Genere: Fantascienza, post-apocalittico, azione, avventura, Distopico.
"Si poteva sempre trovare il modo di usare una spada: ogni lavoro offerto dall'Avvoltoio presentava, prima o poi, un’occasione che richiedeva un tipo diverso di diplomazia."
Dopo l'avventura a Silver City, Carter e Kazuya fanno ormai coppia fissa. L’omicidio di una prostituta nel quartiere del Dragone sembra l'occasione perfetta per accettare un nuovo incarico: soldi facili per recuperare filmati compromettenti su un personaggio di spicco da lei ricattato. Ma quando si lavora per l’Avvoltoio, tutto è più complesso di quel che sembra; yakuza, corporazioni senza scrupoli e banditi della peggior specie sono invischiati in questo caso dai risvolti inaspettati.
Trigger Warnings: violenza, linguaggio scurrile.
leggi i primi 3 capitoli
Omicidio nel quartiere del Dragone
Le calde luci delle lampade che pendevano dal soffitto, avvolte in carta crespa arancione, illuminavano le pareti bordeaux della Lanterna, immergendola in un perenne tramonto.
«Al contrabbando!», disse Kazuya sollevando il liquore alle erbe che amava definire tè alcolico.
«Non urlare troppo forte», disse Carter, imitandolo. «Ho già fatto troppi anni al fresco per contrabbando».
«Pensavo non ci fosse polizia alla Lanterna», disse Farah unendosi al brindisi.
«Non si sa mai».
«Non ce n’è», disse lo spadaccino battendo il fondo del bicchiere sul tavolo in legno laccato. «C’è di peggio…».
Carter sorseggiò il whisky, assaporandone il sentore di cereali prima di mandarlo giù a bruciare la gola. Un rumore di vetri rotti venne dal retro del locale, seguito da una sequela di imprecazioni che sovrastarono per un momento il brusio generato dagli avventori.
«Ha intenzione di dirci altro?», disse Farah passando lo sguardo da lui a Kazuya. «O dobbiamo fare le domande una per volta?».
«Devi proprio chiedere», disse Carter.
«Cos’è che c’è?», sbuffò Farah. «Cos’è che c’è qui alla Lanterna?».
Carter scoppiò a ridere.
«Malviventi», rispose lo spadaccino.
«Grazie al cazzo», disse lei. «Siamo in buona compagnia».
«Intendo yakuza, assassini, la peggior feccia di Nova», ribatté lui. «Una parola sbagliata e potresti svegliarti con un sorriso da un orecchio all’altro».
«E perché ci porti in una bettola del genere?».
«È sotto casa…», fece spallucce. «Non è colpa mia se abitate in un posto di merda».
Qualcuno inciampò su uno sgabello e precipitò a terra con un tonfo, accompagnato dalle risate di un vecchio a cui mancavano tutti i denti tranne un incisivo sporgente.
«Che schifo», disse Farah con una smorfia.
«Pete Denteduro?», chiese Kazuya seguendo il suo sguardo. «Non essere crudele, combatteva nella gabbia quando era giovane. Nessuno sa come, tra tutti i denti, gli sia rimasto intatto quello con cui parava i pugni».
«Questo non me lo rende più attraente».
«Avresti dovuto vederlo nel fiore degli anni!».
«Non ero ancora nata a quei tempi…».
«Probabile», disse Carter. «Però ha un bel sorriso!».
Farah serrò i denti e tirò le labbra.
«Non sarai di quelle che, in un uomo, guardano il sorriso?», disse Kazuya nascondendo il ghigno nel bicchiere.
«Diciamo che pongo un limite minimo di denti per la gente con cui esco».
«Sarebbe?».
Farah lanciò un’occhiata a Pete Denteduro che sputazzava su tutto il tavolo a ogni scoppio di risa.
«Più di uno…», disse reprimendo un conato. «Possiamo smetterla di parlare del dente del vecchio bavoso? Vorrei festeggiare la buona riuscita del colpo senza vomitare».
«A proposito», disse Carter appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Come hai rimediato quei farmaci?».
«Ho un’amica che lavora alla Yang-Tech. Superata la data di scadenza i farmaci arrivano al terzo anello, nessuno nota la sparizione di un flacone o due, ci mancava solo un contatto a cui rivenderli».
«Non c’è di che», disse Kazuya. «Te lo dicevo che Feng avrebbe fatto al caso nostro».
«Sperando che diventi una buona abitudine», disse Carter accarezzando il vetro freddo del bicchiere. «Non ne posso più di mangiare pillole proteiche e latte in polvere».
«Sono già finiti i soldi del lavoro a Silver City?», chiese Farah.
«Tra l’affitto, la licenza dell’occhio HallTech di Emily, il cibo e i lavori per rimettere in sesto l’appartamento, sì…», disse Carter. «E la muffa sul soffitto non è ancora sparita».
«Che prodotti hai usato?».
«Tutti quanti! Ma come per i medicinali, a prezzi ragionevoli si trovano solo quelli scaduti».
«Hai provato a grattarla via?», chiese Kazuya.
«Sì, ma non ha fine! Se gratto ancora un po’ faccio crollare il soffitto… sembra l’abbiano mescolata al calcestruzzo».
Il barista stappò una bottiglia d’assenzio, versò il liquido verde elettrico in una lunga fila di bicchierini da shot e una folata all’anice li raggiunse al tavolo. Carter fece scorrere lo sguardo sopra al bancone, dove la luce delle lanterne scintillava su bottiglie di ogni forma e colore.
«Per quanto avete rischiato avrebbe anche potuto darvi qualcosa in più…».
«Taccagno di merda», disse Carter. «Non fosse per l’argento che abbiamo preso nella miniera saremmo già morti di fame».
«A proposito», disse lo spadaccino. «Sai che Johnson è subentrato ai Brown per lo sfruttamento della miniera?».
«Come?», Carter sgranò gli occhi.
«Ha sfruttato un cavillo contrattuale e si è impossessato dell’escavatrice».
«In pratica, grazie al nostro lavoro si farà centinaia di migliaia di crediti», disse Carter tamburellando sul tavolo. «Avendoci pagati mille a testa».
«Bella la vita, eh?».
Carter sentì il telefono vibrare.
«Parli del diavolo…», disse. «Johnson mi scrive di passare da lui domani che ha un lavoro da affidarci».
«Allora sarà meglio non facciate tardi», disse Farah finendo il suo drink. «Vi aspetta una giornata divertente».
«Vuoi che gli chiediamo di farti entrare?», chiese Carter. «Siamo in debito per la questione dei medicinali».
«Dopo quello che mi avete raccontato di Silver City?».
«In effetti…», disse Kazuya. «Dobbiamo sdebitarci, non farle un torto».
Carter rise suo malgrado.
«Allora facciamo così: se il compito dovesse rivelarsi sicuro e richiedesse un paio di mani in più, ti faremo sapere e ne riparleremo».
«Così mi piaci!».
«È deciso!», Carter bevve quel che rimaneva del whisky e sbatté il bicchiere sul tavolo.
Si alzarono e zigzagarono tra i variopinti avventori della Lanterna, abbandonandone l’eterno tramonto per immergersi nell’oscurità della notte. Quando la porta fu chiusa, il vociare svanì lasciandoli in un silenzio rotto solo dallo stridore dei tram che viaggiavano su rotaie arrugginite.
«Io vi saluto qui», disse Kazuya allontanandosi con andatura claudicante. «A domattina!».
Carter e Farah si avviarono dall’altra parte, verso la transettoriale undici, percorrendo il marciapiede screziato d’erba. Il bagliore azzurro-violaceo della barriera anti-radiazioni risplendeva come una flebile aurora sulla sommità della terza cinta muraria di Nova.
«Come sta Emily?», chiese Farah.
«Bene, credo», disse Carter. «Si è riabituata a vedere con due occhi, dopo tanto tempo che quello della HallTech non funzionava. Finalmente riesce a misurare bene le distanze: ha smesso di bagnare di latte il muso del suo peluche quando fa colazione e finge di imboccarlo».
«Spero non abbia paura a rimanere da sola».
«L’ho messa a letto prima di uscire, ma questo non mi garantisce che stia dormendo… ogni tanto la sento che si sveglia e va in cucina a sgranocchiare cereali».
«Non è facile crescere in queste condizioni, lei ha un animo gentile».
«È vero», Carter sospirò. «Mi piace credere che sia abituata a stare da sola ma vedo l’ansia che la coglie ogni volta che esco di casa, nonostante cerchi di nasconderla».
«Sei un bravo padre», disse Farah aprendo la porta del palazzo.
«Tu dici?», Carter entrò e salirono le scale. «Non sono quasi mai a casa».
«Fai tutto ciò che puoi per costruirvi una vita migliore, questo lei lo sa».
«Come fai a dirlo?».
«Perché ne abbiamo parlato, quando eri a Silver City».
«Grazie».
«Non c’è di che», disse Farah. «Non preoccuparti: Emily ti adora».
«Adora anche te, sai?».
«Davvero?».
«Quando sono tornato non smetteva più di parlarmi di quello che avevate fatto e mi ha mostrato ogni singolo disegno».
«Ne sono lusingata, disegna meglio di me!».
«E poi Serse», Carter scosse la testa. «È impazzita per quel gatto».
Farah ridacchiò.
«Serse è un coccolone, non sono stupita che vadano d’accordo».
«Mi implora di portare a casa ogni randagio che incontriamo».
«Può venire a giocare con Serse quando vuole».
Si fermarono davanti alle porte delle rispettive abitazioni.
«Sicura non sia un problema?».
«Quante volte devo dirti che non lo è?».
Carter abbozzò un sorriso.
«Buona notte», disse Farah sparendo dietro l’uscio.
Carter scosse la testa e ruotò la chiave nella toppa. Aprì la porta e, a distanza di un paio di passi, il coyote peluche ricambiò il suo sguardo stanco con uno vitreo. Entrò, tolse le scarpe e appese il giubbotto. Prese il peluche e andò nella stanza di Emily. La bambina era adagiata a letto ma un guizzo sotto alle coperte gli rivelò che era sveglia.
«Ciao piccola».
«Ciao papà», disse lei girandosi. «Hai visto Adahi che faceva la guardia?».
«È stato davvero un bravo coyote», disse Carter sedendosi sul bordo del letto e consegnando il peluche nelle mani protese della bambina. «Ora che sono tornato, anche Adahi può andare a dormire».
«Sì, Adahi ha tanto sonno».
«Cerca di dormire un po’ anche tu».
«Sì papà», disse Emily abbracciando il coyote.
«Buonanotte, piccola», disse accarezzandole i capelli.
Lasciò la figlia e si diresse in camera sua.
La bottiglia di whisky sul comodino era aperta.
Ne prese un sorso e si lasciò cadere di faccia sul cuscino.
«Al contrabbando!», disse Kazuya sollevando il liquore alle erbe che amava definire tè alcolico.
«Non urlare troppo forte», disse Carter, imitandolo. «Ho già fatto troppi anni al fresco per contrabbando».
«Pensavo non ci fosse polizia alla Lanterna», disse Farah unendosi al brindisi.
«Non si sa mai».
«Non ce n’è», disse lo spadaccino battendo il fondo del bicchiere sul tavolo in legno laccato. «C’è di peggio…».
Carter sorseggiò il whisky, assaporandone il sentore di cereali prima di mandarlo giù a bruciare la gola. Un rumore di vetri rotti venne dal retro del locale, seguito da una sequela di imprecazioni che sovrastarono per un momento il brusio generato dagli avventori.
«Ha intenzione di dirci altro?», disse Farah passando lo sguardo da lui a Kazuya. «O dobbiamo fare le domande una per volta?».
«Devi proprio chiedere», disse Carter.
«Cos’è che c’è?», sbuffò Farah. «Cos’è che c’è qui alla Lanterna?».
Carter scoppiò a ridere.
«Malviventi», rispose lo spadaccino.
«Grazie al cazzo», disse lei. «Siamo in buona compagnia».
«Intendo yakuza, assassini, la peggior feccia di Nova», ribatté lui. «Una parola sbagliata e potresti svegliarti con un sorriso da un orecchio all’altro».
«E perché ci porti in una bettola del genere?».
«È sotto casa…», fece spallucce. «Non è colpa mia se abitate in un posto di merda».
Qualcuno inciampò su uno sgabello e precipitò a terra con un tonfo, accompagnato dalle risate di un vecchio a cui mancavano tutti i denti tranne un incisivo sporgente.
«Che schifo», disse Farah con una smorfia.
«Pete Denteduro?», chiese Kazuya seguendo il suo sguardo. «Non essere crudele, combatteva nella gabbia quando era giovane. Nessuno sa come, tra tutti i denti, gli sia rimasto intatto quello con cui parava i pugni».
«Questo non me lo rende più attraente».
«Avresti dovuto vederlo nel fiore degli anni!».
«Non ero ancora nata a quei tempi…».
«Probabile», disse Carter. «Però ha un bel sorriso!».
Farah serrò i denti e tirò le labbra.
«Non sarai di quelle che, in un uomo, guardano il sorriso?», disse Kazuya nascondendo il ghigno nel bicchiere.
«Diciamo che pongo un limite minimo di denti per la gente con cui esco».
«Sarebbe?».
Farah lanciò un’occhiata a Pete Denteduro che sputazzava su tutto il tavolo a ogni scoppio di risa.
«Più di uno…», disse reprimendo un conato. «Possiamo smetterla di parlare del dente del vecchio bavoso? Vorrei festeggiare la buona riuscita del colpo senza vomitare».
«A proposito», disse Carter appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Come hai rimediato quei farmaci?».
«Ho un’amica che lavora alla Yang-Tech. Superata la data di scadenza i farmaci arrivano al terzo anello, nessuno nota la sparizione di un flacone o due, ci mancava solo un contatto a cui rivenderli».
«Non c’è di che», disse Kazuya. «Te lo dicevo che Feng avrebbe fatto al caso nostro».
«Sperando che diventi una buona abitudine», disse Carter accarezzando il vetro freddo del bicchiere. «Non ne posso più di mangiare pillole proteiche e latte in polvere».
«Sono già finiti i soldi del lavoro a Silver City?», chiese Farah.
«Tra l’affitto, la licenza dell’occhio HallTech di Emily, il cibo e i lavori per rimettere in sesto l’appartamento, sì…», disse Carter. «E la muffa sul soffitto non è ancora sparita».
«Che prodotti hai usato?».
«Tutti quanti! Ma come per i medicinali, a prezzi ragionevoli si trovano solo quelli scaduti».
«Hai provato a grattarla via?», chiese Kazuya.
«Sì, ma non ha fine! Se gratto ancora un po’ faccio crollare il soffitto… sembra l’abbiano mescolata al calcestruzzo».
Il barista stappò una bottiglia d’assenzio, versò il liquido verde elettrico in una lunga fila di bicchierini da shot e una folata all’anice li raggiunse al tavolo. Carter fece scorrere lo sguardo sopra al bancone, dove la luce delle lanterne scintillava su bottiglie di ogni forma e colore.
«Per quanto avete rischiato avrebbe anche potuto darvi qualcosa in più…».
«Taccagno di merda», disse Carter. «Non fosse per l’argento che abbiamo preso nella miniera saremmo già morti di fame».
«A proposito», disse lo spadaccino. «Sai che Johnson è subentrato ai Brown per lo sfruttamento della miniera?».
«Come?», Carter sgranò gli occhi.
«Ha sfruttato un cavillo contrattuale e si è impossessato dell’escavatrice».
«In pratica, grazie al nostro lavoro si farà centinaia di migliaia di crediti», disse Carter tamburellando sul tavolo. «Avendoci pagati mille a testa».
«Bella la vita, eh?».
Carter sentì il telefono vibrare.
«Parli del diavolo…», disse. «Johnson mi scrive di passare da lui domani che ha un lavoro da affidarci».
«Allora sarà meglio non facciate tardi», disse Farah finendo il suo drink. «Vi aspetta una giornata divertente».
«Vuoi che gli chiediamo di farti entrare?», chiese Carter. «Siamo in debito per la questione dei medicinali».
«Dopo quello che mi avete raccontato di Silver City?».
«In effetti…», disse Kazuya. «Dobbiamo sdebitarci, non farle un torto».
Carter rise suo malgrado.
«Allora facciamo così: se il compito dovesse rivelarsi sicuro e richiedesse un paio di mani in più, ti faremo sapere e ne riparleremo».
«Così mi piaci!».
«È deciso!», Carter bevve quel che rimaneva del whisky e sbatté il bicchiere sul tavolo.
Si alzarono e zigzagarono tra i variopinti avventori della Lanterna, abbandonandone l’eterno tramonto per immergersi nell’oscurità della notte. Quando la porta fu chiusa, il vociare svanì lasciandoli in un silenzio rotto solo dallo stridore dei tram che viaggiavano su rotaie arrugginite.
«Io vi saluto qui», disse Kazuya allontanandosi con andatura claudicante. «A domattina!».
Carter e Farah si avviarono dall’altra parte, verso la transettoriale undici, percorrendo il marciapiede screziato d’erba. Il bagliore azzurro-violaceo della barriera anti-radiazioni risplendeva come una flebile aurora sulla sommità della terza cinta muraria di Nova.
«Come sta Emily?», chiese Farah.
«Bene, credo», disse Carter. «Si è riabituata a vedere con due occhi, dopo tanto tempo che quello della HallTech non funzionava. Finalmente riesce a misurare bene le distanze: ha smesso di bagnare di latte il muso del suo peluche quando fa colazione e finge di imboccarlo».
«Spero non abbia paura a rimanere da sola».
«L’ho messa a letto prima di uscire, ma questo non mi garantisce che stia dormendo… ogni tanto la sento che si sveglia e va in cucina a sgranocchiare cereali».
«Non è facile crescere in queste condizioni, lei ha un animo gentile».
«È vero», Carter sospirò. «Mi piace credere che sia abituata a stare da sola ma vedo l’ansia che la coglie ogni volta che esco di casa, nonostante cerchi di nasconderla».
«Sei un bravo padre», disse Farah aprendo la porta del palazzo.
«Tu dici?», Carter entrò e salirono le scale. «Non sono quasi mai a casa».
«Fai tutto ciò che puoi per costruirvi una vita migliore, questo lei lo sa».
«Come fai a dirlo?».
«Perché ne abbiamo parlato, quando eri a Silver City».
«Grazie».
«Non c’è di che», disse Farah. «Non preoccuparti: Emily ti adora».
«Adora anche te, sai?».
«Davvero?».
«Quando sono tornato non smetteva più di parlarmi di quello che avevate fatto e mi ha mostrato ogni singolo disegno».
«Ne sono lusingata, disegna meglio di me!».
«E poi Serse», Carter scosse la testa. «È impazzita per quel gatto».
Farah ridacchiò.
«Serse è un coccolone, non sono stupita che vadano d’accordo».
«Mi implora di portare a casa ogni randagio che incontriamo».
«Può venire a giocare con Serse quando vuole».
Si fermarono davanti alle porte delle rispettive abitazioni.
«Sicura non sia un problema?».
«Quante volte devo dirti che non lo è?».
Carter abbozzò un sorriso.
«Buona notte», disse Farah sparendo dietro l’uscio.
Carter scosse la testa e ruotò la chiave nella toppa. Aprì la porta e, a distanza di un paio di passi, il coyote peluche ricambiò il suo sguardo stanco con uno vitreo. Entrò, tolse le scarpe e appese il giubbotto. Prese il peluche e andò nella stanza di Emily. La bambina era adagiata a letto ma un guizzo sotto alle coperte gli rivelò che era sveglia.
«Ciao piccola».
«Ciao papà», disse lei girandosi. «Hai visto Adahi che faceva la guardia?».
«È stato davvero un bravo coyote», disse Carter sedendosi sul bordo del letto e consegnando il peluche nelle mani protese della bambina. «Ora che sono tornato, anche Adahi può andare a dormire».
«Sì, Adahi ha tanto sonno».
«Cerca di dormire un po’ anche tu».
«Sì papà», disse Emily abbracciando il coyote.
«Buonanotte, piccola», disse accarezzandole i capelli.
Lasciò la figlia e si diresse in camera sua.
La bottiglia di whisky sul comodino era aperta.
Ne prese un sorso e si lasciò cadere di faccia sul cuscino.
* * *
Scattò alla vibrazione della sveglia.
«Ma che cazz…», portò una mano al fianco cercando la fondina ma trovò solo lenzuola stropicciate.
Quando riuscì a mettere a fuoco, fece scivolare gli occhi sugli aloni di muffa di cui conosceva a memoria i contorni e diede una manata alla sveglia. Provò ad alzarsi ma ricadde col culo sul materasso.
«Cazzo…», mormorò passandosi le mani sul volto e stropicciando gli occhi.
Attese qualche secondo, aspettando che la testa smettesse di girare, ma non c’era niente da fare. Si voltò e vide la bottiglia di whisky.
«Devo imparare a chiuderla…», mormorò, afferrandola.
Rimase in quella posizione a lungo, una mano sulla bottiglia e lo sguardo sul tappo, il cervello troppo annebbiato per processare i pensieri. Infine, grugnì, bevve un sorso, avvitò il tappo e la ripose sul comodino.
Andò in bagno e fece una doccia. Ripose l’accappatoio e indossò abiti puliti, si guardò allo specchio mentre si asciugava i capelli e lo sguardo che lo ricambiò era vitreo e appesantito da profonde occhiaie. Le guance erano sempre state così scavate? Da Silver City non era più riuscito a dormire bene: ogni volta che chiudeva occhio i suoi sogni venivano tormentati dalla visione del tornado di anime e della donna uccello che lo chiamava.
Un vociare acuto giunse attraverso la porta, andò in cucina e vide Emily che trottava intorno al tavolo. Aveva posto le tazze della colazione ai lati opposti, usandole come ostacoli.
«Corri Adahi, corri!», urlava trascinando il peluche. «Salta!».
Il coyote spiccò un balzo e compì una rotazione nell’aria.
«Wooo!», esclamò la bambina.
Adahi atterrò e continuò la corsa.
«Cosa succede qui?», chiese Carter.
«Ciao papà, Adahi sta facendo una gara!», disse lei senza fermarsi. «Hai visto come salta?».
«Sì, l’ho visto», disse Carter andando a prendere i cereali nell’anta del mobile. «Ora però facciamo colazione».
«Manca un solo giro!», protestò Emily facendo saltare l’altra tazza al peluche.
«Corri, Adahi!», disse Carter appoggiandosi al piano della cucina.
«La forza delle zampe abituate alla prateria porta Adahi in testa!», disse la bambina. «Gli manca solo un ostacolo!».
«Oh no!», disse Carter versando i cereali a forma di animali nell’ultima tazza fino a farli sbordare dall’orlo. «Gli avversari cercano di fermarlo!».
«Oh no!», gli fece eco Emily. «Ma Adahi salta troppo in alto!», sollevò il peluche facendogli fare un triplo salto mortale. «Supera tutti e vince!».
Carter espirò imitando il rumore di una folla e batté le mani.
«Grazie, grazie», disse Emily facendo inchinare il peluche al pubblico immaginario, poi si sedette. «Ora possiamo mangiare: correre fa venire fame!».
Carter non riuscì a trattenere una risata. Versò metà dei cereali da una tazza all’altra e vi aggiunse acqua e latte in polvere. Preparò il caffè e mise la moka sul fuoco mentre mangiavano.
«Papà deve uscire dopo la colazione», disse. «Hai bisogno di qualcosa?».
«No», disse lei con la bocca piena.
«Nel caso, puoi chiedere a Farah».
Emily annuì.
«Mi ha detto che puoi andare a coccolare Serse quando vuoi».
«Davvero?», alla bambina si illuminarono gli occhi. «È tanto tenero Serse».
Carter sorrise e le accarezzò i capelli.
«Tu sei tanto tenera».
Emily emise un sordo brontolio strusciando la testolina sulla mano.
Carter lavò le tazze e, sentendo la moka gorgogliare, spense il fuoco. Versò il caffè in un bicchiere fin oltre la metà e aggiunse due cucchiai di zucchero. La caffeina l’avrebbe tenuto attivo fino almeno a mezzogiorno. Soffiò per raffreddarlo e bevve a piccoli sorsi osservando Emily che portava al tavolo un foglio e la selezione dei suoi colori preferiti, iniziando a dar forma a un Adahi tondeggiante che correva superando degli avversari dalle forme asimmetriche impossibili da decifrare. Quando finì il caffè prese le armi, indossò la giacca e, dato un ultimo bacio alla bambina, uscì di casa.
Scese le scale avendo cura di non calpestare il vicino del piano di sotto che, svenuto sull’ultima rampa, poteva sembrare un cadavere, non fosse stato per la salda presa che riusciva a mantenere sulla bottiglia mezza vuota anche in pieno collasso. Vi era una determinazione in quell’uomo che Carter trovava affascinante, come se ogni fibra del suo essere perseguisse una solenne sbronza tanto da non farsi scappare un alcolico in nessuna circostanza.
Giunse in strada e il familiare odore di smog del terzo anello di Nova lo accolse insieme allo stridere dei tram e lo scoppiettare delle vetture in coda sulla transettoriale undici.
«Ce ne hai messo di tempo», disse Kazuya alla sua sinistra.
«Emily aveva organizzato una corsa clandestina prima di colazione», disse Carter. «Ho dovuto aspettare che venisse celebrato il campione».
«Quella ragazzina già mi piace, verrà su bene», disse lo spadaccino. «Incredibile, considerando il materiale genetico di partenza».
«Fanculo».
«Tutto merito della madre, suppongo».
«Probabilmente…». Carter liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Tu, piuttosto, cosa ci fai qui?».
«Johnson mi ha chiesto di assicurarmi che arrivassi sobrio».
«Ma che…», Carter aggrottò la fronte.
Lo spadaccino esibì un ghigno.
«Fanculo».
«Penso che arrivare insieme aiuti a far fronte comune», disse Kazuya avviandosi verso la metropolitana. «Per strappare un compenso migliore».
Salirono sul treno diretto in periferia, scesero a Porta Ventidue e in pochi minuti giunsero alla Vulture’s Retrievals. Entrarono lasciandosi alle spalle i rumori della strada e si trovarono nella sala principale dell’agenzia. I mobili erano in legno, toni su toni di marrone e crema, la tavola rotonda era vuota come l’ultima volta che l’avevano vista. Johnson era seduto a una scrivania davanti a due monitor, una pila di scartoffie spiegazzate era posata di fianco. L’Avvoltoio imprecava come se gli avessero soffiato un affare.
«Ah siete arrivati, finalmente», disse quando li notò. «Sedetevi, non ci vorrà molto».
«Niente briefing olografico anche questa volta?», chiese Carter.
«Non sovrastimare la complessità delle missioni che sono disposto ad affidarvi».
«Tu non sottostimare i guadagni che ne ottieni».
«Silver City è stato un caso fortuito», disse Johnson riducendo gli occhi a una fessura. «Ho solo approfittato delle circostanze che sono venute a crearsi».
«Ok, non agitiamoci», disse Kazuya. «Cos’hai per noi questa volta?».
«Ho bisogno che indaghiate su un omicidio».
«Dove?».
«Nel quartiere del Dragone».
«Dietro casa, insomma».
«Per questo ho chiamato voi, do per scontato che conosciate bene il territorio e…», squadrò lo spadaccino. «Le organizzazioni che vi risiedono».
«Di che omicidio parli?», chiese Carter. «Ce ne sono troppi per seguire la cronaca».
«Qualcuno ha ammazzato una puttana al Nightingale», disse Johnson. «Immagino che due poco di buono come voi conoscano il posto».
Carter non aveva idea di cosa l’Avvoltoio stesse parlando, guardò Kazuya e dal ghigno che aveva dipinto in faccia dedusse che l’amico aveva ben presente il bordello.
«Si dà il caso», continuò Johnson. «Che questa puttana stesse ricattando una persona importante».
Kazuya aprì la bocca.
«Non chiedere», l’Avvoltoio lo interruppe sul nascere. «Non vi rivelerò la sua identità, si è raccomandato per la massima segretezza e non sarò certo io a pestargli i piedi».
Lo spadaccino chiuse la bocca.
«Fareste bene a non pestarglieli neppure voi se non volete che la vostra vita venga resa ancora più miserabile di quanto già non sia».
«Il ricattato sarebbe stato il primo contro cui avrei puntato il dito…», disse Carter.
«Non è coinvolto nell’omicidio, da quanto mi ha detto…», disse Johnson. «La puttana ha registrato alcuni loro incontri e stava usando i filmati per ottenere una grossa somma di denaro».
«Un classico», disse Carter. «Dopo la morte della ragazza i filmati non sono saltati fuori e teme che l’assassino, o qualcun altro, li abbia presi e stia pensando di continuare a ricattarlo».
«Esatto, vuole che qualcuno li recuperi insabbiando tutta la faccenda», disse Johnson. «Però, a prescindere da dove siano i filmati, si è raccomandato di trovare in ogni caso l’assassino».
«E cosa gliene frega?».
«Cosa te ne frega a te? Magari si era innamorato e vuole una qualche vendetta poetica nonostante lei l’abbia tradito, oppure vuole solo vederci chiaro fino in fondo. È lui che paga, trovategli tutto ciò che vuole!».
«Ok», disse Carter alzando le mani. «Non scaldarti».
«Per quanto riguarda il nostro compenso?», chiese Kazuya.
«Mille a testa».
«Mille è poco», lo spadaccino scosse la testa.
«È un lavoro facile», disse Johnson. «Andate, prendete i filmati ed è fatta».
«L’hai detto anche la volta scorsa e poi abbiamo rischiato la pelle».
«Non tirare di nuovo fuori la storia del demone», disse Johnson. «Ne ho già piene le palle delle superstizioni di quegli operai scansafatiche!».
«Il fatto è che questo lavoro potrebbe rivelarsi più complesso di quel che sembra», disse Carter. «C’è di mezzo una persona in vista che chiede discrezione e se si tratta di omicidio è coinvolta anche la polizia».
«Inoltre», disse Kazuya. «Sai bene che il Nightingale è in mano alla fazione della yakuza comandata da Boss Sato. È un lavoro da almeno duemila crediti a testa, puliti, spese escluse».
Johnson sbuffò e ci pensò un momento.
«Affare fatto», disse porgendo loro la mano. «Conoscendovi, uno dei due troverà comunque il modo di farsi ammazzare e non spenderò più del preventivato».
«Grazie per la fiducia…», disse Kazuya con una smorfia.
«Come si chiama la ragazza?», chiese Carter.
«Il cliente ha detto che si faceva chiamare Misty. Ora levatevi dalle palle e non tornate senza i filmati e lo sbandato che l’ha ammazzata. Vivo o morto».
«Ma che cazz…», portò una mano al fianco cercando la fondina ma trovò solo lenzuola stropicciate.
Quando riuscì a mettere a fuoco, fece scivolare gli occhi sugli aloni di muffa di cui conosceva a memoria i contorni e diede una manata alla sveglia. Provò ad alzarsi ma ricadde col culo sul materasso.
«Cazzo…», mormorò passandosi le mani sul volto e stropicciando gli occhi.
Attese qualche secondo, aspettando che la testa smettesse di girare, ma non c’era niente da fare. Si voltò e vide la bottiglia di whisky.
«Devo imparare a chiuderla…», mormorò, afferrandola.
Rimase in quella posizione a lungo, una mano sulla bottiglia e lo sguardo sul tappo, il cervello troppo annebbiato per processare i pensieri. Infine, grugnì, bevve un sorso, avvitò il tappo e la ripose sul comodino.
Andò in bagno e fece una doccia. Ripose l’accappatoio e indossò abiti puliti, si guardò allo specchio mentre si asciugava i capelli e lo sguardo che lo ricambiò era vitreo e appesantito da profonde occhiaie. Le guance erano sempre state così scavate? Da Silver City non era più riuscito a dormire bene: ogni volta che chiudeva occhio i suoi sogni venivano tormentati dalla visione del tornado di anime e della donna uccello che lo chiamava.
Un vociare acuto giunse attraverso la porta, andò in cucina e vide Emily che trottava intorno al tavolo. Aveva posto le tazze della colazione ai lati opposti, usandole come ostacoli.
«Corri Adahi, corri!», urlava trascinando il peluche. «Salta!».
Il coyote spiccò un balzo e compì una rotazione nell’aria.
«Wooo!», esclamò la bambina.
Adahi atterrò e continuò la corsa.
«Cosa succede qui?», chiese Carter.
«Ciao papà, Adahi sta facendo una gara!», disse lei senza fermarsi. «Hai visto come salta?».
«Sì, l’ho visto», disse Carter andando a prendere i cereali nell’anta del mobile. «Ora però facciamo colazione».
«Manca un solo giro!», protestò Emily facendo saltare l’altra tazza al peluche.
«Corri, Adahi!», disse Carter appoggiandosi al piano della cucina.
«La forza delle zampe abituate alla prateria porta Adahi in testa!», disse la bambina. «Gli manca solo un ostacolo!».
«Oh no!», disse Carter versando i cereali a forma di animali nell’ultima tazza fino a farli sbordare dall’orlo. «Gli avversari cercano di fermarlo!».
«Oh no!», gli fece eco Emily. «Ma Adahi salta troppo in alto!», sollevò il peluche facendogli fare un triplo salto mortale. «Supera tutti e vince!».
Carter espirò imitando il rumore di una folla e batté le mani.
«Grazie, grazie», disse Emily facendo inchinare il peluche al pubblico immaginario, poi si sedette. «Ora possiamo mangiare: correre fa venire fame!».
Carter non riuscì a trattenere una risata. Versò metà dei cereali da una tazza all’altra e vi aggiunse acqua e latte in polvere. Preparò il caffè e mise la moka sul fuoco mentre mangiavano.
«Papà deve uscire dopo la colazione», disse. «Hai bisogno di qualcosa?».
«No», disse lei con la bocca piena.
«Nel caso, puoi chiedere a Farah».
Emily annuì.
«Mi ha detto che puoi andare a coccolare Serse quando vuoi».
«Davvero?», alla bambina si illuminarono gli occhi. «È tanto tenero Serse».
Carter sorrise e le accarezzò i capelli.
«Tu sei tanto tenera».
Emily emise un sordo brontolio strusciando la testolina sulla mano.
Carter lavò le tazze e, sentendo la moka gorgogliare, spense il fuoco. Versò il caffè in un bicchiere fin oltre la metà e aggiunse due cucchiai di zucchero. La caffeina l’avrebbe tenuto attivo fino almeno a mezzogiorno. Soffiò per raffreddarlo e bevve a piccoli sorsi osservando Emily che portava al tavolo un foglio e la selezione dei suoi colori preferiti, iniziando a dar forma a un Adahi tondeggiante che correva superando degli avversari dalle forme asimmetriche impossibili da decifrare. Quando finì il caffè prese le armi, indossò la giacca e, dato un ultimo bacio alla bambina, uscì di casa.
Scese le scale avendo cura di non calpestare il vicino del piano di sotto che, svenuto sull’ultima rampa, poteva sembrare un cadavere, non fosse stato per la salda presa che riusciva a mantenere sulla bottiglia mezza vuota anche in pieno collasso. Vi era una determinazione in quell’uomo che Carter trovava affascinante, come se ogni fibra del suo essere perseguisse una solenne sbronza tanto da non farsi scappare un alcolico in nessuna circostanza.
Giunse in strada e il familiare odore di smog del terzo anello di Nova lo accolse insieme allo stridere dei tram e lo scoppiettare delle vetture in coda sulla transettoriale undici.
«Ce ne hai messo di tempo», disse Kazuya alla sua sinistra.
«Emily aveva organizzato una corsa clandestina prima di colazione», disse Carter. «Ho dovuto aspettare che venisse celebrato il campione».
«Quella ragazzina già mi piace, verrà su bene», disse lo spadaccino. «Incredibile, considerando il materiale genetico di partenza».
«Fanculo».
«Tutto merito della madre, suppongo».
«Probabilmente…». Carter liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Tu, piuttosto, cosa ci fai qui?».
«Johnson mi ha chiesto di assicurarmi che arrivassi sobrio».
«Ma che…», Carter aggrottò la fronte.
Lo spadaccino esibì un ghigno.
«Fanculo».
«Penso che arrivare insieme aiuti a far fronte comune», disse Kazuya avviandosi verso la metropolitana. «Per strappare un compenso migliore».
Salirono sul treno diretto in periferia, scesero a Porta Ventidue e in pochi minuti giunsero alla Vulture’s Retrievals. Entrarono lasciandosi alle spalle i rumori della strada e si trovarono nella sala principale dell’agenzia. I mobili erano in legno, toni su toni di marrone e crema, la tavola rotonda era vuota come l’ultima volta che l’avevano vista. Johnson era seduto a una scrivania davanti a due monitor, una pila di scartoffie spiegazzate era posata di fianco. L’Avvoltoio imprecava come se gli avessero soffiato un affare.
«Ah siete arrivati, finalmente», disse quando li notò. «Sedetevi, non ci vorrà molto».
«Niente briefing olografico anche questa volta?», chiese Carter.
«Non sovrastimare la complessità delle missioni che sono disposto ad affidarvi».
«Tu non sottostimare i guadagni che ne ottieni».
«Silver City è stato un caso fortuito», disse Johnson riducendo gli occhi a una fessura. «Ho solo approfittato delle circostanze che sono venute a crearsi».
«Ok, non agitiamoci», disse Kazuya. «Cos’hai per noi questa volta?».
«Ho bisogno che indaghiate su un omicidio».
«Dove?».
«Nel quartiere del Dragone».
«Dietro casa, insomma».
«Per questo ho chiamato voi, do per scontato che conosciate bene il territorio e…», squadrò lo spadaccino. «Le organizzazioni che vi risiedono».
«Di che omicidio parli?», chiese Carter. «Ce ne sono troppi per seguire la cronaca».
«Qualcuno ha ammazzato una puttana al Nightingale», disse Johnson. «Immagino che due poco di buono come voi conoscano il posto».
Carter non aveva idea di cosa l’Avvoltoio stesse parlando, guardò Kazuya e dal ghigno che aveva dipinto in faccia dedusse che l’amico aveva ben presente il bordello.
«Si dà il caso», continuò Johnson. «Che questa puttana stesse ricattando una persona importante».
Kazuya aprì la bocca.
«Non chiedere», l’Avvoltoio lo interruppe sul nascere. «Non vi rivelerò la sua identità, si è raccomandato per la massima segretezza e non sarò certo io a pestargli i piedi».
Lo spadaccino chiuse la bocca.
«Fareste bene a non pestarglieli neppure voi se non volete che la vostra vita venga resa ancora più miserabile di quanto già non sia».
«Il ricattato sarebbe stato il primo contro cui avrei puntato il dito…», disse Carter.
«Non è coinvolto nell’omicidio, da quanto mi ha detto…», disse Johnson. «La puttana ha registrato alcuni loro incontri e stava usando i filmati per ottenere una grossa somma di denaro».
«Un classico», disse Carter. «Dopo la morte della ragazza i filmati non sono saltati fuori e teme che l’assassino, o qualcun altro, li abbia presi e stia pensando di continuare a ricattarlo».
«Esatto, vuole che qualcuno li recuperi insabbiando tutta la faccenda», disse Johnson. «Però, a prescindere da dove siano i filmati, si è raccomandato di trovare in ogni caso l’assassino».
«E cosa gliene frega?».
«Cosa te ne frega a te? Magari si era innamorato e vuole una qualche vendetta poetica nonostante lei l’abbia tradito, oppure vuole solo vederci chiaro fino in fondo. È lui che paga, trovategli tutto ciò che vuole!».
«Ok», disse Carter alzando le mani. «Non scaldarti».
«Per quanto riguarda il nostro compenso?», chiese Kazuya.
«Mille a testa».
«Mille è poco», lo spadaccino scosse la testa.
«È un lavoro facile», disse Johnson. «Andate, prendete i filmati ed è fatta».
«L’hai detto anche la volta scorsa e poi abbiamo rischiato la pelle».
«Non tirare di nuovo fuori la storia del demone», disse Johnson. «Ne ho già piene le palle delle superstizioni di quegli operai scansafatiche!».
«Il fatto è che questo lavoro potrebbe rivelarsi più complesso di quel che sembra», disse Carter. «C’è di mezzo una persona in vista che chiede discrezione e se si tratta di omicidio è coinvolta anche la polizia».
«Inoltre», disse Kazuya. «Sai bene che il Nightingale è in mano alla fazione della yakuza comandata da Boss Sato. È un lavoro da almeno duemila crediti a testa, puliti, spese escluse».
Johnson sbuffò e ci pensò un momento.
«Affare fatto», disse porgendo loro la mano. «Conoscendovi, uno dei due troverà comunque il modo di farsi ammazzare e non spenderò più del preventivato».
«Grazie per la fiducia…», disse Kazuya con una smorfia.
«Come si chiama la ragazza?», chiese Carter.
«Il cliente ha detto che si faceva chiamare Misty. Ora levatevi dalle palle e non tornate senza i filmati e lo sbandato che l’ha ammazzata. Vivo o morto».
Benvenuti al Nightingale
«Quanto bene conosci il Nightingale?», chiese Carter con un sorriso sghembo quando scesero dal tram nel quartiere del Dragone.
«Non bene come vorresti insinuare», disse Kazuya. «Fosse anche solo a causa delle mie scarse finanze».
«È davvero in mano alla yakuza?».
«Sì, e non una fazione con cui sono in buoni rapporti».
«Ti pareva… esiste della gente con cui sei in buoni rapporti?».
«Certo!».
«Oltre a me e Farah».
«Ti credi tanto simpatico, vero?».
Carter sghignazzò.
«Fottiti», sbuffò lo spadaccino. «Ti cancello dalla lista».
Camminarono osservando la zona residenziale lasciare spazio ai capannoni industriali. Il rumore del traffico venne sostituito da quello di martelli pneumatici, saldatori al plasma e frese che stridevano sul metallo. L’aria assunse una punta ferrosa che sapeva d’acido nel misto amaro del terzo anello. Infine, svoltarono un angolo e lo videro: l’edificio aveva cinque piani e non riceveva una mano di vernice da almeno un decennio. Sarebbe stato completamente anonimo non fosse per l’insegna rossa al neon che recitava “Nightingale”. La strada era deserta, fatta eccezione per un energumeno in un completo nero, all’interno del quale, Carter ne era sicuro, nascondeva almeno un paio di pistole. Quando si avvicinarono, l’uomo alla porta si scostò dal muro su cui era appoggiato e li squadrò dall’alto in basso. Aveva un cobra rosso tatuato sul collo e, nonostante tenesse una mano vicina all’impugnatura del coltello che portava alla cinta, li lasciò passare.
Il corridoio d’ingresso era sovrastato da drappi rossi intessuti d’oro, le pareti erano color giada e piante dalle foglie piatte erano disposte su entrambi i lati in tondi vasi di marmo bianco. Nell’aria aleggiava un sentore di rose e il ridacchiare di ragazze rimbalzava sulle superfici rendendo impossibile individuarne la provenienza. Giunsero alla reception, costituita da una scrivania di mogano le cui gambe serpeggiavano fino a terra nella forma di lunghi dragoni crestati. Un uomo con un occhio guercio e un lungo pizzetto che si attorcigliava su sé stesso era seduto spalle al muro.
«Buongiorno», disse squadrandoli con l’occhio buono che guizzava da uno all’altro. «Cinquanta crediti per entrare».
Carter si voltò verso lo spadaccino.
«Pensavo si pagassero direttamente le ragazze».
«È inutile che guardi me», disse Kazuya sollevando le spalle. «Sarà tipo un all you can eat».
«No che non lo è», disse il guercio. «Cinquanta crediti per entrare, poi ogni ragazza è libera di fare il suo prezzo».
«Mi sembra un sistema onesto», disse Carter. «In ogni caso, non siamo venuti in qualità di clienti: stiamo indagando sull’omicidio di Misty».
«Cinquanta crediti per entrare».
Carter si umettò le labbra.
«Entreremmo giusto per fare un paio di domande alle ragazze, questione di minuti, se fosse possibile…».
«Non lo è», disse il guercio arrotolandosi il pizzetto attorno a un dito. «Cinquanta crediti per entrare».
«Andiamo, amico, mettiti nei nostri panni», disse Kazuya. «Fossimo qui per divertirci pagherei senza lamentarmi ma…».
«Avete idea di quanta gente arriva con scuse simili?», lo interruppe lui. «Me ne devo sorbire uno ogni cazzo di settimana», rilasciò il pizzetto che scattò in posizione come la coda di un maiale. «Sono il padre… le ho portato una torta fatta in casa dalla nonna… mi ha chiesto lei di venire… devo aiutarla a montare un mobile… sono il tecnico dei condizionatori… stiamo indagando su una puttana morta non è così originale come pensate».
«L’omicidio è reale però», protestò Carter. «La polizia ha ispezionato la scena del crimine, dubito non li abbiate notati».
«Anche altre volte lo era», disse il guercio. «Credi sia raro? Ce ne sono di troie che schiattano qui, tra ex violenti, overdose, suicidi».
«Avete fatto pagare anche i poliziotti?», chiese Kazuya con una smorfia.
«Hai un distintivo?».
Lo spadaccino ridusse gli occhi a una fessura.
«Allora sono cinquanta crediti per entrare!».
«E va bene», disse Carter tirando fuori una tessera.
«Questi però l’Avvoltoio ce li rimborsa», disse Kazuya prendendo una scheda a sua volta.
Il guercio passò le tessere sul lettore.
«Benvenuti al Nightingale», disse restituendole.
«Grazie…», rispose Carter grondando sarcasmo. «Dove stava Misty?».
«Secondo piano, terza porta a destra».
Superarono un salone deserto con lampadari di cristallo e drappi multicolore e raggiunsero le scale che portavano ai piani superiori. Il corridoio del secondo piano lo tagliava a metà da parte a parte ed era coperto da uno spesso tappeto con una fantasia geometrica in toni violacei, dal borgogna al porpora, che attutiva il rumore dei passi. Sulla parete opposta vi era una finestra e altre scale salivano su entrambi i lati. Raggiunsero la terza porta a destra e l’aprirono.
Le tapparelle erano abbassate, l’ambiente buio e l’aria odorava di stantio. I cassetti delle credenze pendevano dagli scomparti e gli indumenti erano stati gettati a terra. Il gocciolare del rubinetto del lavandino che veniva dal bagno era l’unico suono udibile. Una porta che conduceva a una stanza attigua lasciava intravedere un letto.
Carter tastò la parete alla ricerca di un interruttore e lo premette. Una fioca luce s’irradiò dal lampadario al centro del soffitto rivelando muri color crema, lingerie di pizzo nero e una chiazza di sangue su un angolo della scrivania e sul pavimento.
«Dev’essere così che è morta», disse Carter chinandosi a esaminare il sangue rappreso. «Sembra quasi accidentale…».
«Che non avesse intenzione di ucciderla?».
«Meglio non saltare a conclusioni affrettate, ma è un’ipotesi da prendere in considerazione», Carter si sollevò e osservò gli indumenti a terra. «Qualcuno cercava qualcosa».
«L’assassino?», disse Kazuya scrutando all’interno dei cassetti e delle ante aperte. «O i poliziotti? Chiunque fosse la figura in vista che Misty stava ricattando, potrebbe avere degli agenti sul suo libro paga, potrebbe aver mandato qualcuno a recuperare i filmati dopo aver saputo della sua morte».
«…o potrebbe essere il mandante, a prescindere da quanto possa aver detto a Johnson».
«E tutta la faccenda del non pestare i piedi al pezzo grosso? Lo consideri lo stesso un sospettato?».
Carter fece spallucce.
«Io lo so dove andremo a finire», disse lo spadaccino con un sospiro. «Lo so che tireremo su un casino…».
«Dai, non disperare».
«Non sono sopravvissuto finora per essere ucciso da un politicante erotomane!».
«Un politicante erotomane?».
«Sì», disse Kazuya. «Ci scannerà in uno scantinato mentre ci costringe a guardare le registrazioni che avremo recuperato, oliandosi come…».
«Grazie per l’immagine...», lo interruppe Carter facendo una smorfia di disgusto. «Magari riusciremo a mantenere una certa discrezione».
«A chi vuoi darla a bere?».
«All’Avvoltoio, possibilmente».
Carter si diresse verso la porta ed entrò in camera da letto. Le lenzuola sfatte strisciavano sul pavimento e un’anta del guardaroba era spalancata rivelando una videocamera puntata sul letto.
«È stata spostata», disse chiudendo e riaprendo l’anta. «Normalmente l’obiettivo si sarebbe trovato proprio in corrispondenza del buco della serratura».
Avvolse la mano in un fazzoletto prima di afferrarla e ruotarla: lo scomparto del chip dati era aperto.
«Qualcuno ha preso l’unità di memoria».
Kazuya andò al comodino dove riposava una selezione di trucchi dai colori caldi e aprì il primo cassetto. Assieme a una moltitudine di reggiseni e mutandine coordinate vi era una busta per lettere.
«A Malinda», lesse lo spadaccino. «Non c’è l’indirizzo».
Carter la prese e l’aprì: dentro c’era una lettera, poche righe incompiute indirizzate alla sorella.
«Dice solo che dopo questo “colpo” sarebbero potute vivere entrambe libere, doveva essere sul punto di ricevere i soldi».
Un frastuono di colpi sul legno venne dal corridoio.
«Vieni fuori, puttana!», riverberò un urlo rauco.
«Vattene!», il grido acuto penetrò la parete.
«È mia figlia!».
«Ah, ora è tua figlia? Cos’hai mai fatto per lei?».
«Non la lascio con una troia come te!».
«E come vorresti crescerla? Accoltellando qualcuno a ogni compleanno? Tanti auguri piccola, papà è un tagliagole!».
«Può lavorare alla fabbrica come gli altri bambini, almeno mi ci pago la birra!».
«Non puoi sfruttarla così!».
«Non preoccuparti, appena avrà l’età giusta la metterò a lavorare nella camera di fianco alla tua, così mi ci pago anche la pasta di spore!».
Carter tornò in corridoio: un corpulento uomo pelato che indossava giubbotto di pelle, jeans strappati e catene al collo stava battendo col pugno sulla porta di una camera vicina.
«Tu che cazzo vuoi?!».
Carter partì con un destro fulmineo che lo colse in pieno volto. La cartilagine del naso andò in pezzi sotto alle nocche e l’energumeno finì disteso a terra.
«Hai un talento per farti degli amici», disse Kazuya spuntando alle sue spalle. «Oh merda…».
«Merda, cosa?».
«Guardagli il collo».
Carter si chinò e scostò il colletto della giacca, tatuato tra l’orecchio e la clavicola c’era un cobra rosso.
«Oh cazzo… fa parte della yakuza, vero?».
«Della fazione dei Red Cobra», disse kazuya massaggiandosi una tempia. «Non potevi proprio lasciare che massacrasse quella porta, vero?».
«Che ne sapevo io? Pensavo fosse un normale cliente».
«E ovviamente dovevi stenderlo dopo che ci ha visti in faccia».
«Ho pensato a Emily e non ci ho più visto…», disse Carter allargando le braccia. «Questo tatuaggio mi ricorda quello che hai sulla scapola».
«Perché facevo parte della stessa fazione…».
«Allora quando rinviene ci parli tu e sistemi tutto».
«Non conosco ogni coglione che si affilia ai Red Cobra!».
«Ok, non ti scaldare».
«E poi ho detto che ne “facevo” parte», continuò Kazuya, «Sturati le orecchie».
La porta si aprì e una ragazza dai capelli castani si affacciò.
«Grazie…», mormorò.
Aveva gli occhi rossi di pianto e alle sue spalle una ragazzina che non poteva avere più di cinque anni era accovacciata sul letto, abbracciata al cuscino.
«Ho una figlia più o meno della stessa età», disse Carter. «So quanto può essere difficile in questo quartiere».
«Ho sentito che state indagando sulla morte di Misty», disse lei. «I muri sono sottili».
«Sai cosa le è successo?».
«Non di preciso. Hanno iniziato a urlare di punto in bianco e poi ho sentito un tonfo. Quando mi sono affacciata ho visto un uomo uscire dalla stanza, lei era già morta».
«Sei riuscita a capire di cosa discutevano?».
«Una questione di soldi».
«Ricordi qualche dettaglio dell’uomo che hai visto? Qualcosa che possa aiutarci a identificarlo?».
«L’ho visto solo di spalle, è fuggito a gambe levate», si scostò i capelli dal viso. «Non sembrava un malvivente, era troppo… pettinato. Non so se mi spiego: taglio a caschetto, camicia stirata, scarpe lucide, sembrava un colletto bianco».
«Grazie», disse Carter. «Ci sei stata molto utile».
«Non c’è di che… Misty era una ragazza gentile e la polizia non sta facendo niente per trovare l’assassino, spero riusciate a beccarlo», lanciò un’occhiata allo yakuza steso a terra. «Prima di andare… non è che potreste…».
«Buttare la spazzatura?», concluse Kazuya al suo posto.
«Faremo in modo che non torni a disturbarti», disse Carter. «Almeno per il momento…».
La ragazza richiuse la porta e i due si guardarono in faccia.
«Quindi?», disse Kazuya indicando l’uomo svenuto. «Cosa ne facciamo di lui?».
«Sto pensando…», disse Carter guardandosi intorno.
«Perché ormai “farselo amico” non è un piano attuabile».
«Certo che sai essere fastidioso», disse Carter percorrendo il corridoio fino alla finestra tra le due rampe di scale. «Perché non puoi pensarci tu?».
«Perché non sono io che vado in giro a crearci nemici!».
Carter sollevò le tapparelle, la finestra dava sul vicolo di fianco all’edificio.
«Ho trovato!», disse aprendola e rivolgendo un ghigno al compagno.
«Da quell’espressione deduco che non mi piacerà…».
«Smettila di lamentarti e dammi una mano», disse Carter prendendo l’uomo sotto alle spalle.
«Non mi sta piacendo», disse Kazuya prendendolo per i piedi. «Non mi sta piacendo per niente».
Carter lo sollevò, appoggiandogli la schiena sul parapetto, poi facendo leva sui piedi lo scaraventarono dalla finestra. Finì dritto nel cassonetto dei rifiuti, sollevando uno sbuffo di polvere.
«Avevi detto tu di “buttare la spazzatura”», ridacchiò Carter.
«Beh, avevi ragione, non tornerà a darle fastidio tanto presto», disse Kazuya avviandosi lungo il corridoio. «Perché sarà impegnato a cercarci per dare fastidio a noi».
«Ti dà mai soddisfazione sapere di aver fatto la cosa giusta?».
«Sì, ma solo quando tutti quelli che possono cercare vendetta ne escono morti».
«Non potevo far fuori uno yakuza nel bel mezzo del territorio del Red Cobra…».
«No, infatti!», sbottò Kazuya. «Ci mancherebbe averli tutti contro…».
Scesero le scale, salutarono il guercio alla reception con un cenno della mano e tornarono all’aria aperta camminando a passo spedito.
«Da quello che ha detto la ragazza, propenderei per l’ipotesi dell’incidente», disse Carter. «Non ce lo vedo un colletto bianco a commettere un omicidio su commissione».
«Allora cos’è andato storto?», chiese Kazuya. «E come mai si trovava lì?».
«Poteva essere un cliente? Ha detto che parlavano di soldi, magari voleva riprendersi la parcella».
«E fare uno sgarro ai Red Cobra?».
Carter si grattò la testa.
«Forse si conoscevano, potevano avere altri affari in ballo che sono andati storti. Forse il “colpo” a cui si riferiva Misty nella lettera non era il ricatto».
«Ma allora perché rubare i filmati?».
«Quelli potrebbero averli presi i poliziotti».
«Dobbiamo scoprire cosa sa la polizia e se hanno loro l’unità di memoria», disse Kazuya.
«E magari anche controllare il corpo di Misty», aggiunse Carter. «Per assicurarci che sia stata una morte accidentale, altrimenti tutto questo ragionamento non sta in piedi».
«È il caso di farci un bicchierino alla Lanterna».
«Non è ancora calato il sole… poi dici a me che dovrei darmi un contegno?».
«Non è per bere… è per bere e parlare con un tizio che conosco», disse Kazuya. «Ha contatti con un medico legale che, per un giusto compenso, può aiutarci a infiltrarci sia nell’obitorio che nella stazione di polizia».
«Non bene come vorresti insinuare», disse Kazuya. «Fosse anche solo a causa delle mie scarse finanze».
«È davvero in mano alla yakuza?».
«Sì, e non una fazione con cui sono in buoni rapporti».
«Ti pareva… esiste della gente con cui sei in buoni rapporti?».
«Certo!».
«Oltre a me e Farah».
«Ti credi tanto simpatico, vero?».
Carter sghignazzò.
«Fottiti», sbuffò lo spadaccino. «Ti cancello dalla lista».
Camminarono osservando la zona residenziale lasciare spazio ai capannoni industriali. Il rumore del traffico venne sostituito da quello di martelli pneumatici, saldatori al plasma e frese che stridevano sul metallo. L’aria assunse una punta ferrosa che sapeva d’acido nel misto amaro del terzo anello. Infine, svoltarono un angolo e lo videro: l’edificio aveva cinque piani e non riceveva una mano di vernice da almeno un decennio. Sarebbe stato completamente anonimo non fosse per l’insegna rossa al neon che recitava “Nightingale”. La strada era deserta, fatta eccezione per un energumeno in un completo nero, all’interno del quale, Carter ne era sicuro, nascondeva almeno un paio di pistole. Quando si avvicinarono, l’uomo alla porta si scostò dal muro su cui era appoggiato e li squadrò dall’alto in basso. Aveva un cobra rosso tatuato sul collo e, nonostante tenesse una mano vicina all’impugnatura del coltello che portava alla cinta, li lasciò passare.
Il corridoio d’ingresso era sovrastato da drappi rossi intessuti d’oro, le pareti erano color giada e piante dalle foglie piatte erano disposte su entrambi i lati in tondi vasi di marmo bianco. Nell’aria aleggiava un sentore di rose e il ridacchiare di ragazze rimbalzava sulle superfici rendendo impossibile individuarne la provenienza. Giunsero alla reception, costituita da una scrivania di mogano le cui gambe serpeggiavano fino a terra nella forma di lunghi dragoni crestati. Un uomo con un occhio guercio e un lungo pizzetto che si attorcigliava su sé stesso era seduto spalle al muro.
«Buongiorno», disse squadrandoli con l’occhio buono che guizzava da uno all’altro. «Cinquanta crediti per entrare».
Carter si voltò verso lo spadaccino.
«Pensavo si pagassero direttamente le ragazze».
«È inutile che guardi me», disse Kazuya sollevando le spalle. «Sarà tipo un all you can eat».
«No che non lo è», disse il guercio. «Cinquanta crediti per entrare, poi ogni ragazza è libera di fare il suo prezzo».
«Mi sembra un sistema onesto», disse Carter. «In ogni caso, non siamo venuti in qualità di clienti: stiamo indagando sull’omicidio di Misty».
«Cinquanta crediti per entrare».
Carter si umettò le labbra.
«Entreremmo giusto per fare un paio di domande alle ragazze, questione di minuti, se fosse possibile…».
«Non lo è», disse il guercio arrotolandosi il pizzetto attorno a un dito. «Cinquanta crediti per entrare».
«Andiamo, amico, mettiti nei nostri panni», disse Kazuya. «Fossimo qui per divertirci pagherei senza lamentarmi ma…».
«Avete idea di quanta gente arriva con scuse simili?», lo interruppe lui. «Me ne devo sorbire uno ogni cazzo di settimana», rilasciò il pizzetto che scattò in posizione come la coda di un maiale. «Sono il padre… le ho portato una torta fatta in casa dalla nonna… mi ha chiesto lei di venire… devo aiutarla a montare un mobile… sono il tecnico dei condizionatori… stiamo indagando su una puttana morta non è così originale come pensate».
«L’omicidio è reale però», protestò Carter. «La polizia ha ispezionato la scena del crimine, dubito non li abbiate notati».
«Anche altre volte lo era», disse il guercio. «Credi sia raro? Ce ne sono di troie che schiattano qui, tra ex violenti, overdose, suicidi».
«Avete fatto pagare anche i poliziotti?», chiese Kazuya con una smorfia.
«Hai un distintivo?».
Lo spadaccino ridusse gli occhi a una fessura.
«Allora sono cinquanta crediti per entrare!».
«E va bene», disse Carter tirando fuori una tessera.
«Questi però l’Avvoltoio ce li rimborsa», disse Kazuya prendendo una scheda a sua volta.
Il guercio passò le tessere sul lettore.
«Benvenuti al Nightingale», disse restituendole.
«Grazie…», rispose Carter grondando sarcasmo. «Dove stava Misty?».
«Secondo piano, terza porta a destra».
Superarono un salone deserto con lampadari di cristallo e drappi multicolore e raggiunsero le scale che portavano ai piani superiori. Il corridoio del secondo piano lo tagliava a metà da parte a parte ed era coperto da uno spesso tappeto con una fantasia geometrica in toni violacei, dal borgogna al porpora, che attutiva il rumore dei passi. Sulla parete opposta vi era una finestra e altre scale salivano su entrambi i lati. Raggiunsero la terza porta a destra e l’aprirono.
Le tapparelle erano abbassate, l’ambiente buio e l’aria odorava di stantio. I cassetti delle credenze pendevano dagli scomparti e gli indumenti erano stati gettati a terra. Il gocciolare del rubinetto del lavandino che veniva dal bagno era l’unico suono udibile. Una porta che conduceva a una stanza attigua lasciava intravedere un letto.
Carter tastò la parete alla ricerca di un interruttore e lo premette. Una fioca luce s’irradiò dal lampadario al centro del soffitto rivelando muri color crema, lingerie di pizzo nero e una chiazza di sangue su un angolo della scrivania e sul pavimento.
«Dev’essere così che è morta», disse Carter chinandosi a esaminare il sangue rappreso. «Sembra quasi accidentale…».
«Che non avesse intenzione di ucciderla?».
«Meglio non saltare a conclusioni affrettate, ma è un’ipotesi da prendere in considerazione», Carter si sollevò e osservò gli indumenti a terra. «Qualcuno cercava qualcosa».
«L’assassino?», disse Kazuya scrutando all’interno dei cassetti e delle ante aperte. «O i poliziotti? Chiunque fosse la figura in vista che Misty stava ricattando, potrebbe avere degli agenti sul suo libro paga, potrebbe aver mandato qualcuno a recuperare i filmati dopo aver saputo della sua morte».
«…o potrebbe essere il mandante, a prescindere da quanto possa aver detto a Johnson».
«E tutta la faccenda del non pestare i piedi al pezzo grosso? Lo consideri lo stesso un sospettato?».
Carter fece spallucce.
«Io lo so dove andremo a finire», disse lo spadaccino con un sospiro. «Lo so che tireremo su un casino…».
«Dai, non disperare».
«Non sono sopravvissuto finora per essere ucciso da un politicante erotomane!».
«Un politicante erotomane?».
«Sì», disse Kazuya. «Ci scannerà in uno scantinato mentre ci costringe a guardare le registrazioni che avremo recuperato, oliandosi come…».
«Grazie per l’immagine...», lo interruppe Carter facendo una smorfia di disgusto. «Magari riusciremo a mantenere una certa discrezione».
«A chi vuoi darla a bere?».
«All’Avvoltoio, possibilmente».
Carter si diresse verso la porta ed entrò in camera da letto. Le lenzuola sfatte strisciavano sul pavimento e un’anta del guardaroba era spalancata rivelando una videocamera puntata sul letto.
«È stata spostata», disse chiudendo e riaprendo l’anta. «Normalmente l’obiettivo si sarebbe trovato proprio in corrispondenza del buco della serratura».
Avvolse la mano in un fazzoletto prima di afferrarla e ruotarla: lo scomparto del chip dati era aperto.
«Qualcuno ha preso l’unità di memoria».
Kazuya andò al comodino dove riposava una selezione di trucchi dai colori caldi e aprì il primo cassetto. Assieme a una moltitudine di reggiseni e mutandine coordinate vi era una busta per lettere.
«A Malinda», lesse lo spadaccino. «Non c’è l’indirizzo».
Carter la prese e l’aprì: dentro c’era una lettera, poche righe incompiute indirizzate alla sorella.
«Dice solo che dopo questo “colpo” sarebbero potute vivere entrambe libere, doveva essere sul punto di ricevere i soldi».
Un frastuono di colpi sul legno venne dal corridoio.
«Vieni fuori, puttana!», riverberò un urlo rauco.
«Vattene!», il grido acuto penetrò la parete.
«È mia figlia!».
«Ah, ora è tua figlia? Cos’hai mai fatto per lei?».
«Non la lascio con una troia come te!».
«E come vorresti crescerla? Accoltellando qualcuno a ogni compleanno? Tanti auguri piccola, papà è un tagliagole!».
«Può lavorare alla fabbrica come gli altri bambini, almeno mi ci pago la birra!».
«Non puoi sfruttarla così!».
«Non preoccuparti, appena avrà l’età giusta la metterò a lavorare nella camera di fianco alla tua, così mi ci pago anche la pasta di spore!».
Carter tornò in corridoio: un corpulento uomo pelato che indossava giubbotto di pelle, jeans strappati e catene al collo stava battendo col pugno sulla porta di una camera vicina.
«Tu che cazzo vuoi?!».
Carter partì con un destro fulmineo che lo colse in pieno volto. La cartilagine del naso andò in pezzi sotto alle nocche e l’energumeno finì disteso a terra.
«Hai un talento per farti degli amici», disse Kazuya spuntando alle sue spalle. «Oh merda…».
«Merda, cosa?».
«Guardagli il collo».
Carter si chinò e scostò il colletto della giacca, tatuato tra l’orecchio e la clavicola c’era un cobra rosso.
«Oh cazzo… fa parte della yakuza, vero?».
«Della fazione dei Red Cobra», disse kazuya massaggiandosi una tempia. «Non potevi proprio lasciare che massacrasse quella porta, vero?».
«Che ne sapevo io? Pensavo fosse un normale cliente».
«E ovviamente dovevi stenderlo dopo che ci ha visti in faccia».
«Ho pensato a Emily e non ci ho più visto…», disse Carter allargando le braccia. «Questo tatuaggio mi ricorda quello che hai sulla scapola».
«Perché facevo parte della stessa fazione…».
«Allora quando rinviene ci parli tu e sistemi tutto».
«Non conosco ogni coglione che si affilia ai Red Cobra!».
«Ok, non ti scaldare».
«E poi ho detto che ne “facevo” parte», continuò Kazuya, «Sturati le orecchie».
La porta si aprì e una ragazza dai capelli castani si affacciò.
«Grazie…», mormorò.
Aveva gli occhi rossi di pianto e alle sue spalle una ragazzina che non poteva avere più di cinque anni era accovacciata sul letto, abbracciata al cuscino.
«Ho una figlia più o meno della stessa età», disse Carter. «So quanto può essere difficile in questo quartiere».
«Ho sentito che state indagando sulla morte di Misty», disse lei. «I muri sono sottili».
«Sai cosa le è successo?».
«Non di preciso. Hanno iniziato a urlare di punto in bianco e poi ho sentito un tonfo. Quando mi sono affacciata ho visto un uomo uscire dalla stanza, lei era già morta».
«Sei riuscita a capire di cosa discutevano?».
«Una questione di soldi».
«Ricordi qualche dettaglio dell’uomo che hai visto? Qualcosa che possa aiutarci a identificarlo?».
«L’ho visto solo di spalle, è fuggito a gambe levate», si scostò i capelli dal viso. «Non sembrava un malvivente, era troppo… pettinato. Non so se mi spiego: taglio a caschetto, camicia stirata, scarpe lucide, sembrava un colletto bianco».
«Grazie», disse Carter. «Ci sei stata molto utile».
«Non c’è di che… Misty era una ragazza gentile e la polizia non sta facendo niente per trovare l’assassino, spero riusciate a beccarlo», lanciò un’occhiata allo yakuza steso a terra. «Prima di andare… non è che potreste…».
«Buttare la spazzatura?», concluse Kazuya al suo posto.
«Faremo in modo che non torni a disturbarti», disse Carter. «Almeno per il momento…».
La ragazza richiuse la porta e i due si guardarono in faccia.
«Quindi?», disse Kazuya indicando l’uomo svenuto. «Cosa ne facciamo di lui?».
«Sto pensando…», disse Carter guardandosi intorno.
«Perché ormai “farselo amico” non è un piano attuabile».
«Certo che sai essere fastidioso», disse Carter percorrendo il corridoio fino alla finestra tra le due rampe di scale. «Perché non puoi pensarci tu?».
«Perché non sono io che vado in giro a crearci nemici!».
Carter sollevò le tapparelle, la finestra dava sul vicolo di fianco all’edificio.
«Ho trovato!», disse aprendola e rivolgendo un ghigno al compagno.
«Da quell’espressione deduco che non mi piacerà…».
«Smettila di lamentarti e dammi una mano», disse Carter prendendo l’uomo sotto alle spalle.
«Non mi sta piacendo», disse Kazuya prendendolo per i piedi. «Non mi sta piacendo per niente».
Carter lo sollevò, appoggiandogli la schiena sul parapetto, poi facendo leva sui piedi lo scaraventarono dalla finestra. Finì dritto nel cassonetto dei rifiuti, sollevando uno sbuffo di polvere.
«Avevi detto tu di “buttare la spazzatura”», ridacchiò Carter.
«Beh, avevi ragione, non tornerà a darle fastidio tanto presto», disse Kazuya avviandosi lungo il corridoio. «Perché sarà impegnato a cercarci per dare fastidio a noi».
«Ti dà mai soddisfazione sapere di aver fatto la cosa giusta?».
«Sì, ma solo quando tutti quelli che possono cercare vendetta ne escono morti».
«Non potevo far fuori uno yakuza nel bel mezzo del territorio del Red Cobra…».
«No, infatti!», sbottò Kazuya. «Ci mancherebbe averli tutti contro…».
Scesero le scale, salutarono il guercio alla reception con un cenno della mano e tornarono all’aria aperta camminando a passo spedito.
«Da quello che ha detto la ragazza, propenderei per l’ipotesi dell’incidente», disse Carter. «Non ce lo vedo un colletto bianco a commettere un omicidio su commissione».
«Allora cos’è andato storto?», chiese Kazuya. «E come mai si trovava lì?».
«Poteva essere un cliente? Ha detto che parlavano di soldi, magari voleva riprendersi la parcella».
«E fare uno sgarro ai Red Cobra?».
Carter si grattò la testa.
«Forse si conoscevano, potevano avere altri affari in ballo che sono andati storti. Forse il “colpo” a cui si riferiva Misty nella lettera non era il ricatto».
«Ma allora perché rubare i filmati?».
«Quelli potrebbero averli presi i poliziotti».
«Dobbiamo scoprire cosa sa la polizia e se hanno loro l’unità di memoria», disse Kazuya.
«E magari anche controllare il corpo di Misty», aggiunse Carter. «Per assicurarci che sia stata una morte accidentale, altrimenti tutto questo ragionamento non sta in piedi».
«È il caso di farci un bicchierino alla Lanterna».
«Non è ancora calato il sole… poi dici a me che dovrei darmi un contegno?».
«Non è per bere… è per bere e parlare con un tizio che conosco», disse Kazuya. «Ha contatti con un medico legale che, per un giusto compenso, può aiutarci a infiltrarci sia nell’obitorio che nella stazione di polizia».
Un caffè all'obitorio
Grazie a qualche birra e una manciata di crediti, la sera precedente avevano ottenuto l’indirizzo di uno dei medici legali che lavoravano all’obitorio della stazione di polizia del quartiere del Dragone. Si erano alzati prima dell’alba e lo stavano aspettando sotto casa con un caffè in mano. Trascorsero una mezzora a sorseggiare la bevanda, osservando la luce del sole che avanzava lungo la strada man mano che l’astro si innalzava oltre le mura a oriente. Infine, lo videro uscire per dirigersi al lavoro.
«Salve Randy», disse Kazuya piazzandoglisi davanti senza tante cerimonie.
«Oh no…», disse il medico bloccandosi.
«Un amico alla Lanterna mi ha detto che puoi darci una mano».
«Oh no!», disse lui ricominciando a camminare, passandogli di fianco. «Ne sono fuori, non so chi ti ha fatto il mio nome ma ne sono fuori».
Lo spadaccino gli afferrò una spalla.
«Rilassati, non mi frega un cazzo dei farmaci di contrabbando».
«Bene, perché come ho detto: ne sono fuori!».
Kazuya fece per aprire la bocca.
«Fuori!», urlò il medico. «E non voglio entrare in nessun altro giro».
«Non vogliamo coinvolgerti in nessun giro!».
«E allora cosa volete?».
«Niente di illegale».
«Valla a raccontare a qualcun altro».
«Devi solo dimenticare una porta aperta», disse lo spadaccino facendo spallucce «Vai a prenderti un caffè o qualsiasi cosa beviate tra un cadavere e l’altro».
«E perché dovrei farlo?», disse Randy incrociando le braccia. «Non voglio essere né in debito né in credito di favori con voi yakuza».
Carter aggrottò la fronte e fece un passo avanti.
«Non so con chi credi di parlare, ma io non faccio parte di alcuna organizzazione criminale», disse. «Stiamo indagando sulla morte di una prostituta di nome Misty».
Randy non rispose.
Carter inarcò un sopracciglio.
«Misty», ripeté scandendo le sillabe.
«Il nome dovrebbe dirmi qualcosa?», sbottò il medico.
«Speravo di sì…».
«Sai quante puttane morte arrivano in obitorio?».
«Se questa è la passione che metti nel tuo lavoro, sarà meglio che indaghiamo a fondo».
«Come se voi foste dei buoni samaritani».
«Non è questo il punto: una ragazza è morta e la polizia non sta facendo niente. Poco importa se noi ci guadagniamo qualcosa, finché facciamo la cosa giusta».
Randy si grattò la testa ed esalò un respiro pesante.
«Volete solo dare un occhio al corpo e controllare i documenti?».
«Niente di più», mentì Kazuya.
«Allora offritemi il caffè ed è fatta».
«Quanto costa alle macchinette dell’obitorio?».
«Cinquecento crediti».
«Porca troia», sbottò Carter. «Che miscela usate?».
«Se volete gironzolare per l’obitorio e frugare in documenti ufficiali, questo è il prezzo».
«Uno sconto da buon samaritano a buon samaritano?».
«È già calcolato, fidati», disse Randy. «Una cosa del genere può costarmi il posto».
«Con la gentilezza che ti pervade, i tuoi pazienti devono ringraziare di essere già morti…».
Carter guardò Kazuya, non arrivava a cinquecento crediti nemmeno vendendo i mobili di casa.
«Li anticipo io», disse lo spadaccino sollevando gli occhi e mettendo mano al portafoglio. «Metà ora, metà quando ci farai entrare».
«Mi sembra ragionevole», disse il medico avvicinando una tessera a quella che lo spadaccino gli porgeva.
La transazione avvenne in un istante.
«Fatevi trovare alle nove in punto davanti alla porta sul retro dell’obitorio», disse Randy. «Ci facciamo uscire le salme ma oggi non è previsto di incenerirne».
Il medico si voltò sparendo tra la folla alla fermata del tram.
«Se l’Avvoltoio non ci rimborsa le spese», disse Kazuya. «Sarò io a incenerire una salma».
«Salve Randy», disse Kazuya piazzandoglisi davanti senza tante cerimonie.
«Oh no…», disse il medico bloccandosi.
«Un amico alla Lanterna mi ha detto che puoi darci una mano».
«Oh no!», disse lui ricominciando a camminare, passandogli di fianco. «Ne sono fuori, non so chi ti ha fatto il mio nome ma ne sono fuori».
Lo spadaccino gli afferrò una spalla.
«Rilassati, non mi frega un cazzo dei farmaci di contrabbando».
«Bene, perché come ho detto: ne sono fuori!».
Kazuya fece per aprire la bocca.
«Fuori!», urlò il medico. «E non voglio entrare in nessun altro giro».
«Non vogliamo coinvolgerti in nessun giro!».
«E allora cosa volete?».
«Niente di illegale».
«Valla a raccontare a qualcun altro».
«Devi solo dimenticare una porta aperta», disse lo spadaccino facendo spallucce «Vai a prenderti un caffè o qualsiasi cosa beviate tra un cadavere e l’altro».
«E perché dovrei farlo?», disse Randy incrociando le braccia. «Non voglio essere né in debito né in credito di favori con voi yakuza».
Carter aggrottò la fronte e fece un passo avanti.
«Non so con chi credi di parlare, ma io non faccio parte di alcuna organizzazione criminale», disse. «Stiamo indagando sulla morte di una prostituta di nome Misty».
Randy non rispose.
Carter inarcò un sopracciglio.
«Misty», ripeté scandendo le sillabe.
«Il nome dovrebbe dirmi qualcosa?», sbottò il medico.
«Speravo di sì…».
«Sai quante puttane morte arrivano in obitorio?».
«Se questa è la passione che metti nel tuo lavoro, sarà meglio che indaghiamo a fondo».
«Come se voi foste dei buoni samaritani».
«Non è questo il punto: una ragazza è morta e la polizia non sta facendo niente. Poco importa se noi ci guadagniamo qualcosa, finché facciamo la cosa giusta».
Randy si grattò la testa ed esalò un respiro pesante.
«Volete solo dare un occhio al corpo e controllare i documenti?».
«Niente di più», mentì Kazuya.
«Allora offritemi il caffè ed è fatta».
«Quanto costa alle macchinette dell’obitorio?».
«Cinquecento crediti».
«Porca troia», sbottò Carter. «Che miscela usate?».
«Se volete gironzolare per l’obitorio e frugare in documenti ufficiali, questo è il prezzo».
«Uno sconto da buon samaritano a buon samaritano?».
«È già calcolato, fidati», disse Randy. «Una cosa del genere può costarmi il posto».
«Con la gentilezza che ti pervade, i tuoi pazienti devono ringraziare di essere già morti…».
Carter guardò Kazuya, non arrivava a cinquecento crediti nemmeno vendendo i mobili di casa.
«Li anticipo io», disse lo spadaccino sollevando gli occhi e mettendo mano al portafoglio. «Metà ora, metà quando ci farai entrare».
«Mi sembra ragionevole», disse il medico avvicinando una tessera a quella che lo spadaccino gli porgeva.
La transazione avvenne in un istante.
«Fatevi trovare alle nove in punto davanti alla porta sul retro dell’obitorio», disse Randy. «Ci facciamo uscire le salme ma oggi non è previsto di incenerirne».
Il medico si voltò sparendo tra la folla alla fermata del tram.
«Se l’Avvoltoio non ci rimborsa le spese», disse Kazuya. «Sarò io a incenerire una salma».
* * *
Carter aveva visto diverse sedi militari quando faceva parte della Delta Force e questa non somigliava a nessuna di esse. Non perché fosse della polizia invece che dell’esercito, ma per lo stato di degrado e trascuratezza di cui era vittima: le pareti esterne non erano nemmeno state imbiancate se non dalle cacate d’uccello e il casermone si stagliava lugubre col cemento a vista e solo la scritta blu “polizia” a differenziarlo dagli edifici circostanti. Il complesso era esteso tanto da comprendere, oltre alla centrale, sia il tribunale che l’obitorio. Seguirono le indicazioni di Randy e raggiunsero la zona posteriore. Si misero a chiacchierare in strada facendo finta di niente e quando l’ora s’apprestava ad arrivare si portarono vicino alla zona di carico e scarico. Alle nove in punto la porta si aprì e la faccia del medico apparve dietro di essa.
«Entrate, svelti».
Si trovarono in un corridoio dalle pareti grigie.
«La seconda metà, prego», disse Randy allungando la carta.
«Dritto al pagamento, eh?», disse Kazuya.
«Non dirmi che sei abituato diversamente».
Lo spadaccino esibì un ghigno e sfiorò la sua carta con la propria.
«Indossate questi», disse il medico dando loro un camice ciascuno. «Non hanno ancora la targa col nome, quindi se vi chiedono qualcosa dite di essere stati appena assunti, inventatevi un nome a caso».
«La classica scusa “è il mio primo giorno”?», disse Carter.
«Funziona sempre», disse Randy. «Di base qui non gliene frega un cazzo a nessuno a meno che non gli si pesti i piedi. Evitate comportamenti sospetti e filerà tutto liscio».
Li condusse a un’ampia stanza con scaffali e cassettiere di metallo. Faceva freddo e dall’altra parte rispetto a dove erano arrivati c’erano tre lettini per autopsie, due dei quali coperti da teli bianchi da cui sbucavano braccia e gambe pallide. Dietro ai lettini c’era un muro composto dagli scomparti di metallo dove venivano riposti i cadaveri.
«Ho lasciato il faldone di Misty sulla scrivania, è il caso ventisei-c-quattro», disse il medico. «La chiave per la cella col corpo è lì di fianco, sta nello scomparto sedici».
«Che gentile», disse Kazuya. «E dire che eri così restio a collaborare».
«Non gongolare troppo…», disse Randy. «Meno impiegate a fare quello che dovete fare, meno probabilità ci sono che vi becchino e che mi facciate finire nella merda. Ora vado a prendermi questo caffè e vedrò di metterci un po’, voi fate in modo di dileguarvi prima che io torni e fatemi trovare tutto come l’ho lasciato».
Kazuya non aspettò nemmeno che il medico finisse di parlare: prese la chiave e si avviò allo scomparto sedici. Carter aprì il fascicolo cercando il certificato di morte.
Mentre i passi di Randy risuonavano nel corridoio, Kazuya girò la chiave e la cella frigorifera si aprì con un clack. Afferrò il lettino metallico e tirò facendolo cigolare sulle ruote. Giunto a fine corsa, il carrellino si arrestò e davanti a loro si presentò il corpo nudo di Misty, secco e pallido nel rigor mortis.
«Secondo il referto è morta per un singolo colpo alla testa», disse Carter osservando la frattura sulla tempia sinistra. «Subìto in seguito a una colluttazione da cui non ha riportato altri traumi».
«Corrisponde con quanto abbiamo visto in camera sua», disse Kazuya. «C’è altro?».
«Solo che prendeva dei farmaci, non capisco quali però».
«Non ne ho visti in bagno o in camera da letto… devono averli requisiti durante l’ispezione».
«Magari sono insieme all’unità di memoria della videocamera».
«Dobbiamo controllare la sala delle prove».
«Vado io», disse Carter appoggiando il faldone. «Tu spulcia questo».
«Come mai tu vai a fare la parte interessante e a me spettano le scartoffie?».
«Non puoi andare tu: sembri troppo losco».
«Ah! io sarei quello losco? E tu cos’hai, gli specchi di legno?».
«Ok, se la metti così…», disse Carter aggrottando la fronte. «Hai mai visto una stazione di polizia dall’interno?».
«Certo! Cosa credi?».
«Le celle non contano».
Kazuya ridusse gli occhi a una fessura.
«Ok, vai tu!», sbottò infine. «Rimango qui con Misty che almeno sta zitta».
Carter si avviò per il corridoio, dirigendosi verso la zona del complesso che doveva ospitare la centrale di polizia. Camminò sicuro di sé anche se non aveva idea di dove stava andando, chiuse il camice per nascondere i vestiti e ravviò i capelli all’indietro. La stanza delle prove doveva trovarsi da qualche parte dove i poliziotti potevano accedervi facilmente ma che fosse allo stesso tempo sicura. Incrociò alcuni uomini in uniforme ma Randy aveva ragione: non gli rivolsero nemmeno uno sguardo. Quando scorse un poliziotto che trasportava della polvere bianca in una busta delle prove iniziò a seguirlo. Dopo una sosta in bagno durante la quale la droga si era dimezzata, l’uomo lo condusse dove voleva. Carter aspettò fuori dalla porta fingendo una chiamata per non dare nell’occhio e quando il poliziotto uscì qualche minuto più tardi, aprì la porta e si ritrovò nell’ufficio deposito prove.
«Cosa posso fare per te, dottor…?», disse un poliziotto grassoccio coi baffi che ondeggiavano a ogni parola.
«Brown», disse Carter pensando per chissà quale ragione all’ex-possidente minerario di Silver City. «Vince Brown».
«Come mai il tuo camice non ha la targhetta?», chiese l’agente aggrottando le sopracciglia.
«Mi hanno appena assunto», mentì Carter. «Il medico legale mi ha dato questo camice che aveva in obitorio finché non arriverà il mio».
«Aspetta e spera!», disse lui emettendo una grassa risata.
«Impiegano così tanto?».
«Se non ti è ancora arrivato vuol dire che c’è stato un disguido e se c’è un disguido qui nel Dragone…», fece un gesto della mano come di afferrare e intascarsi qualcosa. «Ti conviene scriverci il tuo nome a penna e fartelo andare bene».
«Lo farò, grazie per la dritta».
«Per trovare qualcosa che funzioni a dovere in questo quartiere bisogna cercare col lanternino», continuò lui. «Ai miei tempi le cose non andavano così male… certo, il Dragone non è mai stato messo bene, ma fino a un paio di decenni fa non c’era tutta la criminalità di oggi».
Carter iniziò a pentirsi di aver lasciato Kazuya con il cadavere silente di Misty.
«Le nuove generazioni sono venute su selvagge, te lo dico io, le radiazioni del terzo anello gli hanno fritto il cervello…», dovette notare la sua espressione spazientita perché interruppe il fiume di parole. «Ma sto divagando… di cos’hai bisogno?».
«Devo dare un occhio alle prove riguardanti il caso ventisei-c-quattro, la prostituta uccisa al Nightingale qualche giorno fa», disse Carter. «Prendeva dei farmaci e il medico legale che ha fatto l’autopsia ha dimenticato di annotarli».
«Ah voi tagliuzzacadaveri…», disse il poliziotto. «Se non fossero morti ve li dimentichereste chissà dove!».
Carter fece un sorriso imbarazzato non sapendo come rispondere.
«I casi dell’ultimo mese li trovi in fondo a sinistra», continuò lui imperterrito. «Ma non portare via i medicinali, annota i nomi e basta».
«Non si possono prendere le prove?».
«Non è questo, il detective che si occupa del caso si è raccomandato di non spostarli che vuole esaminarli meglio».
Carter aveva un paio di idee su come il detective aveva intenzione di “esaminare” i medicinali, la prima passava dal suo naso e la seconda dal mercato nero.
«Non preoccuparti, non li porto da nessuna parte», disse trattenendosi dal fargli notare che era proprio per questi comportamenti che le “cose che funzionano” andavano cercate col lanternino. Si diresse in fondo a sinistra scuotendo la testa alla miopia dell’agente, la corruzione era così normale nel Dragone che perfino i poliziotti l’avevano interiorizzata a tal punto da non rendersene conto?
Guardò sui ripiani degli scaffali finché non trovò un paio di sacchetti identificati con il codice “26C4 Nightingale”. Nel primo c’erano una serie di flaconi pieni a metà, nel secondo era contenuto un palmare da hacker, che fosse di Misty o dell’assassino non era dato sapere. Nessuna traccia dell’unità di memoria della videocamera.
«Merda», sussurrò.
Infilò il palmare in tasca e uscì dal deposito salutando l’addetto senza incrociarne lo sguardo per paura che tentasse di riattaccare bottone con le sue assurdità. Compì la strada a ritroso ad ampie falcate e raggiunse l’obitorio. Randy non era ancora tornato. Lo spadaccino aveva rimesso il corpo di Misty nel cassetto frigorifero e sistemato i fascicoli.
«Allora?», chiese Kazuya vedendolo arrivare.
«Niente unità di memoria», disse Carter. «Non l’hanno messa tra le prove o non l’hanno mai trovata e ce l’ha l’assassino».
«Se l’avessero trovata e omessa dalle prove le cose sarebbero due: l’avrebbero restituita al non meglio specificato “personaggio in vista”, cosa di cui dubito, altrimenti non avrebbe avuto senso assoldare noi per recuperare i filmati, oppure un poliziotto corrotto starebbe portando avanti il ricatto e mi sembra lo stesso poco plausibile: non avrebbe avuto senso non dircelo».
«Concordo», disse Carter. «L’unica spiegazione possibile è che sia in mano al colletto bianco che per qualche motivo non ha ancora intrapreso azioni a riguardo».
«Uccidendo Misty ha fatto uno sgarro ai Red Cobra», disse Kazuya. «Sarà impegnato a non farsi trovare, per ricattare qualcuno c’è sempre tempo e bisogna essere vivi».
«Probabilmente hai ragione… come facciamo a trovare qualcuno che si sta nascondendo dalla yakuza?».
«Siamo un po’ a corto di piste da seguire».
«Dovremmo parlare col boss che gestisce il bordello».
«Oh merda…».
«Boss Sato, giusto?», Carter si grattò la barba. «Qualcuno uccide una delle sue prostitute e lui non fa niente a riguardo? Io non credo».
«Non credo nemmeno io…».
«Sa sicuramente qualcosa».
«Probabile».
«Dobbiamo solo convincerlo che siamo dalla stessa parte».
«Dici poco…», sospirò Kazuya.
«Lo conosci?».
«Sì, è proprio questo il problema».
«Entrate, svelti».
Si trovarono in un corridoio dalle pareti grigie.
«La seconda metà, prego», disse Randy allungando la carta.
«Dritto al pagamento, eh?», disse Kazuya.
«Non dirmi che sei abituato diversamente».
Lo spadaccino esibì un ghigno e sfiorò la sua carta con la propria.
«Indossate questi», disse il medico dando loro un camice ciascuno. «Non hanno ancora la targa col nome, quindi se vi chiedono qualcosa dite di essere stati appena assunti, inventatevi un nome a caso».
«La classica scusa “è il mio primo giorno”?», disse Carter.
«Funziona sempre», disse Randy. «Di base qui non gliene frega un cazzo a nessuno a meno che non gli si pesti i piedi. Evitate comportamenti sospetti e filerà tutto liscio».
Li condusse a un’ampia stanza con scaffali e cassettiere di metallo. Faceva freddo e dall’altra parte rispetto a dove erano arrivati c’erano tre lettini per autopsie, due dei quali coperti da teli bianchi da cui sbucavano braccia e gambe pallide. Dietro ai lettini c’era un muro composto dagli scomparti di metallo dove venivano riposti i cadaveri.
«Ho lasciato il faldone di Misty sulla scrivania, è il caso ventisei-c-quattro», disse il medico. «La chiave per la cella col corpo è lì di fianco, sta nello scomparto sedici».
«Che gentile», disse Kazuya. «E dire che eri così restio a collaborare».
«Non gongolare troppo…», disse Randy. «Meno impiegate a fare quello che dovete fare, meno probabilità ci sono che vi becchino e che mi facciate finire nella merda. Ora vado a prendermi questo caffè e vedrò di metterci un po’, voi fate in modo di dileguarvi prima che io torni e fatemi trovare tutto come l’ho lasciato».
Kazuya non aspettò nemmeno che il medico finisse di parlare: prese la chiave e si avviò allo scomparto sedici. Carter aprì il fascicolo cercando il certificato di morte.
Mentre i passi di Randy risuonavano nel corridoio, Kazuya girò la chiave e la cella frigorifera si aprì con un clack. Afferrò il lettino metallico e tirò facendolo cigolare sulle ruote. Giunto a fine corsa, il carrellino si arrestò e davanti a loro si presentò il corpo nudo di Misty, secco e pallido nel rigor mortis.
«Secondo il referto è morta per un singolo colpo alla testa», disse Carter osservando la frattura sulla tempia sinistra. «Subìto in seguito a una colluttazione da cui non ha riportato altri traumi».
«Corrisponde con quanto abbiamo visto in camera sua», disse Kazuya. «C’è altro?».
«Solo che prendeva dei farmaci, non capisco quali però».
«Non ne ho visti in bagno o in camera da letto… devono averli requisiti durante l’ispezione».
«Magari sono insieme all’unità di memoria della videocamera».
«Dobbiamo controllare la sala delle prove».
«Vado io», disse Carter appoggiando il faldone. «Tu spulcia questo».
«Come mai tu vai a fare la parte interessante e a me spettano le scartoffie?».
«Non puoi andare tu: sembri troppo losco».
«Ah! io sarei quello losco? E tu cos’hai, gli specchi di legno?».
«Ok, se la metti così…», disse Carter aggrottando la fronte. «Hai mai visto una stazione di polizia dall’interno?».
«Certo! Cosa credi?».
«Le celle non contano».
Kazuya ridusse gli occhi a una fessura.
«Ok, vai tu!», sbottò infine. «Rimango qui con Misty che almeno sta zitta».
Carter si avviò per il corridoio, dirigendosi verso la zona del complesso che doveva ospitare la centrale di polizia. Camminò sicuro di sé anche se non aveva idea di dove stava andando, chiuse il camice per nascondere i vestiti e ravviò i capelli all’indietro. La stanza delle prove doveva trovarsi da qualche parte dove i poliziotti potevano accedervi facilmente ma che fosse allo stesso tempo sicura. Incrociò alcuni uomini in uniforme ma Randy aveva ragione: non gli rivolsero nemmeno uno sguardo. Quando scorse un poliziotto che trasportava della polvere bianca in una busta delle prove iniziò a seguirlo. Dopo una sosta in bagno durante la quale la droga si era dimezzata, l’uomo lo condusse dove voleva. Carter aspettò fuori dalla porta fingendo una chiamata per non dare nell’occhio e quando il poliziotto uscì qualche minuto più tardi, aprì la porta e si ritrovò nell’ufficio deposito prove.
«Cosa posso fare per te, dottor…?», disse un poliziotto grassoccio coi baffi che ondeggiavano a ogni parola.
«Brown», disse Carter pensando per chissà quale ragione all’ex-possidente minerario di Silver City. «Vince Brown».
«Come mai il tuo camice non ha la targhetta?», chiese l’agente aggrottando le sopracciglia.
«Mi hanno appena assunto», mentì Carter. «Il medico legale mi ha dato questo camice che aveva in obitorio finché non arriverà il mio».
«Aspetta e spera!», disse lui emettendo una grassa risata.
«Impiegano così tanto?».
«Se non ti è ancora arrivato vuol dire che c’è stato un disguido e se c’è un disguido qui nel Dragone…», fece un gesto della mano come di afferrare e intascarsi qualcosa. «Ti conviene scriverci il tuo nome a penna e fartelo andare bene».
«Lo farò, grazie per la dritta».
«Per trovare qualcosa che funzioni a dovere in questo quartiere bisogna cercare col lanternino», continuò lui. «Ai miei tempi le cose non andavano così male… certo, il Dragone non è mai stato messo bene, ma fino a un paio di decenni fa non c’era tutta la criminalità di oggi».
Carter iniziò a pentirsi di aver lasciato Kazuya con il cadavere silente di Misty.
«Le nuove generazioni sono venute su selvagge, te lo dico io, le radiazioni del terzo anello gli hanno fritto il cervello…», dovette notare la sua espressione spazientita perché interruppe il fiume di parole. «Ma sto divagando… di cos’hai bisogno?».
«Devo dare un occhio alle prove riguardanti il caso ventisei-c-quattro, la prostituta uccisa al Nightingale qualche giorno fa», disse Carter. «Prendeva dei farmaci e il medico legale che ha fatto l’autopsia ha dimenticato di annotarli».
«Ah voi tagliuzzacadaveri…», disse il poliziotto. «Se non fossero morti ve li dimentichereste chissà dove!».
Carter fece un sorriso imbarazzato non sapendo come rispondere.
«I casi dell’ultimo mese li trovi in fondo a sinistra», continuò lui imperterrito. «Ma non portare via i medicinali, annota i nomi e basta».
«Non si possono prendere le prove?».
«Non è questo, il detective che si occupa del caso si è raccomandato di non spostarli che vuole esaminarli meglio».
Carter aveva un paio di idee su come il detective aveva intenzione di “esaminare” i medicinali, la prima passava dal suo naso e la seconda dal mercato nero.
«Non preoccuparti, non li porto da nessuna parte», disse trattenendosi dal fargli notare che era proprio per questi comportamenti che le “cose che funzionano” andavano cercate col lanternino. Si diresse in fondo a sinistra scuotendo la testa alla miopia dell’agente, la corruzione era così normale nel Dragone che perfino i poliziotti l’avevano interiorizzata a tal punto da non rendersene conto?
Guardò sui ripiani degli scaffali finché non trovò un paio di sacchetti identificati con il codice “26C4 Nightingale”. Nel primo c’erano una serie di flaconi pieni a metà, nel secondo era contenuto un palmare da hacker, che fosse di Misty o dell’assassino non era dato sapere. Nessuna traccia dell’unità di memoria della videocamera.
«Merda», sussurrò.
Infilò il palmare in tasca e uscì dal deposito salutando l’addetto senza incrociarne lo sguardo per paura che tentasse di riattaccare bottone con le sue assurdità. Compì la strada a ritroso ad ampie falcate e raggiunse l’obitorio. Randy non era ancora tornato. Lo spadaccino aveva rimesso il corpo di Misty nel cassetto frigorifero e sistemato i fascicoli.
«Allora?», chiese Kazuya vedendolo arrivare.
«Niente unità di memoria», disse Carter. «Non l’hanno messa tra le prove o non l’hanno mai trovata e ce l’ha l’assassino».
«Se l’avessero trovata e omessa dalle prove le cose sarebbero due: l’avrebbero restituita al non meglio specificato “personaggio in vista”, cosa di cui dubito, altrimenti non avrebbe avuto senso assoldare noi per recuperare i filmati, oppure un poliziotto corrotto starebbe portando avanti il ricatto e mi sembra lo stesso poco plausibile: non avrebbe avuto senso non dircelo».
«Concordo», disse Carter. «L’unica spiegazione possibile è che sia in mano al colletto bianco che per qualche motivo non ha ancora intrapreso azioni a riguardo».
«Uccidendo Misty ha fatto uno sgarro ai Red Cobra», disse Kazuya. «Sarà impegnato a non farsi trovare, per ricattare qualcuno c’è sempre tempo e bisogna essere vivi».
«Probabilmente hai ragione… come facciamo a trovare qualcuno che si sta nascondendo dalla yakuza?».
«Siamo un po’ a corto di piste da seguire».
«Dovremmo parlare col boss che gestisce il bordello».
«Oh merda…».
«Boss Sato, giusto?», Carter si grattò la barba. «Qualcuno uccide una delle sue prostitute e lui non fa niente a riguardo? Io non credo».
«Non credo nemmeno io…».
«Sa sicuramente qualcosa».
«Probabile».
«Dobbiamo solo convincerlo che siamo dalla stessa parte».
«Dici poco…», sospirò Kazuya.
«Lo conosci?».
«Sì, è proprio questo il problema».