FRANCESCO GOZZO
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l'ultimo padiglione

Genere:   fantascienza,   distopico.

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patroni

Il treno a levitazione magnetica rallentò senza emettere alcun rumore e si fermò alla stazione in un moto talmente armonioso che Alex non dovette nemmeno tenersi alle maniglie per rimanere in equilibrio. L’unico suono udibile, oltre al parlottare dei passeggeri, era il lieve ronzio delle nanomacchine, una vibrazione rilassante e familiare. Le porte si aprirono con un lieve fruscio dovuto allo strofinamento della superficie che scivolava all’interno della parete metallica. Alex scese superando il divario tra il treno e la banchina con un salto a gambe unite. Il sole del primo pomeriggio splendeva in un cielo terso.

«Andiamo mamma!», urlò strattonandola per la mano.

«Il museo non scapperà da nessuna parte», protestò lei rifiutandosi di mettersi a correre.

«Dobbiamo fare in fretta!», disse Alex senza darsi per vinto.

La madre sorrise e scosse la testa.

«Tu vai pure avanti», disse. «Ci vediamo al parco».

«Davanti alla statua?».
​
La madre annuì quindi Alex scattò avanti aprendo le braccia come fosse un aereo e imitandone il rombo dei motori, zigzagando tra la gente. Quando arrivò alla rampa di scale discese i gradini a due a due saltando a piedi uniti come facevano quei canguri che aveva visto in un vecchio documentario. Attraversò la strada e raggiunse il Parco Ester Riiga, intitolato all’architetto e ingegnere che l’aveva disegnato.

Smise di correre, c’era un’armonia perfetta che non si percepiva in nessuno degli altri parchi: il pavimento della piazza pentagonale era decorato a mosaico utilizzando la tassellatura di Penrose, basata sulla sezione aurea, e gli alberi erano stati posizionati su basi cilindriche in marmo bianco secondo una successione di triangoli aurei inscritti nel pentagono. Si percepiva un senso di perfezione geometrica che assaliva lo sguardo. L’acciaio inossidabile era stato plasmato a formare le piante con maestria tale da far pensare che l’artigiano avesse il potere di piegare il metallo alla sua volontà a formare ogni ruvida asperità dei tronchi, il reticolo dei rami e le sottili lamine che davano forma alle foglie delle querce, con i margini lisci e curvi, le venature in rilievo come se la linfa scorresse al loro interno. Alex accarezzò una foglia di uno dei rami più bassi, pareva soffice al tocco. Girò intorno agli alberi che si stagliavano brillanti, riflettendo la luce del sole come lance. Pian piano procedette, accompagnato dal lieve ronzio delle nanomacchine, fino a raggiungere la statua al centro della piazza. Rappresentava una donna con una mano al fianco e l’altra come a indicare il paesaggio intorno, l’epigrafe riportava l’incisione: Ester Riiga, tramite le nanomacchine rinvigorì la speranza in questo mondo.

«Piccolo», si sentì chiamare alle spalle. Sua madre era arrivata e gli tendeva una mano. «Andiamo».

Alex prese la mano che gli veniva offerta e insieme si incamminarono verso l’entrata del museo: un arco in pietra con l’incisione “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Alex adorava andare al museo e di solito si soffermava sull’antichità, osservando gli utensili dei primi uomini, i sarcofagi dell’antico Egitto, le statue greche e romane e i prodigi della tecnica realizzati da inventori come Leonardo da Vinci. Ogni tanto gli piaceva anche osservare i dipinti ma questa volta non si soffermò nei padiglioni che conosceva bene ma volle esaminarne uno nuovo, quello della storia contemporanea che recava una scritta inquietante al suo ingresso.

«Il declino dell’umanità», lesse ad alta voce.

Sembrava una frase inquietante e non l’aveva mai spronato a visitare quel padiglione. A scuola non erano ancora arrivati a studiare quegli anni di storia ma, come tutti, sapeva del periodo buio dell’umanità e aveva sempre provato una certa inquietudine nello scoprire di più sull’argomento. Tuttavia, era grande ormai, si disse. Doveva farsi coraggio. Mise su il cipiglio più serio che gli riuscì di ottenere e oltrepassò la porta a grandi passi. Il padiglione era enorme ma era diviso in sole cinque tappe, la prima delle quali era dominata da un diorama raffigurante una grande città affollata da grattacieli, traffico e aerei. Si avvicinò al poster che titolava “Massimo splendore – anno 2150”. Iniziò a fare il conto degli anni ma scoprì che non gli bastavano le dita e decise di arrendersi.

«Erano anni di grandi scoperte. L’esplorazione del cosmo si era fatta più facile grazie alla stazione spaziale internazionale di seconda generazione», disse sua madre. «E oltre all’infinitesimamente grande, erano anni di scoperte anche riguardo l’infinitesimamente piccolo», continuò. «Le domande che da millenni tormentavano i filosofi, come “chi siamo”, “da dove veniamo” e “dove stiamo andando” avevano trovato, grazie alla biologia, una risposta più semplice di quanto non si credesse e, grazie alla medicina, sembrava che le malattie stessero pian piano sparendo».

Finora niente di nuovo, sapeva già queste cose, quindi procedette a piccoli passi mosso dalla morbosa curiosità di vedere cos’era successo dopo. La scritta sul cartellone successivo era decisamente meno positiva.

«L’inizio del declino, anno duemiladuecento», lesse a voce alta.

Di seguito era riportata una citazione di Paul L. Marino, un medico specializzato nella terapia intensiva: “La prima regola degli antibiotici è cercare di non usarli, la seconda è cercare di non usarne troppi”. Il problema dell’abuso e dell’utilizzo inappropriato degli antibiotici, spiegava il cartellone, è che contribuisce alla comparsa di batteri resistenti. Infatti gli antibiotici uccidono i batteri che causano le malattie così come quelli buoni che proteggono il corpo dalle infezioni. I batteri resistenti sopravvivono e, privi di competizione, possono crescere indisturbati. Le persone avevano iniziato ad auto-prescriversi gli antibiotici in base alle informazioni che trovavano online, senza la prescrizione di un medico qualificato. Inoltre, l’uso sistematico e massiccio come promotori della crescita nella zootecnia aveva contribuito fortemente allo sviluppo di batteri multi-resistenti.

«Molti li usavano per trattare infezioni virali come il raffreddore», disse sua madre. «Anche se, ovviamente, gli antibiotici non hanno effetto contro i virus».

Alex inarcò un sopracciglio, con tutte le meraviglie che l’umanità aveva creato già molto prima del duemiladuecento gli sembrava strano che le persone potessero essere state così stupide.

«Ma se quegli antibiotici non funzionavano, come mai non ne hanno fatti altri?».

«Beh non è così semplice, la ricerca di nuovi farmaci che incontrassero una minore resistenza richiedeva forti investimenti e le case farmaceutiche erano riluttanti a farli poichè poi la prescrizione di questi antibiotici su vasta scala sarebbe stata scoraggiata per ritardare lo sviluppo di farmacoresistenze e non avrebbero potuto vendere i loro prodotti per rientrare del capitale», gli spiegò sua madre. «E poi a quel tempo, la situazione non era ancora così critica, ma lo sarebbe diventata presto».

Alex trotterellò avanti fermandosi davanti al poster con il titolo “La crisi farmaceutica – anno 2250”. Subito sotto al titolo c’era uno schema che illustrava la sequenza ideale di un progetto di produzione di un farmaco. Durante la prima fase, che poteva durare da due a cinque anni, chiamata “Scoperta dei farmaci”, le molecole candidate venivano scelte in base alle loro proprietà farmacologiche e, da circa un centinaio di composti iniziali, ne venivano selezionati una ventina che passavano alla fase successiva chiamata “Sviluppo preclinico”, la quale poteva durare da uno a due anni, mentre venivano eseguiti test di tossicità e analisi farmacocinetiche. Della ventina di composti, solo una decina rispondevano con successo e passavano alla terza fase, che poteva durare da cinque a sette anni, chiamata “Sviluppo clinico”, in cui venivano testate l’efficacia e gli effetti collaterali dei composti in volontari e pazienti. La decina di composti veniva ridotta a un massimo di uno o due. In seguito era necessario ottenere l’approvazione delle autorità, un processo che poteva richiedere da uno a due anni per poi ottenere un singolo farmaco approvato per il lancio sul mercato. Dopo aver letto tutto, Alex si prese un po’ di tempo per fare i conti sulle mani mormorando a bassa voce.

«Ci vogliono da nove a sedici anni per il processo intero!», esclamò sgranando gli occhi. «Ma è tantissimo tempo!».

«E questa è la sequenza come è stata dagli anni duemila al duemiladuecento», disse la madre. «Nel duemiladuecentocinquanta, come dice il poster più in basso, queste tempistiche sono più che raddoppiate».

Alex spalancò la bocca.

«Produrre farmaci era diventato un processo sempre più lungo, dispendioso e difficile», continuò sua madre. «Proprio a causa dei ceppi batterici multi-resistenti che sviluppavano farmacoresistenze a tutti i nuovi antibiotici poco tempo dopo che venivano scoperti».

Alex annuì e continuò a leggere. Le righe finali del pannello descrivevano come malattie un tempo ritenute poco più di una semplice seccatura erano diventate incurabili. Inoltre, tutte le risorse che richiedeva lo sviluppo di nuovi antibiotici aveva indebolito la lotta alle malattie virali che infettavano facilmente le persone con il sistema immunitario già indebolito dalle infezioni batteriche. La pandemia del duemiladuecentoquarantacinque, in soli cinque anni, decimò la popolazione mondiale.

«Ma come hanno fatto a sistemare le cose?».

La madre lo guardò con un sorriso triste.

«Non l’hanno fatto, piccolo».

Alex guardò avanti al cartellone successivo e mormorò il titolo.

«L’umanità si estingue, anno duemilatrecento».

Non si erano mai ripresi quindi, si erano estinti. Aveva sperato che i libri di fantascienza che aveva letto avessero ragione a raffigurare degli esseri umani nel futuro e anche se non ne aveva mai visti in carne e ossa aveva sperato che da qualche parte fossero sopravvissuti.

«Sono morti proprio tutti?».

«No, ma allo stesso tempo nessuno di loro è in vita», disse la madre. «Prima che giungesse la fine per la loro specie, hanno inviato delle navi-colonie, piene di embrioni in ibernazione, verso tutti gli esopianeti che potrebbero ospitare vita biologica».

«Tutte queste navi», chiese Alex. «Sono arrivate?».

«Nessuno lo sa, il viaggio che hanno intrapreso durerà milioni di anni», rispose la madre. «Nessuno sa quando o se arriveranno a destinazione e nemmeno se le condizioni dei pianeti saranno compatibili con la vita o se gli embrioni riusciranno a svilupparsi e a costituire una società sotto la cura degli androidi che li accompagnano».

Alex annuì guardandosi la punta dei piedi, poi alzò la testa di scatto.

«Mamma!», urlò allarmato. «Non è che quei batteri possono fare del male anche a noi?».

«È impossibile, piccolo, gli organismi biologici non possono infettarci», rispose lei. «Ma per sicurezza sono stati completamente debellati».

Alex fece un paio di passi in avanti seguendo sua madre fino a trovarsi davanti all’ultimo dei poster che titolava “Le nanomacchine e l’era degli androidi – dal 2300 ad oggi”. Il testo non era lungo e recitava: gli organismi organici, microorganismi compresi, sono stati estirpati dal pianeta grazie alle nanomacchine atte a scindere i legami peptidici delle proteine. Oggi, gli stormi di nanomacchine mantengono il globo privo di vita biologica.

«Allora non c’è davvero nulla di cui preoccuparsi», disse Alex con un sorriso.

«Infatti. La terra è finalmente in equilibrio», disse la madre, poi lo prese per mano. «Andiamo a prenderci una bella ricarica, ti va?».

«Siii!», esclamò Alex, adorava le ricariche.

​Uscirono mano nella mano dal museo, addentrandosi nel parco d’acciaio modellato, accompagnati dal rassicurante ronzio delle nanomacchine.
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