Lucas, il marito della sorella di Vince, è sparito e nessuno lo vede più da tempo. Fantasmi o no, c’è qualcosa che mi puzza».
«Servendo zuppa di fagioli a una mandria di minatori, la cosa non mi sorprende!».
Carter rise, tutto sommato gli stava piacendo questo nuovo Kazuya loquace. Finirono il piatto accompagnandolo con abbondanti fette di pane, il tutto annaffiato da una birra rossa doppio malto.
Una volta riempito lo stomaco, Carter si appoggiò allo schienale e si guardò intorno: il vociare dei minatori si era fatto chiassoso e qualcuno aveva rispolverato il pianoforte mettendosi a suonare un allegro motivetto. In breve tempo notò un uomo in carne che indossava una tuba, era al tavolo con altri due individui e ciascuno aveva un sigaro in bocca, le carte in una mano e un bicchiere nell’altra.
Fece un cenno allo spadaccino e i due si alzarono, attraversarono la sala passando tra i minatori ubriachi fino ad arrivare al tavolo dove Vince stava rivelando le carte mostrando una doppia coppia al Re.
«Signor Brown?», chiese Carter.
«L’avete di fronte», rispose Vince tirando a sé le fiches che stavano in mezzo al tavolo. «Cosa porta due forestieri come voi nella mia città?».
Carter sapeva di non potersi aspettare una conversazione piacevole. Via il dente, via il dolore.
«Siamo qui per conto di Jack Johnson della Vulture’s Retrievals».
«E io che pensavo fosse già stata una giornata sufficientemente piena di merda… immagino voglia i cinquecentomila che ancora gli devo».
«Esatto».
«Beh… non posso darveli».
«Allora abbiamo un problema», si intromise Kazuya.
Vince lo squadrò con occhi porcini.
«Dite all’Avvoltoio di mettersi il cuore in pace: gli toccherà aspettare».
«Si è raccomandato di non tornare senza», replicò lo spadaccino.
«Come diavolo credete che possa darveli? I minatori non vogliono saperne di tornare a fare il loro cazzo di lavoro. Proprio ora che l’argento tornava a scorrere…».
Carter appoggiò una mano sulla spalla del compagno facendogli cenno di calmarsi.
«Capiamo il problema e siamo tutti sulla stessa barca. Per farci pagare da Johnson abbiamo bisogno che lei possa darci quel che gli deve e per questo c’è bisogno che i minatori tornino a lavorare», preferiva che Vince li vedesse come degli alleati piuttosto che come un problema da risolvere. «Mi hanno raccontato di quello che credono di aver visto nella miniera».
«Quello che credono di aver visto…», gli fece eco Vince. «Sono un branco di ubriaconi ingrati… guardateli! Stanno qui a ubriacarsi tutto il tempo e tra un bicchiere e l’altro sparano un sacco di cazzate».
«Quindi non crede che abbiano visto qualcosa?».
«Per niente! Sarà stato uno di loro fatto come una scimmia che si è spaventato per il fumo che usciva dalla sua stessa pipa e, suggestionabili come le capre ignoranti che sono, hanno finito col credere ai deliri di un folle».
«Ha mandato qualcuno a controllare?».
«Sì, lo sceriffo e il suo vice. Non hanno notato niente di strano, ma i minatori non si fidano…».
Carter annuì.
«Visto come stanno le cose, cosa ne dice se andassimo a fare un sopralluogo anche noi? Non costa nulla e vediamo se riusciamo a sbloccare la situazione».
Vince si massaggiò le tempie.
«Va bene… nel caso riusciate a convincerli a tornare subito al lavoro, entro una settimana avrei abbastanza argento da saldare il debito. Naturalmente, nell’attesa vi pagherei vitto e alloggio».
Carter guardò Kazuya il quale gli rivolse un cenno d’assenso, non avevano molta scelta in ogni caso.
«È deciso. Ci andremo domani stesso».