«Falco a Torpedine», disse Marit portando una mano all’auricolare e avvicinandosi all’orlo del canyon. «Quanto manca per la disattivazione degli scudi?».
«Sono vicina. Testuggine, sei pronto al salto?».
«Pronto a fare irruzione. Che aria si respira sulla cresta, Falco?».
«Fresca e frizzante», rispose lei. «C’erano delle vespe», aggiunse voltandosi a guardare i droni che giacevano a terra, le braccia mitragliatrici rotte e le eliche spezzate. «Ma le ho abbattute».
«Avevano i pungiglioni?».
«Disattivate gli scudi e ve ne accorgerete».
«Ho detto che sono vicina! Vacci tu sotto copertura la prossima volta se sei così impaziente».
«Scarica un po’ di elettricità statica, ti sta dando alla testa…».
«Scaricherò quando devo scaricare! Serpe, il conto degli armati? Ho visto parecchia sicurezza all’interno».
«Due guardie armate ad ogni piano, a cui dovete aggiungerne altre due, probabilmente con equipaggiamento tecnomagico, al piano terra, a quello del generatore lunare e a quello del laboratorio genetico».
«Per quanto riguarda gli ingegnerizzati?».
«Non abbiamo dati, ma non escluderei la presenza di qualche ibrido da combattimento».
Marit guardò nel canyon: un complesso di edifici era stato costruito tra le strette pareti, il più alto dei quali ne raggiungeva metà dell’altezza, aveva dieci piani e ne contava almeno altrettanti sotterranei. Secondo l’intelligence era proprio nel maggiore dei palazzi che si trovava il laboratorio segreto dove l’SSA stava compiendo i suoi esperimenti. Il falco della squadra prima di lei era morto per scoprirne l’ubicazione ed era il momento di portare a termine l’operazione per porre fine alla minaccia sulle città circostanti e rendere onore alla memoria dell’agente.
«Sono in posizione», disse Torpedine. «Ultimo controllo».
«Testuggine in posizione».
«Serpe in posizione».
«Falco in posizione».
«Diamo inizio ai giochi».
Entro una manciata di secondi Marit vide una superficie trasparente traballare tra le pareti del canyon come l’aria nella savana quando il sole è allo zenit, mescolando i contorni degli edifici più in basso per poi sparire, segno che la barriera elettromagnetica era venuta meno. Non c’era tempo da perdere: i nemici avrebbero presto capito cosa stava succedendo e Torpedine si sarebbe trovata in una brutta situazione.
Marit saltò nel canyon schiudendo le ali da rapace in un doppio avvitamento mentre una sirena d’allarme iniziò a suonare riverberando tra le pareti. Prese i razzi sottratti ai droni che rilucevano di una luce arancione e mentre compiva un’ampia virata intorno all’edificio principale li sganciò sugli altri palazzi del complesso: sarebbero stati un perfetto diversivo. Le esplosioni risuonarono come tuoni e un’ondata di calore s’innalzò avvolgendola e spingendola verso l’alto, dovette destreggiarsi in mezzo a quel caos di correnti d’aria per non essere sballottata contro le pareti rocciose.
«Arrivo!», urlò Testuggine mentre precipitava dall’aereo.
Marit fece appena in tempo a virare togliendosi di mezzo prima che il grosso energumeno piombasse come un proiettile sul tetto del laboratorio, sfondandolo. Serpe lo seguiva ma aveva aperto il paracadute.
Marit chiuse le ali lanciandosi in picchiata attraverso il buco nel soffitto, poi le spalancò di colpo per frenare la caduta e atterrò rotolando su se stessa e rialzandosi in un movimento fluido che le permise di estrarre spada e pistola allo stesso tempo. Il polverone sollevato dallo schianto era tale che non riusciva a vedere oltre tre passi, tossì e portò la mano della spada al viso respirando attraverso la stoffa della manica.
«Questa l’ho sentita…», mormorò Testuggine mettendosi in piedi e facendo scrocchiare collo e schiena.
Marit squadrò il compagno, le possenti placche ossee che ne proteggevano la pelle erano incrinate e graffiate.
«Avevano ragione all’agenzia», disse scuotendo la testa.
«Cosa ti hanno detto?».
«Che sei un pazzo…».
Testuggine rise di gusto.
La polvere iniziò a diradarsi e dalle scale in fondo alla sala emersero due figure armate che iniziarono a scaricare i mitra contro l’energumeno. Testuggine si riparò dietro alle placche ossee evocando allo stesso tempo uno scudo deflettore che ebbe l’effetto di smorzare i colpi ma non di fermarli.
Marit puntò la pistola mentre schegge d’osso saltavano in aria come segatura, premette il grilletto e l’infusore, solleticato dagli ingranaggi, s’illuminò di una luce rossa brillante facendo scaturire un colpo incandescente che trapassò uno degli uomini per poi lasciare una chiazza fusa e bruciata sul muro metallico alle sue spalle. La ragazza fece un balzo in avanti per evitare la raffica di proiettili che arrivò nella sua direzione e grazie alla spinta delle ali arrivò di fianco al soldato finendolo con due rapidi colpi di spada.
«Grazie», disse Testuggine. «Per scendere al piano di sotto però usa le scale».
«Contavo su un passaggio… non torni sull’aereo per buttarti una seconda volta?».
«Ah ragazza, vuoi proprio vedermi morto…».
«Il piano l’hai proposto tu».
«Chiedimi se sono pentito».
In quel momento Serpe atterrò sul tetto, assicurò una corda e si calò di sotto.
«Dai un occhio alla nostra palla di cannone», gli disse Marit. «Intanto io vado avanti».
«Altri due soldati al piano di sotto», disse lui facendo guizzare la lingua biforcuta tra le labbra. «E percepisco anche un sentore selvatico: fai attenzione».
«Non preoccuparti».
Prima ancora di raggiungere la rampa di scale sentì un ruggito venire da sotto e un enorme felino le risalì a tale velocità da scontrarsi contro le pareti a ogni svolta per poi lanciarsi nella sua direzione. Marit riuscì a scansarsi appena in tempo da evitare gli artigli dell’animale che le strapparono giusto un paio di penne. Sparò un colpo con la pistola tecnomagica ma il felino non era più lì, il manto grigio maculato l’aiutava a confondersi nel fumo.
«Ho cambiato idea», disse tendendo le orecchie all’esterno. «Datemi una mano con il gat…».
Non fece in tempo a finire la frase che l’animale le si gettò nuovamente addosso sbucando dal nulla ma si bloccò a mezz’aria e cadde a terra. La ragazza fu veloce a piantargli la spada nel cranio. Dietro alla massa di muscoli degna di una tigre e al mantello di un giaguaro vide Testuggine che ne teneva la lunga coda terminante con un aculeo da scorpione.
«Fortuna che ho la pelle coriacea», disse l’energumeno mollando la coda dell’animale e passando le dita sulla placca ossea che aveva fermato il pungiglione.
Un colpo vibrante che li sparò tutti quanti contro il muro pose una fine prematura alla conversazione. Il polverone venne proiettato fuori dal buco nel soffitto come fosse un colpo di cannone e i mobili in legno andarono in pezzi.
Marit si alzò tra i documenti che volavano e si trovò di fronte a due soldati di cui uno impugnava un fucile che riluceva di luce blu. Si buttò dietro a una scrivania rovesciata quando l’altro sparò con il fucile a pompa aprendo un buco nella parete dietro a dove si era trovata fino a un istante prima.
Serpe saltò su agitando le mani all’impazzata e scagliando una selva di aghi di pura forza abbattendo il soldato ma un nuovo colpo dell’arma tecnomagica infranse l’incantesimo sbattendo nuovamente tutti quanti contro il muro.
Marit sentì le ossa picchiare sul cemento e digrignò i denti dal dolore ma non tentennò, sfruttando il tempo di ricarica dell’arma dell’avversario sollevò la pistola e sparò a sua volta ma questi sollevò un braccio evocando uno scudo trasparente su cui la vampata si infranse disperdendosi in tutte le direzioni. Marit imprecò ma vide un’opportunità da sfruttare: sparò nuovamente mirando al volto dell’uomo e mentre questi alzava lo scudo e la vista gli veniva bloccata dal fuoco, si lanciò in avanti con un battito d’ali sorpassandolo e lo colpì con un poderoso calcio alla schiena facendolo incespicare e cadere in ginocchio. Tempo un secondo e venne trapassato da un raggio rosso.
«Avrei bisogno di un aiutino qui sotto», arrivò la voce di Torpedine attraverso gli auricolari. «Appena avete finito di giocare…».
«Arriviamo», rispose Marit, poi si rivolse agli altri due. «Pensavo l’avesse scaricata…».
«È la prima missione con lei?».
«Si, ma non la prima con una torpedine…».
«Ah quello non centra niente», disse Testuggine. «Ti ci abituerai…».
«Pensiamo noi a recuperarla», s’intromise Serpe lanciandole la sua pistola. «Tu porta a termine la missione come da piano».
Marit prese l’arma al volo e annuì.
«In bocca al lupo».
Mentre gli altri due scendevano dalle scale, Marit si tolse lo zaino e ne tirò fuori la trivella astrale. Impiegò qualche minuto a posizionarla e assemblarne i pezzi ma nessuno arrivò a disturbarla. Quando fu pronta controllò nuovamente le tasche dell’uniforme tattica per assicurarsi di avere tutto, poi premette il pulsante d’accensione e si allontanò di diversi passi.
La trivella astrale emise un fischio come una pentola a pressione, generò come prima cosa un campo magnetico che la tenne perfettamente perpendicolare al pavimento mentre iniziava a ruotare. L’energia degli astri si sprigionò esponenzialmente imprimendo una forza inaudita e l’aria si incendiò, il macchinario iniziò a scavare nel cemento e in pochi secondi precipitò nel piano sottostante e così via sempre più velocemente come se un piccolo sole stesse tramontando all’interno del palazzo. Quando l’energia si fu consumata la trivella si spense, decine di piani più in basso.
«Niente male, niente male davvero», mormorò Marit. «Abbiamo questo affare e ti sei buttato da un aereo?!».
«Non ha una carica infinita», protestò Testuggine. «Era per preservarla in modo che scavasse il più in profondità possibile…».
«Sappi che quelli dell’agenzia avevano ragione…».
Come risposta ricevette solo una grassa risata per cui si portò sul bordo del foro che era largo una spanna in più delle sue spalle per lato, impugnò entrambe le pistole e vi saltò dentro. Il piano sottostante era libero, c’era solo il cadavere di quello che sembrava un lupo con spine da istrice sulla schiena e dei denti a sciabola. Battè le ali una volta per evitare di accelerare troppo durante la caduta. Due piani sotto trovò Serpe e Testuggine che, nascosti dietro a un muretto si scambiavano proiettili con un paio di soldati.
«Il lupo l’avete trovato davvero!», esclamò dando un un colpo d’ali e approfittando della frazione di secondo in cui rimase sospesa per sparare a entrambi gli avversari, poi piombò nel piano di sotto senza sentire la risposta che le urlarono anche se distinse un dito medio per una frazione di secondo.
Un battito d’ali dopo l’altro discese tutti i piani sparando a tutto ciò che vedeva e ci mancò poco che freddasse per sbaglio anche Torpedine.
«Scusa!», esclamò sparendo nel pavimento.
«Guarda dove spari brutto allocco!».
Marit rise ma ebbe l’accortezza di non rispondere a tono, questa volta era in torto marcio. In breve tempo raggiunse il punto in cui la trivella astrale si era fermata e dischiuse le ali planando sul pavimento: non sarebbe stato saggio arrivare dritta come un fuso e poggiare i piedi su quella diavoleria, l’energia magica degli astri si era esaurita ma era ancora incandescente.
Il piano era pieno di scrivanie e non c’erano minacce visibili ma non era quello giusto e scendendo non aveva visto il laboratorio che avrebbe dovuto raggiungere, si vedeva che c’erano ancora altri livelli sotterranei.
«Forse Testuggine non aveva tutti i torti…», mormorò tra sé stiracchiandosi la schiena, le dolevano i muscoli delle ali per lo sforzo e sentiva le mani calde tanto aveva sparato.
Si avviò per le scale ritrovandosi in un piano identico per cui continuò a scendere per parecchie rampe tanto che iniziò a percorrerle correndo sulle pareti ad ali spiegate.
A un certo punto, discesa l’ennesima rampa, si trovò all’inizio di un lungo corridoio completamente bianco, l’unica eccezione era rappresentata da uno scanner neurale alla sua sinistra ma, dal momento che non possedeva né uno scienziato nemico vivo, né un’immagine delle sue reti neurali, sarebbe stato impossibile ingannare il sistema. Prese dalla tasca un disco di metallo e lo lanciò in mezzo alla stanza. Appena questo si fu ancorato a terra grazie alla base magnetica, si formarono delle fenditure sui lati e con uno scatto si schiuse e ne fuoriuscì un’antenna. Dal fondo del corridoio si aprirono due scomparti segreti da cui spuntarono le canne rotanti di una coppia di mitragliatrici gatling ma in una frazione di secondo altrettanti fulmini si dipartirono dall’antenna andando a colpire le armi fondendone i circuiti. Le canne rallentarono e si fermarono senza esplodere neanche un colpo.
Marit fu grata al suo sesto senso e percorse a passo veloce il corridoio che svoltava a destra aprendosi in una grande sala piena di frigoriferi, freezer, reagenti, centrifughe e sequenziatori. Al centro stava in piedi un uomo in camice che la squadrò con occhi sgranati, sovrastati da cespugliose sopracciglia. Teneva tra le mani un detonatore con un grosso pulsante rosso.
«Fermo», gli intimò Marit rinfoderando la sua pistola e lanciando dietro di sé quella di Serpe. «Cerchiamo di non fare stronzate».
Le mani grinzose dell’uomo tremavano ed erano lucide di sudore. Non proferì alcuna parola, magari non parlava la sua lingua o era semplicemente troppo teso.
«Non ho intenzione di ucciderti», disse in tono tranquillizzante tenendo le mani in vista e avanzando di un passo.
L’uomo premette il comando.
«Ma che cazzo!», inveì Marit.
Tuttavia, nessuna bomba venne detonata e non saltarono in aria.
«Ah… mi ero allarmata per niente».
Si aprirono invece due porte sul lato sinistro della sala da cui saltarono fuori altrettante tigri con zampe da babbuino le quali si scagliarono sullo scienziato sbranandolo e lanciando sangue e ossa in tutte le direzioni.
Marit rimase a bocca aperta.
«O forse no…», mormorò.
Abbassò la mano muovendola più lentamente che potè fino a raggiungere la fondina ma nel momento in cui la pistola scorse sul cuoio nell’essere estratta le bestie smisero di mangiare e alzarono la testa guardandola con occhi folli.
«Merda…».
Iniziò a sparare e le creature si lanciarono all’attacco ma i colpi andarono a vuoto dal momento che queste saltarono aggrappandosi ai tubi che correvano lungo il soffitto ondeggiando in un moto imprevedibile da una parte all’altra e Marit fu costretta a saltare di lato proprio mente dei denti aguzzi si serravano a pochi centimetri dalla sua spalla. Per sua fortuna il laboratorio era abbastanza ampio da poter schiudere le ali e riuscì a mettere una certa distanza tra sé e gli ibridi i quali ringhiarono di rabbia lasciandosi cadere a terra e nascondendosi tra i banconi da lavoro.
Marit tese le orecchie e spiò oltre l’angolo del bancone dietro al quale si era rifugiata, poteva sentire le creature ruggire e grugnire come se stessero comunicando ed essendo ibridi non era da escludere che si stessero accordando per una tattica d’attacco. Per loro sfortuna non erano scaltri come i loro creatori avrebbero voluto. Una volta individuati i banconi dietro ai quali si nascondevano, Marit ruotò una levetta incrementando al massimo la potenza della pistola vulcanica. Calcolando la traiettoria come meglio poteva la puntò dritta contro il bancone e fece fuoco: l’infusore divenne di un rosso abbagliante tanto da farle male agli occhi e il colpo produsse una vampata che quasi le scottò la mano e trapassò il legno del bancone e di quelli successivi come fossero burro aprendo un piccolo foro nella parete. Udì un guaito di dolore e una delle creature cadde con un tonfo. L’odore di carne bruciata si levò nell’aria assieme a quello del legno bruciato.
«Beccati questo!», urlò Marit con un ghigno.
La creatura gemella però non si diede per vinta e con un ruggito che sembrava più un ululato saltò fuori dal suo nascondiglio muovendosi ondeggiando sui tubi come aveva fatto poco prima.
Marit abbassò la potenza della pistola e sparò due colpi. Andarono a segno ma l’arma non aveva ancora fatto in tempo a raffreddarsi e i raggi scottarono la bestia dandone fuoco alla pelliccia ma non la fermarono.
L’ibrido le piombò addosso con tutto il suo peso gettandola a terra, riuscì a stento a bloccarne la testa prima che l’addentasse alla giugulare e ne sentì l’alito fetido riempirle il naso e la bava colarle su una guancia. La pistola le era sfuggita di mano per cui cercò di prendere il pugnale tenendo le fauci dell’animale alla larga con l’avambraccio ma questo mulinò le zampe squarciandole i pantaloni e lasciandole quattro lunghe ferite sulla coscia.
Marit raggiunse infine il pugnale che teneva nello stivale sinistro e lo piantò nel fianco della bestia per poi premere il pulsante che aveva sul manico: una scarica elettrica ne percorse la lama e in un fluido movimento diede uno strattone e aprì in due la creatura fino al mento. Il sangue caldo le colò addosso come un fiume impregnandole gli abiti, i capelli e le penne.
Facendo forza con entrambe le braccia sollevò il corpo esanime dell’animale e lo scagliò di lato togliendoselo di dosso. Si alzò e scosse le ali schizzando sangue sulle pareti. Venne percorsa da un brivido di disgusto e si passò le mani sul corpo per ripulirsi ma i vestiti erano ormai pregni della densa melassa che scorreva nelle vene dell’ibrido da combattimento. Sentì una fitta alla gamba e diede un occhio ai graffi.
«Che schifo…», mormorò vedendo che il sangue dell’animale le era colato anche sulle ferite.
Le pulì come meglio potè poi prese un cilindro da una tasca della giubba e lo premette sulla coscia, una moltitudine di aghi ne scaturì iniettandole una soluzione salina ricca di antibiotici che ebbe anche l’effetto di ricostruire l’epitelio. Sarebbe stato comunque meglio non sforzare la gamba per i giorni successivi ma al momento non aveva scelta. Prese una benda da un’altra tasca e l’avvolse stretta intorno alla coscia, poi fece un paio di passi saggiandone la stabilità. Constatato che poteva camminare senza problemi prese della carta dai rotoli che trovò nel laboratorio e si pulì le mani.
Una volta individuato un terminale sopravvissuto alla battaglia vi si avvicinò e collegò un’unità di memoria. Impiegò qualche minuto a trovare i file che stava cercando: sequenze di DNA, plasmidi, banche dati di sequenziamenti, genomi assemblati e loro varianti.
Mentre il computer copiava i dati si avviò alla porta che presentava un lettore retinico a lato. Aggrottò la fronte ma poi ricordò di avere a disposizione la chiave: raccolse la testa dello scienziato che aveva liberato gli ibridi e la staccò dalla colonna vertebrale con un calcio. Represse un conato di vomito, gli alzò una palpebra e avvicinò l’occhio al lettore. Dopo una rapida scansione si accese una luce verde e la porta si schiuse.
Marit gettò la testa ed entrò, la stanza era fredda e presentava una singola torre criogenica proprio al centro. Ne ruotò la parte superiore e questa si aprì con uno sbuffo di vapore, poi sollevò il corpo centrale che salì verticalmente in maniera fluida fino a bloccarsi con uno scatto a fine corsa. Prese da una tasca quella che sembrava una normale bomboletta spray di panna montata e la svitò rivelando un comparto refrigerato.
La torre criogenica era suddivisa in sedici colonne etichettate con un semplice numero tutto intorno al cilindro contenente azoto liquido. Per ogni colonna c’erano dieci piccole provette contenenti dei minuscoli embrioni. Ne prese tre per ogni tipo poi richiuse il contenitore refrigerato e senza darsi pena di fare lo stesso con la torre criogenica vi lanciò contro un disco magnetico e lasciò la stanza.
Il computer aveva finito di copiare i dati quindi scollegò l’unità di memoria e la ripose in una tasca, cancellò i dati del cloud e sparò un colpo a ogni hard drive. Come ultima cosa premette un pulsante e fece detonare il dischetto mandando in pezzi la torre criogenica, distruggendo i restanti embrioni.
Risalì le scale e tornò al piano più alto del palazzo ritrovandosi di fronte una figura longilinea che roteava una frusta elettrificata.
«Ah sei tu», disse Torpedine. «Cos’è tutto quel sangue?».
«Sangue misto, un po’ mio, un po’ di un tizio nervosetto ma per la maggior parte di un ibrido fetido», rispose Marit. «Ti trovo bene, non c’era poi tanto da lamentarsi no?».
Torpedine sbuffò.
«La missione?».
«Completata».
Marit oltrepassò il buco nel soffitto dal quale era entrata nell’edificio con un poderoso colpo d’ali e sopra vi trovò gli altri che l’aspettavano.
«Il jet passerà a momenti», disse Serpe agitando la lingua e armeggiando coi controlli in remoto sul terminale olografico portatile.
Torpedine li raggiunse sul tetto poco prima che l’aereo stealth col quale erano arrivati atterrasse in verticale di fianco a loro. Saltarono a bordo e Serpe si mise ai comandi riprendendo quota.
Marit si aggrappò a un sostegno e rimase in piedi osservando il canyon rimpicciolirsi man mano che si allontanavano, poi si sedette e massaggiò la gamba.
«Fottuti ibridi scimmia…».
«La mia pistola?», chiese Serpe.
Marit arricciò le labbra cercando una scusa.
«L’ha mangiata un ibrido scimmia», disse non trovando di meglio.
Testuggine rise.
Serpe fece guizzare la lingua, sibilando inviperito.
Marit lo ignorò facendo finta di niente.
«Un’altra missione perfettamente riuscita!».
«Sono vicina. Testuggine, sei pronto al salto?».
«Pronto a fare irruzione. Che aria si respira sulla cresta, Falco?».
«Fresca e frizzante», rispose lei. «C’erano delle vespe», aggiunse voltandosi a guardare i droni che giacevano a terra, le braccia mitragliatrici rotte e le eliche spezzate. «Ma le ho abbattute».
«Avevano i pungiglioni?».
«Disattivate gli scudi e ve ne accorgerete».
«Ho detto che sono vicina! Vacci tu sotto copertura la prossima volta se sei così impaziente».
«Scarica un po’ di elettricità statica, ti sta dando alla testa…».
«Scaricherò quando devo scaricare! Serpe, il conto degli armati? Ho visto parecchia sicurezza all’interno».
«Due guardie armate ad ogni piano, a cui dovete aggiungerne altre due, probabilmente con equipaggiamento tecnomagico, al piano terra, a quello del generatore lunare e a quello del laboratorio genetico».
«Per quanto riguarda gli ingegnerizzati?».
«Non abbiamo dati, ma non escluderei la presenza di qualche ibrido da combattimento».
Marit guardò nel canyon: un complesso di edifici era stato costruito tra le strette pareti, il più alto dei quali ne raggiungeva metà dell’altezza, aveva dieci piani e ne contava almeno altrettanti sotterranei. Secondo l’intelligence era proprio nel maggiore dei palazzi che si trovava il laboratorio segreto dove l’SSA stava compiendo i suoi esperimenti. Il falco della squadra prima di lei era morto per scoprirne l’ubicazione ed era il momento di portare a termine l’operazione per porre fine alla minaccia sulle città circostanti e rendere onore alla memoria dell’agente.
«Sono in posizione», disse Torpedine. «Ultimo controllo».
«Testuggine in posizione».
«Serpe in posizione».
«Falco in posizione».
«Diamo inizio ai giochi».
Entro una manciata di secondi Marit vide una superficie trasparente traballare tra le pareti del canyon come l’aria nella savana quando il sole è allo zenit, mescolando i contorni degli edifici più in basso per poi sparire, segno che la barriera elettromagnetica era venuta meno. Non c’era tempo da perdere: i nemici avrebbero presto capito cosa stava succedendo e Torpedine si sarebbe trovata in una brutta situazione.
Marit saltò nel canyon schiudendo le ali da rapace in un doppio avvitamento mentre una sirena d’allarme iniziò a suonare riverberando tra le pareti. Prese i razzi sottratti ai droni che rilucevano di una luce arancione e mentre compiva un’ampia virata intorno all’edificio principale li sganciò sugli altri palazzi del complesso: sarebbero stati un perfetto diversivo. Le esplosioni risuonarono come tuoni e un’ondata di calore s’innalzò avvolgendola e spingendola verso l’alto, dovette destreggiarsi in mezzo a quel caos di correnti d’aria per non essere sballottata contro le pareti rocciose.
«Arrivo!», urlò Testuggine mentre precipitava dall’aereo.
Marit fece appena in tempo a virare togliendosi di mezzo prima che il grosso energumeno piombasse come un proiettile sul tetto del laboratorio, sfondandolo. Serpe lo seguiva ma aveva aperto il paracadute.
Marit chiuse le ali lanciandosi in picchiata attraverso il buco nel soffitto, poi le spalancò di colpo per frenare la caduta e atterrò rotolando su se stessa e rialzandosi in un movimento fluido che le permise di estrarre spada e pistola allo stesso tempo. Il polverone sollevato dallo schianto era tale che non riusciva a vedere oltre tre passi, tossì e portò la mano della spada al viso respirando attraverso la stoffa della manica.
«Questa l’ho sentita…», mormorò Testuggine mettendosi in piedi e facendo scrocchiare collo e schiena.
Marit squadrò il compagno, le possenti placche ossee che ne proteggevano la pelle erano incrinate e graffiate.
«Avevano ragione all’agenzia», disse scuotendo la testa.
«Cosa ti hanno detto?».
«Che sei un pazzo…».
Testuggine rise di gusto.
La polvere iniziò a diradarsi e dalle scale in fondo alla sala emersero due figure armate che iniziarono a scaricare i mitra contro l’energumeno. Testuggine si riparò dietro alle placche ossee evocando allo stesso tempo uno scudo deflettore che ebbe l’effetto di smorzare i colpi ma non di fermarli.
Marit puntò la pistola mentre schegge d’osso saltavano in aria come segatura, premette il grilletto e l’infusore, solleticato dagli ingranaggi, s’illuminò di una luce rossa brillante facendo scaturire un colpo incandescente che trapassò uno degli uomini per poi lasciare una chiazza fusa e bruciata sul muro metallico alle sue spalle. La ragazza fece un balzo in avanti per evitare la raffica di proiettili che arrivò nella sua direzione e grazie alla spinta delle ali arrivò di fianco al soldato finendolo con due rapidi colpi di spada.
«Grazie», disse Testuggine. «Per scendere al piano di sotto però usa le scale».
«Contavo su un passaggio… non torni sull’aereo per buttarti una seconda volta?».
«Ah ragazza, vuoi proprio vedermi morto…».
«Il piano l’hai proposto tu».
«Chiedimi se sono pentito».
In quel momento Serpe atterrò sul tetto, assicurò una corda e si calò di sotto.
«Dai un occhio alla nostra palla di cannone», gli disse Marit. «Intanto io vado avanti».
«Altri due soldati al piano di sotto», disse lui facendo guizzare la lingua biforcuta tra le labbra. «E percepisco anche un sentore selvatico: fai attenzione».
«Non preoccuparti».
Prima ancora di raggiungere la rampa di scale sentì un ruggito venire da sotto e un enorme felino le risalì a tale velocità da scontrarsi contro le pareti a ogni svolta per poi lanciarsi nella sua direzione. Marit riuscì a scansarsi appena in tempo da evitare gli artigli dell’animale che le strapparono giusto un paio di penne. Sparò un colpo con la pistola tecnomagica ma il felino non era più lì, il manto grigio maculato l’aiutava a confondersi nel fumo.
«Ho cambiato idea», disse tendendo le orecchie all’esterno. «Datemi una mano con il gat…».
Non fece in tempo a finire la frase che l’animale le si gettò nuovamente addosso sbucando dal nulla ma si bloccò a mezz’aria e cadde a terra. La ragazza fu veloce a piantargli la spada nel cranio. Dietro alla massa di muscoli degna di una tigre e al mantello di un giaguaro vide Testuggine che ne teneva la lunga coda terminante con un aculeo da scorpione.
«Fortuna che ho la pelle coriacea», disse l’energumeno mollando la coda dell’animale e passando le dita sulla placca ossea che aveva fermato il pungiglione.
Un colpo vibrante che li sparò tutti quanti contro il muro pose una fine prematura alla conversazione. Il polverone venne proiettato fuori dal buco nel soffitto come fosse un colpo di cannone e i mobili in legno andarono in pezzi.
Marit si alzò tra i documenti che volavano e si trovò di fronte a due soldati di cui uno impugnava un fucile che riluceva di luce blu. Si buttò dietro a una scrivania rovesciata quando l’altro sparò con il fucile a pompa aprendo un buco nella parete dietro a dove si era trovata fino a un istante prima.
Serpe saltò su agitando le mani all’impazzata e scagliando una selva di aghi di pura forza abbattendo il soldato ma un nuovo colpo dell’arma tecnomagica infranse l’incantesimo sbattendo nuovamente tutti quanti contro il muro.
Marit sentì le ossa picchiare sul cemento e digrignò i denti dal dolore ma non tentennò, sfruttando il tempo di ricarica dell’arma dell’avversario sollevò la pistola e sparò a sua volta ma questi sollevò un braccio evocando uno scudo trasparente su cui la vampata si infranse disperdendosi in tutte le direzioni. Marit imprecò ma vide un’opportunità da sfruttare: sparò nuovamente mirando al volto dell’uomo e mentre questi alzava lo scudo e la vista gli veniva bloccata dal fuoco, si lanciò in avanti con un battito d’ali sorpassandolo e lo colpì con un poderoso calcio alla schiena facendolo incespicare e cadere in ginocchio. Tempo un secondo e venne trapassato da un raggio rosso.
«Avrei bisogno di un aiutino qui sotto», arrivò la voce di Torpedine attraverso gli auricolari. «Appena avete finito di giocare…».
«Arriviamo», rispose Marit, poi si rivolse agli altri due. «Pensavo l’avesse scaricata…».
«È la prima missione con lei?».
«Si, ma non la prima con una torpedine…».
«Ah quello non centra niente», disse Testuggine. «Ti ci abituerai…».
«Pensiamo noi a recuperarla», s’intromise Serpe lanciandole la sua pistola. «Tu porta a termine la missione come da piano».
Marit prese l’arma al volo e annuì.
«In bocca al lupo».
Mentre gli altri due scendevano dalle scale, Marit si tolse lo zaino e ne tirò fuori la trivella astrale. Impiegò qualche minuto a posizionarla e assemblarne i pezzi ma nessuno arrivò a disturbarla. Quando fu pronta controllò nuovamente le tasche dell’uniforme tattica per assicurarsi di avere tutto, poi premette il pulsante d’accensione e si allontanò di diversi passi.
La trivella astrale emise un fischio come una pentola a pressione, generò come prima cosa un campo magnetico che la tenne perfettamente perpendicolare al pavimento mentre iniziava a ruotare. L’energia degli astri si sprigionò esponenzialmente imprimendo una forza inaudita e l’aria si incendiò, il macchinario iniziò a scavare nel cemento e in pochi secondi precipitò nel piano sottostante e così via sempre più velocemente come se un piccolo sole stesse tramontando all’interno del palazzo. Quando l’energia si fu consumata la trivella si spense, decine di piani più in basso.
«Niente male, niente male davvero», mormorò Marit. «Abbiamo questo affare e ti sei buttato da un aereo?!».
«Non ha una carica infinita», protestò Testuggine. «Era per preservarla in modo che scavasse il più in profondità possibile…».
«Sappi che quelli dell’agenzia avevano ragione…».
Come risposta ricevette solo una grassa risata per cui si portò sul bordo del foro che era largo una spanna in più delle sue spalle per lato, impugnò entrambe le pistole e vi saltò dentro. Il piano sottostante era libero, c’era solo il cadavere di quello che sembrava un lupo con spine da istrice sulla schiena e dei denti a sciabola. Battè le ali una volta per evitare di accelerare troppo durante la caduta. Due piani sotto trovò Serpe e Testuggine che, nascosti dietro a un muretto si scambiavano proiettili con un paio di soldati.
«Il lupo l’avete trovato davvero!», esclamò dando un un colpo d’ali e approfittando della frazione di secondo in cui rimase sospesa per sparare a entrambi gli avversari, poi piombò nel piano di sotto senza sentire la risposta che le urlarono anche se distinse un dito medio per una frazione di secondo.
Un battito d’ali dopo l’altro discese tutti i piani sparando a tutto ciò che vedeva e ci mancò poco che freddasse per sbaglio anche Torpedine.
«Scusa!», esclamò sparendo nel pavimento.
«Guarda dove spari brutto allocco!».
Marit rise ma ebbe l’accortezza di non rispondere a tono, questa volta era in torto marcio. In breve tempo raggiunse il punto in cui la trivella astrale si era fermata e dischiuse le ali planando sul pavimento: non sarebbe stato saggio arrivare dritta come un fuso e poggiare i piedi su quella diavoleria, l’energia magica degli astri si era esaurita ma era ancora incandescente.
Il piano era pieno di scrivanie e non c’erano minacce visibili ma non era quello giusto e scendendo non aveva visto il laboratorio che avrebbe dovuto raggiungere, si vedeva che c’erano ancora altri livelli sotterranei.
«Forse Testuggine non aveva tutti i torti…», mormorò tra sé stiracchiandosi la schiena, le dolevano i muscoli delle ali per lo sforzo e sentiva le mani calde tanto aveva sparato.
Si avviò per le scale ritrovandosi in un piano identico per cui continuò a scendere per parecchie rampe tanto che iniziò a percorrerle correndo sulle pareti ad ali spiegate.
A un certo punto, discesa l’ennesima rampa, si trovò all’inizio di un lungo corridoio completamente bianco, l’unica eccezione era rappresentata da uno scanner neurale alla sua sinistra ma, dal momento che non possedeva né uno scienziato nemico vivo, né un’immagine delle sue reti neurali, sarebbe stato impossibile ingannare il sistema. Prese dalla tasca un disco di metallo e lo lanciò in mezzo alla stanza. Appena questo si fu ancorato a terra grazie alla base magnetica, si formarono delle fenditure sui lati e con uno scatto si schiuse e ne fuoriuscì un’antenna. Dal fondo del corridoio si aprirono due scomparti segreti da cui spuntarono le canne rotanti di una coppia di mitragliatrici gatling ma in una frazione di secondo altrettanti fulmini si dipartirono dall’antenna andando a colpire le armi fondendone i circuiti. Le canne rallentarono e si fermarono senza esplodere neanche un colpo.
Marit fu grata al suo sesto senso e percorse a passo veloce il corridoio che svoltava a destra aprendosi in una grande sala piena di frigoriferi, freezer, reagenti, centrifughe e sequenziatori. Al centro stava in piedi un uomo in camice che la squadrò con occhi sgranati, sovrastati da cespugliose sopracciglia. Teneva tra le mani un detonatore con un grosso pulsante rosso.
«Fermo», gli intimò Marit rinfoderando la sua pistola e lanciando dietro di sé quella di Serpe. «Cerchiamo di non fare stronzate».
Le mani grinzose dell’uomo tremavano ed erano lucide di sudore. Non proferì alcuna parola, magari non parlava la sua lingua o era semplicemente troppo teso.
«Non ho intenzione di ucciderti», disse in tono tranquillizzante tenendo le mani in vista e avanzando di un passo.
L’uomo premette il comando.
«Ma che cazzo!», inveì Marit.
Tuttavia, nessuna bomba venne detonata e non saltarono in aria.
«Ah… mi ero allarmata per niente».
Si aprirono invece due porte sul lato sinistro della sala da cui saltarono fuori altrettante tigri con zampe da babbuino le quali si scagliarono sullo scienziato sbranandolo e lanciando sangue e ossa in tutte le direzioni.
Marit rimase a bocca aperta.
«O forse no…», mormorò.
Abbassò la mano muovendola più lentamente che potè fino a raggiungere la fondina ma nel momento in cui la pistola scorse sul cuoio nell’essere estratta le bestie smisero di mangiare e alzarono la testa guardandola con occhi folli.
«Merda…».
Iniziò a sparare e le creature si lanciarono all’attacco ma i colpi andarono a vuoto dal momento che queste saltarono aggrappandosi ai tubi che correvano lungo il soffitto ondeggiando in un moto imprevedibile da una parte all’altra e Marit fu costretta a saltare di lato proprio mente dei denti aguzzi si serravano a pochi centimetri dalla sua spalla. Per sua fortuna il laboratorio era abbastanza ampio da poter schiudere le ali e riuscì a mettere una certa distanza tra sé e gli ibridi i quali ringhiarono di rabbia lasciandosi cadere a terra e nascondendosi tra i banconi da lavoro.
Marit tese le orecchie e spiò oltre l’angolo del bancone dietro al quale si era rifugiata, poteva sentire le creature ruggire e grugnire come se stessero comunicando ed essendo ibridi non era da escludere che si stessero accordando per una tattica d’attacco. Per loro sfortuna non erano scaltri come i loro creatori avrebbero voluto. Una volta individuati i banconi dietro ai quali si nascondevano, Marit ruotò una levetta incrementando al massimo la potenza della pistola vulcanica. Calcolando la traiettoria come meglio poteva la puntò dritta contro il bancone e fece fuoco: l’infusore divenne di un rosso abbagliante tanto da farle male agli occhi e il colpo produsse una vampata che quasi le scottò la mano e trapassò il legno del bancone e di quelli successivi come fossero burro aprendo un piccolo foro nella parete. Udì un guaito di dolore e una delle creature cadde con un tonfo. L’odore di carne bruciata si levò nell’aria assieme a quello del legno bruciato.
«Beccati questo!», urlò Marit con un ghigno.
La creatura gemella però non si diede per vinta e con un ruggito che sembrava più un ululato saltò fuori dal suo nascondiglio muovendosi ondeggiando sui tubi come aveva fatto poco prima.
Marit abbassò la potenza della pistola e sparò due colpi. Andarono a segno ma l’arma non aveva ancora fatto in tempo a raffreddarsi e i raggi scottarono la bestia dandone fuoco alla pelliccia ma non la fermarono.
L’ibrido le piombò addosso con tutto il suo peso gettandola a terra, riuscì a stento a bloccarne la testa prima che l’addentasse alla giugulare e ne sentì l’alito fetido riempirle il naso e la bava colarle su una guancia. La pistola le era sfuggita di mano per cui cercò di prendere il pugnale tenendo le fauci dell’animale alla larga con l’avambraccio ma questo mulinò le zampe squarciandole i pantaloni e lasciandole quattro lunghe ferite sulla coscia.
Marit raggiunse infine il pugnale che teneva nello stivale sinistro e lo piantò nel fianco della bestia per poi premere il pulsante che aveva sul manico: una scarica elettrica ne percorse la lama e in un fluido movimento diede uno strattone e aprì in due la creatura fino al mento. Il sangue caldo le colò addosso come un fiume impregnandole gli abiti, i capelli e le penne.
Facendo forza con entrambe le braccia sollevò il corpo esanime dell’animale e lo scagliò di lato togliendoselo di dosso. Si alzò e scosse le ali schizzando sangue sulle pareti. Venne percorsa da un brivido di disgusto e si passò le mani sul corpo per ripulirsi ma i vestiti erano ormai pregni della densa melassa che scorreva nelle vene dell’ibrido da combattimento. Sentì una fitta alla gamba e diede un occhio ai graffi.
«Che schifo…», mormorò vedendo che il sangue dell’animale le era colato anche sulle ferite.
Le pulì come meglio potè poi prese un cilindro da una tasca della giubba e lo premette sulla coscia, una moltitudine di aghi ne scaturì iniettandole una soluzione salina ricca di antibiotici che ebbe anche l’effetto di ricostruire l’epitelio. Sarebbe stato comunque meglio non sforzare la gamba per i giorni successivi ma al momento non aveva scelta. Prese una benda da un’altra tasca e l’avvolse stretta intorno alla coscia, poi fece un paio di passi saggiandone la stabilità. Constatato che poteva camminare senza problemi prese della carta dai rotoli che trovò nel laboratorio e si pulì le mani.
Una volta individuato un terminale sopravvissuto alla battaglia vi si avvicinò e collegò un’unità di memoria. Impiegò qualche minuto a trovare i file che stava cercando: sequenze di DNA, plasmidi, banche dati di sequenziamenti, genomi assemblati e loro varianti.
Mentre il computer copiava i dati si avviò alla porta che presentava un lettore retinico a lato. Aggrottò la fronte ma poi ricordò di avere a disposizione la chiave: raccolse la testa dello scienziato che aveva liberato gli ibridi e la staccò dalla colonna vertebrale con un calcio. Represse un conato di vomito, gli alzò una palpebra e avvicinò l’occhio al lettore. Dopo una rapida scansione si accese una luce verde e la porta si schiuse.
Marit gettò la testa ed entrò, la stanza era fredda e presentava una singola torre criogenica proprio al centro. Ne ruotò la parte superiore e questa si aprì con uno sbuffo di vapore, poi sollevò il corpo centrale che salì verticalmente in maniera fluida fino a bloccarsi con uno scatto a fine corsa. Prese da una tasca quella che sembrava una normale bomboletta spray di panna montata e la svitò rivelando un comparto refrigerato.
La torre criogenica era suddivisa in sedici colonne etichettate con un semplice numero tutto intorno al cilindro contenente azoto liquido. Per ogni colonna c’erano dieci piccole provette contenenti dei minuscoli embrioni. Ne prese tre per ogni tipo poi richiuse il contenitore refrigerato e senza darsi pena di fare lo stesso con la torre criogenica vi lanciò contro un disco magnetico e lasciò la stanza.
Il computer aveva finito di copiare i dati quindi scollegò l’unità di memoria e la ripose in una tasca, cancellò i dati del cloud e sparò un colpo a ogni hard drive. Come ultima cosa premette un pulsante e fece detonare il dischetto mandando in pezzi la torre criogenica, distruggendo i restanti embrioni.
Risalì le scale e tornò al piano più alto del palazzo ritrovandosi di fronte una figura longilinea che roteava una frusta elettrificata.
«Ah sei tu», disse Torpedine. «Cos’è tutto quel sangue?».
«Sangue misto, un po’ mio, un po’ di un tizio nervosetto ma per la maggior parte di un ibrido fetido», rispose Marit. «Ti trovo bene, non c’era poi tanto da lamentarsi no?».
Torpedine sbuffò.
«La missione?».
«Completata».
Marit oltrepassò il buco nel soffitto dal quale era entrata nell’edificio con un poderoso colpo d’ali e sopra vi trovò gli altri che l’aspettavano.
«Il jet passerà a momenti», disse Serpe agitando la lingua e armeggiando coi controlli in remoto sul terminale olografico portatile.
Torpedine li raggiunse sul tetto poco prima che l’aereo stealth col quale erano arrivati atterrasse in verticale di fianco a loro. Saltarono a bordo e Serpe si mise ai comandi riprendendo quota.
Marit si aggrappò a un sostegno e rimase in piedi osservando il canyon rimpicciolirsi man mano che si allontanavano, poi si sedette e massaggiò la gamba.
«Fottuti ibridi scimmia…».
«La mia pistola?», chiese Serpe.
Marit arricciò le labbra cercando una scusa.
«L’ha mangiata un ibrido scimmia», disse non trovando di meglio.
Testuggine rise.
Serpe fece guizzare la lingua, sibilando inviperito.
Marit lo ignorò facendo finta di niente.
«Un’altra missione perfettamente riuscita!».